Sogno di Maradona

L’infinito giocare.

“Daje, va. Damo soddisfazione ar popolo”

Pier Paolo Pasolini, Accattone (1961)

Per gentile concessione di José Muñoz ©, Quattro disegni su Maradona, 1991/92. (Tutti i diritti riservati).

Era di maggio: una moltitudine di sventurati materializza i propri sogni tramite la guida di un condottiero plebeo, nobile, intelligente, furbo, fragile, comunista e un po’ pazzo. Il gesto di Maradona inventa, provoca e dà una forma alle passioni, attese, paure, desideri di chi non aveva altro che illusioni perdute; le canoniche illusioni di chi è destinato a perdere e a godere della propria marginalità.

Maradona si fa carico di tutto questo, di una storia lunga e travagliata che è anche la sua, riuscendo però a produrre una frattura: penetra le viscere della città, dà a queste allucinazioni una vita e le conduce sino alla vittoria.

Nell’universo del più grande spettacolo globale, nel circo che unisce il mondo, il calcio, Maradona rovescia il tavolo e rivela la propria radicale indocilità. È il più forte di tutti (prima e dopo di lui non ci sarà un altro come lui), perché gioca al massimo il gioco del calcio, ma va anche oltre il calcio stesso: è il più veloce nel gesto e nel pensiero, rende semplicissime le cose più difficili, portando quindi a compimento le estreme possibilità del gioco, ma, allo stesso tempo, eccedendo i suoi limiti riconosciuti.

Per questa ragione, i due gol contro l’Inghilterra di Messico ’86 effettivamente assumono la capacità di rappresentare per intero il doppio genio di Maradona, il suo essere compimento ed eccedenza del calcio.

Per gentile concessione di José Muñoz ©, Quattro disegni su Maradona, 1991/92. (Tutti i diritti riservati).

Era di maggio: eravamo sugli spalti il pomeriggio del primo trionfo; divorammo poi una notte interminabile; eravamo a Stoccarda e sul treno verso Bologna; eravamo sulle gradinate del meraviglioso catino di Fuorigrotta, segnato da un brutalismo e anacronismo speciali, la prima volta quando si pareggiò con la Sampdoria. Non mancammo nel pomeriggio del gol al Verona e della tripletta alla Lazio. Balzammo come tigri all’ultimo istante in una interminabile partita di coppa Uefa contro la Juve che i calciatori, in realtà, stanno ancora continuando a giocare.

Potremmo proseguire ancora a lungo con questa lista, per principio sconfinata, perché non abbiamo mai disertato, neanche dopo che Maradona ha lasciato la città: presidiamo ininterrottamente gli spalti da trent’anni perché, in fondo, da lì non ci siamo più mossi. Siamo rimasti inchiodati, consapevoli o meno, a quello spazio, a quel tempo, al tempo in cui i sogni prendono forma e annientano la realtà perché diventano essi stessi materia.

L’estasi di quel sogno perdura e, perseverando, ha definito la carica simbolica delle nostre esistenze, di chi ha vissuto la felicità e il privilegio di quel tempo in grado di sospendere il tempo e d’infrangere, letteralmente, le regole del gioco. Storia, mito, discorsi, strategie, lotta mettono in gioco il nome di un condottiero in grado d’inventare, dentro uno stadio di calcio, il conflitto portando dietro di sé una marea di diseredati.

Adesso però che se n’è andato iniziamo a morire anche noi e finalmente diventiamo fantasmi.

Per gentile concessione di José Muñoz ©, Quattro disegni su Maradona, 1991/92. (Tutti i diritti riservati).

Il rischio di essere accusati di intellettualismo, anche dagli amici più cari, più in grado di comprenderci, è grande e per noi, se fosse vero, sarebbe una bella ferita. E tuttavia arrischiamo. Consideriamo infatti Maradona una formidabile “figura concettuale” nel senso che il filosofo francese Gilles Deleuze dà a questa nozione: quando un nome proprio esce fuori di sé, abbandona il soggetto che porta quel nome, e penetra in una trama di relazioni in cui diventa una forza capace di condensare la potenza di un gesto, la ragione di una vita.

Una figura concettuale che quindi, anche al di là della sua sostanza storica, è in grado di indicare vie di fuga, d’immaginare un altro modo di stare al mondo e di vivere altrimenti da come vive chi normalmente non ha niente.

