“The Act of Killing”. L’impunità e la performatività della memoria

Pubblichiamo un estratto del saggio di Alice Cati sul penultimo film di Joshua Oppenheimer The Act of Killing. Il saggio di Cati fa parte del numero 23, “Azione”, della rivista «Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni».

In due gesti, due performance quasi spontanee, sembra inchiodarsi la natura profondamente incline alla vanità di Anwar Congo e Herman Koto, entrambi fini esecutori del mandato genocidiario nell’Indonesia degli anni Sessanta. Il primo gesto riguarda il momento in cui il torturatore Congo accenna alcuni passi di cha cha, nel luogo dove circa cinquant’anni prima ha strangolato centinaia di vittime con il fil di ferro. La camera riprende impassibile, mentre lo sguardo dietro l’obiettivo inorridisce. Nel rivedersi, più avanti nel film, l’uomo commenterà di aver sbagliato a indossare dei pantaloni bianchi, poco adatti all’azione cruenta recitata.

Il secondo momento è una vera e propria performance attoriale, con tanto di costume di scena. Koto esibisce infatti il proprio corpo sfatto, avvolto in uno sgargiante abito fucsia da drag queen. Un campo medio ce lo offre seduto senza grazia su una sedia, le gambe accavallate, il petto orgogliosamente curvato in fuori, mentre dirige la coreografia di ballerine di cancan, incitandole a essere più sensuali. Ci troviamo sulle rive di un lago e queste figure surreali paiono essere uscite dalla bocca di un’immensa struttura a forma di pesce.

Il documentario The Act of Killing (Joshua Oppenheimer, 2012) non vuole essere la storia dell’eccidio perpetrato in Indonesia dall’ottobre 1965 al marzo 1966, durante il quale la dittatura militare del generale Suharto ha annientato un imprecisato numero di vittime, oscillante tra cinquecentomila e due milioni di persone. Pur non spiegando le dinamiche politiche e sociali che portarono a questi fatti orrendi, il film lavora sul vigente regime di impunità, vale a dire la cornice di legittimazione politica per quelli che universalmente sono stati riconosciuti come crimini contro l’umanità.

Per compiere lo sterminio, oltre alle proprie forze militari, il regime assoldò numerosi mercenari, delinquenti locali, uomini semplicemente assuefatti al sadismo[1]. È dunque quanto mai urgente puntare i riflettori sulla sopravvivenza nell’ordinario di una logica esistenziale e sociale allo stesso tempo, fondata sia sull’annientamento dell’altro, sia sul godimento non solo generato dall’atto criminale in sé, ma addirittura perpetuato dall’assenza di una sanzione.

Quando il vincitore è il senza falsi pudori. Quando le pulsioni sadiche del passato continuano a irrorare il presente, allora il seme della violenza ha messo radici talmente profonde da diventare lo scheletro di una realtà macabra e moralmente vuota.

Muovendo da alcuni assunti della filosofia pratica rielaborata da Hannah Arendt, si cercherà di osservare come il film sia una testimonianza delle letali conseguenze recate dalla svalutazione dell’agire politico, secondo l’assioma che vede nell’azione quella dimensione della vita activa, autenticamente umana, dedita al bene pubblico.
Poiché l’indebolimento dei legami sociali, in ogni dominio totalitario, si fonda sull’estraneazione dall’agire politico autentico, bisogna chiedersi se l’atto commesso e instancabilmente ri-presentificato nella memoria, nel racconto epico di questi finti eroi, nella glorificazione del discorso pubblico, sia davvero da calare nella sfera dell’azione o, al contrario, in quella di una sterile passività volta a sradicare il soggetto dalla condizione umana della pluralità.

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L’idea centrale di Oppenheimer consiste in fondo nel ri-presentificare i gesti di oltraggio all’agire politico allo scopo di comprendere come anche l’assenza di una riparazione della memoria e dei suoi traumi sia un ulteriore impedimento dell’azione nella sua tensione verso il bene pubblico.

Re-enactment

Senza svelarne mail il plot, il film documenta le fasi di realizzazione di un film, ideato e concepito da alcuni esponenti dell’organizzazione paramilitare Pemuda Pancrasia, ai quali è stato affidato il compito di rimettere liberamente in scena i massacri di cui si sono macchiati in passato.

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Ibridando un immaginario che attinge per le sequenze surreali all’horror-fantasy indonesiano, mentre per le scene di tortura e le rappresaglie dai gangster movie, dai western e dai war film, la riattualizzazione del trauma inflitto[2] si accompagna  qui alla vera e propria incorporazione del gesto traumatico.

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La messa in scena dunque ripropone dunque lo stato di crudeltà, la gratuità delle violenze subite dalle vittime, la reiterazione di un programma narrativo fatto di gesti compulsivi, dove la macchina da presa prende il posto dell’istanza dominatrice del regime, la prima vera regia delle azioni compiute dai criminali. Molti, abituati alla recitazione grazie alla pratica nel laboratorio teatrale del Pemuda Pancasila, interpretano letteralmente la loro parte, ricompiendo i medesimi atti e ripetendo le stesse parole. Questo significa rivivere nel proprio corpo l’esperienza passata[3], come se la memoria dei gesti si fosse sedimentata a tal punto da poter essere riattivata in modo automatico.

