Tra il 5 e il 7 novembre del 1994, le precipitazioni piovose causarono allagamenti, esondazioni e inondazioni in molte province del Piemonte: Cuneo, Alessandria, Asti e Torino furono le più colpite, i morti furono circa settanta, e circa duemiladuecento gli sfollati; i danni ammontarono a circa 10mila miliardi di lire. Molti danni e conseguenze furono provocati dall’esondazione del Tanaro e dai seicento millimetri di pioggia caduti in quarantotto ore.
Riflessioni sul ventennale dell’alluvione in Piemonte
Anche lo stabilimento Ferrero di Alba fu invaso dall’acqua, costringendo operai e volontari a un tour de force per lo sgombero del fango e dei detriti. La fabbrica riuscì a riaprire i battenti a fine dicembre, giusto in tempo per gli acquisti del periodo natalizio. Questa rappresentazione è uno dei tanti casi di narrazione retorica di un disastro, o meglio, della rinascita post disastro; parlare dei sopravvissuti che si rimboccano le maniche, della laboriosità dei cittadini e degli imprenditori, di caratteri indomiti capaci di rispondere alle avversità con orgoglio e dedizione rientra a pieno in una vulgata che preferisce puntare l’attenzione su questo piuttosto che sulle vere responsabilità di inondazioni, crolli o mancati soccorsi. È accaduto di recente in Emilia, a L’Aquila e a Genova.
Una riflessione diversa, di natura storico-sociale, dovrebbe mettere l’accento sulla scomparsa di alcuni saperi tradizionali, sul ridimensionamento numerico e la mutata rilevanza sociale dei contadini e di una generazione attenta ai messaggi della natura, quello stesso popolo cui Nuto Revelli, eminente ricercatore piemontese, ha dato voce in alcuni suoi libri intensi e pieni di suggestioni (L’anello forte, Il mondo dei vinti, Il popolo che manca).
Riprendendo i giornali dell’epoca, si leggono requisitorie e accuse contro i “ladri di territorio”, contro l’edilizia selvaggia, l’asfalto e il cemento, citando i milioni di ettari di verde sottratti alla natura e destinati a costruzioni e urbanizzazioni. La polemica politica dell’epoca si scagliava, in particolare, contro i condoni edilizi, tra cui quello che aveva condonato la costruzione di centosettanta dighe in tutta Italia.
L’altra polemica riguardò la Protezione civile; da due anni era stata promulgata la legge 225, che ne stabiliva regole e responsabilità; nasceva il Servizio nazionale di Protezione civile, articolato su base nazionale, regionale e comunale, e del Servizio facevano parte a tutti gli effetti le associazioni di volontariato. La responsabilità apicale era affidata al presidente del Consiglio dei ministri che si avvaleva del Dipartimento nazionale della Protezione civile, introducendo, oltre all’intervento in emergenza, anche il concetto di previsione e prevenzione tra i compiti del Sistema.
Il disastro in Piemonte rappresentò il primo banco di prova concreto per la nuova impostazione dell’intervento statale in caso di calamità; tuttavia, la macchina complessa sembrò mostrare qualche pecca, sia per i soccorsi che giunsero in ritardo, sia per la sottovalutazione delle allerte lanciate nei giorni che precedettero le precipitazioni.
Oggi la situazione è ancora più grave e puntualmente, ma non fatalmente, ogni autunno porta con sé allagamenti, frane, alluvioni e inondazioni; basti pensare al fatto che in Piemonte sono state annullate o rinviate molte commemorazioni a causa dell’ennesima allerta meteo, proprio nei giorni dell’anniversario. I primi giorni di novembre restituiscono purtroppo una triste ricorrenza: Firenze 1966 (4 novembre), Genova 2012 (4 novembre), oltre al Piemonte nel 1994 (5-7 novembre).
Questa volta, oltre a numerose località italiane tra cui la capitale, a Carrara il fiume Carrione è esondato in più punti; gli argini del fiume erano stati rinforzati nel 2007, a seguito dell’alluvione del 2003, ma i soldi spesi per questo intervento non sono evidentemente bastati.
La novità lessicale è quella delle “bombe d’acqua” che hanno sostituito i forti temporali, costituendo un fenomeno atmosferico nuovo, ma che risulta difficile slegare completamente dal cambiamento climatico e quindi, anche in quel caso, dall’antropizzazione e dallo sfruttamento dissennato delle risorse. La triste realtà è che qualsiasi pianificazione, qualsiasi intervento che abbia come obiettivo la messa in sicurezza del territorio viene fagocitato e surclassato a vantaggio di altri interventi infrastrutturali, oppure si blocca tra le pastoie della burocrazia e della mala amministrazione.
La prevenzione dai disastri è una ferita aperta, quindi, un punto dolente della programmazione politica in materia ambientale, un problema culturale oltre che politico.
Diceva Marcel Roubalt, un geografo francese: «Ho sempre sentito il peso terribile dell’espressione “era imprevedibile”, impiegata da uomini la cui ignoranza è imperdonabile, che cercano di coprire le proprie responsabilità: perché, se l’uomo non può impedire tutto, può prevenire molto: e ben pochi sono i disastri di fronte ai quali non resta che chinare la testa a piangere i morti».