Maradona è il nome dell’innocenza che precede ogni colpa e innocenza, che, quando giochiamo, ci rende anche candidamente violenti. Quando gioca per il Napoli, Maradona condensa e sprigiona una fittissima rete di relazioni e rituali: padri, figli, zii, cugini, sorelle, nipoti, amici degli amici, che si muovono tutti insieme verso un tempio di nuovo pieno. Evoca l’anamnesi inscalfibile di pranzi domenicali consumati in orari indecorosi, di caffè Borghetti, di attese estenuanti e sbalorditive, di pomeriggi di pioggia in cui lo stadio diventa improvvisamente una scena incantata di un film di Angelopoulos. È la sospensione della legge e l’irruzione ciclica di uno stato d’eccezione.

Per gentile concessione di José Muñoz ©, Quattro disegni su Maradona, 1991/92. (Tutti i diritti riservati).

Abbiamo pagato e paghiamo un prezzo elevatissimo per questo immenso privilegio assaporato da ragazzi: vivere con il futuro alle spalle; sciupati in biografie alla dannata ricerca della ripetizione di quell’estasi e felicità. Di una gioia talmente grande che, in fondo, si rivela, più che mai adesso, indescrivibile. Abbiamo gustato, con Maradona, l’esperienza più sublime che si possa fare: percepire la terribile bellezza della vita.

Maradona è in grado di provocare una comunità che non esiste; aggrega le separazioni, lascia sognare l’impossibile e lo realizza. Incarna un piacere che non si lascia normalizzare, perché non riduce ogni cosa alla cattura dell’oggetto, alla logica del successo a qualsiasi costo, ma senza tregua riapre il desiderio, perché non gli fornisce mai una misura, un tempo, una cornice predefinita.

La sua logica è quella dei sogni, dove principi di causalità, nessi logici, la distinzione tra il bene e il male, evaporano. Giocare, giocare di nuovo, ricominciare sempre a giocare viene prima di ogni altra cosa. Perché il gioco, nella sua infondata gratuità, conferisce un sentimento di gioia eccedente alla sperimentazione del piacere dell’apparenza. Maradona è la possibilità di essere interamente umani che si apre solo dove si gioca, un ininterrotto costruire e distruggere che, in un’innocenza eternamente uguale, in questo mondo possono irrompere solo attraverso il gioco dell’artista-fanciullo, la possibilità, scandalosa, che il corso del mondo possa essere, come diceva Eraclito, un fanciullo che gioca.

Proprio per questo, non è nella trama della storia, di vicende biografiche comuni, segnate da esperienze, memorie, ricordi personali, che si può anche solo sfiorare ciò che Maradona ha incarnato. Sarebbe infatti troppo facile e sentimentale relegare la sua irruzione nel mondo, l’evento della rottura che incorporava, alle nostre storie, al loro canonico fluire. Lo possiamo fare (ed è forse quello che stiamo facendo), ma ci sfuggirebbe probabilmente l’essenziale: Maradona è un evento differente; è un’altra cosa, è propriamente ciò che resta intrattabile dal tempo. O meglio: come qualsiasi evento degno di questo nome, ritrae ciò che sfugge alle stesse cause che lo generano e che in fondo, come dimostrano le reazioni alla sua morte, la storia o non è in grado di interpretare, o rischia, con l’interpretazione, di neutralizzare, sfalsare, perdere.

Essenzialmente Maradona non è faccenda che riguarda la storia e per questo motivo forse la sua storia, quando ha smesso di giocare, non è più una faccenda che ci riguarda; a meno che la sua intenzione non fosse sempre e comunque, pure quando, ad esempio, prova a fare l’allenatore, cioè, ad assumere una forma di vita estranea alla sua vita, di continuare a giocare, ossia, di rifiutare il mondo degli adulti (vale a dire, il “realismo capitalista”!). 

P.E., Santo Maradona, Quartieri spagnoli, Napoli, 2019 (dettaglio dalla foto originale).

La vicenda di Maradona non riguarda il resto che viene dopo che ha smesso di giocare, come se da lui ci si potesse attendere una trasformazione, una metabolizzazione del tempo che passa. Maradona, al contrario, condensa tutto ciò che resiste alla storia, che da essa è intrattabile e che ha a che fare con la forma che assumono i sogni quando sono in grado di sprigionare un altro tempo nel tempo. Maradona, in questo senso, è e raccoglie il nome di un’epica, dell’unica forse oggi possibile.