Colpa

La performance fa parte di un lavoro analitico che si confronta con la memoria sotto il suo profilo ineludibilmente performativo, perché quella che appare come un’esibizione cinematografica altro non è che un modo di rappresentare la memoria come processo, nel suo fluire, nel suo farsi.

A ciascuno è offerta la possibilità di riconoscere la responsabilità individuale nel compimento di un’azione, insieme alla visione di un lato bestiale del sé, eppure coesistente con quello umano. Nella più concreta prospettiva che in realtà questa coesistenza sia del tutto banale e ordinaria. Il ribaltamento avviene ogni volta che i protagonisti del film riesaminano le scene girate.

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Si pensi al momento in cui Congo rivede nel salotto di casa il suo attacco di panico, mentre interpreta la parte di un comunista torturato dai suoi aguzzini. L’uomo chiama a sé i due nipoti, rassicurandoli del fatto che quanto sta mostrando loro è semplicemente un film.

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Per tutto il film, infatti, la realtà resta il dominio delle vittime, completamente assenti, senza volto, come se una qualsiasi loro vera immagine non possa essere restituita dalle parole e dai gesti dei carnefici.

Karma

Un’altra potente sequenza ci avvicina alla sensibilità culturale del mondo indonesiano. Con una panoramica verticale che segue una maestosa cascata, la macchina da presa in quadra Anwar che indossa una tunica nera e Herman in un appariscente abito femminile turchese, entrambi circondati da giovani ninfe danzanti. Nella solennità di una melodia corale, le gonne di tulle vaporose, le labbra rosse e smaglianti, i movimenti suadenti sono riprodotti attraverso un marcato effetto flou, che conferisce un tono kitsch al rito messo in scena.

La camera stacca su due uomini che con un gesto lento e coordinato si estraggono dal collo un fil di ferro. Uno di loro si volge verso Anwar per mettergli di rimando una medaglia d’oro al collo. Stringendo la mano dell’uomo, lo ringrazia per averlo eliminato.

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Nel film non è affatto ignorata la credenza nella legge induista del karma, secondo la quale ogni azione si ripercuote sulla condizione morale e spirituale degli esseri senzienti, coinvolti nel ciclo delle rinascite.

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Poiché l’azione che ha dato origine alle atrocità ha conseguenze illimitate, nel senso che ogni azione prevede una reazione, capace a sua volta di essere un’azione che dà origine a qualcosa[4], la paura di possibili ritorsioni (da parte dei fantasmi, dei familiari delle vittime, o dell’influenza delle istituzioni internazionali sulle politiche interne) prende il sopravvento[5].

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Ogni cultura del ricordo si fonda sulla ripetizione dei processi performativi (cerimonie commemorative, riti e rituali, spettacoli e altri eventi culturali), dai quali fa dipendere tanto la propria coerenza culturale, quanto un’accessibilità condivisa al passato.
La memoria verte in questo modo su un’interpretazione mediata dalla corporeità, perché l’insieme dei gesti, che vedono gli individui impegnarsi fattivamente nell’elaborazione di un passato individuale e comune, costituisce le cosiddette pratiche sociali della memoria. Attraverso la memoria individuale e collettiva, la ricostruzione del passato coincide con una creazione di realtà, dal momento che il ricordo produce il passato che intende descrivere.

Non dobbiamo quindi trascurare che The Act of Killing non solo piega l’immagine documentaria alla riflessione sul valore performativo dell’atto di memoria, ma rappresenta anche una una vera e propria azione per «ri-stabilire relazioni e creare una nuova realtà»[6].

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Note

[1] Il film è stato accusato di aver eccessivamente spostato l’attenzione sull’opera criminale di gangster, soggetti socialmente deviati, anziché sulle responsabilità delle istituzioni politiche a quel tempo in carica. Si vedano a titolo esemplificativo gli articoli apparsi su Inside Indonesia, “Truth takes a while, justice even longer” e “An act of manipulation?”.

[2] Rispetto alla strategia del re-enactment nella scrittura documentaristica, si rimanda a D. Boyle, Trauma, memory, documentary. Re-enactment in two films by Rithy Panh (Cambodia) and Garin Nugroho (Indonesia), in Documentary Testimonies. Global Archives of Suffering, a cura di B. Sarkar, J. Walker, Routledge, New York/London 2010, pp. 155-172.

[3] C. Demaria, S21, La macchina di morte dei Khmer rossi: memoria dei corpi e finzione della realtà, in Testi e memoria. Semiotica e costruzione politica dei fatti, a cura di M. P. Pozzato, Il Mulino, Bologna 210, p. 60.

[4] H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2005, p. 139.

[5]  Meriterebbe senz’altro una lettura approfondita la sequenza finale, nella quale Anwar, una volta ritornato sulla scena delle sue torture, viene assalito da attacchi di vomito. Qui la camera reagisce con la medesima freddezza e distanza dimostrata durante le divertite confessioni dei propri crimini.

[6] H. Arendt, Vita activa, cit. p. 146.

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