Immaginiamo allora Maradona come Spartacus: il condottiero di un manipolo di poco di buono, straccioni, calciatori scadenti, esclusi, vagabondi, bambini, colui che, come lo schiavo condottiero, è riuscito a vincere e a tenere lontano l’impero. A Maradona, è certo, non si sono perdonate le vittorie, non si è perdonato di avere sfidato l’impero, di aver persino vinto e poi naturalmente perduto tutto (come accaduto in modo inequivocabile in Italia, dopo il Mondiale del ’90, e nei Mondiali Usa del ’94). Non si è perdonato di essere colui che organizza la marginalità, crea alleanze, amicizie inedite (proprio la sua vita, le sue amicizie, sono il suo genio più grande), e lascia uscire dal buio un intero universo di passioni, desideri, speranze. Non si è perdonato di essere colui che conduce il gioco del calcio oltre la (sua) storia e ne fa una inaudita forma di resistenza.

Per questo Maradona sopravvive attraverso la storia; è un vortice che s’ingrandisce perché diventa un punto di riferimento per chi osa l’imprevedibile, quando gli ultimi della terra, dopo aver sopportato di tutto, smettono improvvisamente di tollerare l’intollerabile e vogliono vincere. Maradona dà a tutto questo una forma, un’organizzazione, un obiettivo.

Tutto questo è andato perduto? La sconfitta è la testimonianza migliore per il valore della sua impresa: destituire il senso che il potere stava consegnando al nuovo spettacolo di gladiatori, il calcio, ma tentando di erodere questa trasformazione dall’interno, incarnando l’essenza del calcio. Soltanto il suo trionfale fallimento, di cui il suo corpo, i suoi corpi, portano il segno, è la conferma della grandezza fatale del tentativo.

I corpi di Maradona mostrano che il ragazzo non si è certo banalmente auto-distrutto. Nello scontro con la società dello spettacolo, dove contano performance, allenamenti estremi e partite senza sosta, questi corpi metamorfici e martoriati dall’interno sono piuttosto la cicatrice che il potere ha inciso, la ferita i cui lembi separano il mondo del gioco da un universo, il nostro, che a questo gioco non vuole partecipare, ma che cerca ormai solo la ripetizione di uno spettacolo rassicurante.

Probabilmente il suo urlo, il grido bestiale dopo il gol segnato alla Grecia a USA ’94, l’ultimo gesto prima del compiersi della catastrofe, è il segno più eclatante della sua denuncia e battaglia. Eppure, ancora una volta, Maradona va ben al di là di tutto questo; va al di là delle polemiche con Blatter, Pelé, persino degli incontri con i leader comunisti più amati (Fidel, Chavez).

La sua grandezza, la sua politica, sono forse altrove: nei gesti minimi, ad esempio nel culto dell’amicizia, testimoniato da tutti i suoi compagni di gioco, di un rapporto cioè non fondato su alcuna necessità, scopo o istituzione, che, per questo, è segnato sin dal suo scoccare da una mancanza di fondamento, dalla necessità di una separazione. In questo legame si condensa così potenzialmente la miccia anarchica di ogni principio veramente democratico che, neanche tanto paradossalmente, Maradona incarna in modo tragico.

Recentemente un filosofo napoletano, Bruno Moroncini, ha attribuito al gesto poetico di Pasolini una singolare carica politica legata a una forma estrema di masochismo. Pensiamo che ciò valga anche per Maradona: la sua politicità affiora, persino involontariamente e inconsciamente, perché Maradona fa parte della galassia dei rifiutati.

Il masochismo, l’eccesso, diventa allora l’unica forma possibile di esperienza effettiva e sincera nella società del godimento organizzato e controllato da chi gestisce i poteri economici e politici globali. In un mondo dove vivere si rivela una vergogna quotidiana, l’unica condotta ammissibile è provocare la condizione dell’essere-rifiutati, senza però diventare (o continuare ad essere) dei marginali, ma assaporando sino in fondo la contraddizione di essere “dentro, fuori, contro” l’universo che si abita.

Seguendo questo link, è disponibile la traduzione in inglese, francese, tedesco e spagnolo dell’articolo.

P.E., Santo Maradona, Quartieri spagnoli, Napoli, 2019.
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