#Emilia Fratture. Storie dal sisma

Vi proponiamo qui un collage di fratture, un flashback corale di quei vissuti da ricostruire, tratto da Fratture. Storie dal sisma un volume collettivo pubblicato lo scorso Novembre da Elis Colombini Editore.

Sono passati solamente 8 mesi dalle scosse di terremoto che hanno colpito l’Emilia lo scorso Maggio, ma fra alcuni blog indipendenti modenesi è nata già da tempo l’esigenza di iniziare a collaborare per provare a fissare su carta i vari piani di stravolgimento della quotidianità dopo il sisma e “contribuire a documentare la parte più intima e meno sensazionale che accompagna un evento di queste proporzioni”[1].

Dinanzi all’ennesima mediatizzazione del sisma, agita questa volta in forme differenti, fra la costante produzione di stereotipi e un assordante oblio, le redazioni di Il Rasoio, AppuntoBarabba LogFuoriTv e MUMBLE: hanno ribaltato la retorica della tragedia proponendo le loro auto-narrazioni, delle schegge di storie di vita di chi il terremoto l’ha vissuto. Ed è proprio l’alto valore testimoniale dei racconti e delle interviste (che prescinde dalla professionalità degli autori) il nucleo di questo libro, redatto con quella consapevolezza che permetterà “fra qualche tempo a tutti gli operatori della comunicazione, della storia e della sociologia di comprendere gli effetti delle macerie sul medio e sul lungo periodo”[2].

Proprio per questo vi proponiamo qui un collage di fratture, un flashback corale di quei vissuti da ricostruire, tratto da Fratture. Storie dal sisma un volume collettivo pubblicato lo scorso Novembre da Elis Colombini Editore.

“La cosa strana, è che più mi interessavo al dramma della bassa, più la frequentavo, meno mi interessavano gli articoli pubblicati sui quotidiani locali. E oggi quando vedo un servizio alla tv dai territori colpiti, cambio dopo pochi secondi canale. Sono diventati una prassi, un’abitudine per chi li produce e per chi li manda in onda. Finito l’entusiasmo. Finite le storie sul maxischermo. Chiuso il sipario. Al contrario i racconti delle persone comuni, lontane dal giornalismo e dall’informazione istituzionale mi appassionano come agli inizi.

Forse è stato questo uno dei motivi principali per cui è nato questo libro”

Ci siamo abituati, Claudio Cavazzuti, pp. 102-103

“Riprendiamoci. Come rialzarsi dopo una scarica di cazzotti ben assestata, una sassaiola data da qualcuno che le sa dare di santa ragione. Tanto efficace, feroce e tecnico che ti vien da ammirarlo per la dedizione che ci mette. Uno di quelli da cui le puoi prendere e basta. Chapeau. Riecco la corrente elettrica.
Io sono intero, tu sei intera, tutti qui attorno sono interi.

Step successivo: oddio i miei. Tutti i telefoni sono dentro. Nella casa che da ora in avanti ci sembrerà più un trappola per topi che un luogo dove riparare. Già la porta, orribilmente spalancata a mostrare parte del disastro che mi attende all’interno, mi appare temibile. Non andare. C’è tutto dentro, non è crollato nulla. Non andare. Vado, non resisto. Ho l’andatura del pollo che punta una beccata, guardingo e un po’ ballerino. La “mise” smutandata contribuisce all’effetto scenico della mia figura che non si addice allo scenario di una tragedia. Le bottiglie sono cadute lontano; le caffettiere, sempre pronte all’azione sul fornello, sono stese, morenti, sui fuochi; chitarra, basso e pedaliera sono coricati all’imbocco del corridoio. C’è luce proseguo, varco la porta, attraverso il salotto. Veloce. Veloce. Veloce. Brividi gelidi e un senso di malessere, come se fossi seguito. Arrivo in camera, accendo la luce. L’armadio è sdraiato là dove dormivamo fino a pochi secondi fa. Un corpo morto e le viscere di abiti colorati che sgusciano ai lati. Adesso sì. Adesso piango. Mano alla bocca, lacrime a fiume. I telefoni sono sul comò, vicini. Li afferro. Un particolare non quadra: non c’è più lo specchio, è sparito. A terra nemmeno una scheggia, seguo il drappo di un vestito e sotto il letto vedo la cornice, intonsa e il vetro senza nemmeno una crepa. Botta.

Il pavimento flette. Sono le gambe. Non sono le gambe. Via cristo, via. Cosa credo? Certe libertà non me le posso più permettere da ora in avanti. Non comando io. I tempi li stabilisce lui. Una manciata di secondi sono pure troppi: temporeggiare, osservare, riflettere è vietato. Un ringhio maschio e rozzo mi ricorda che ho invaso un territorio che non è più mio. Un giro panoramico nella casa che fu per me un rifugio è l’esca per trasformarmi ancora una volta nel suo giocattolo. Fuori in un baleno, almeno questa volta vedo dove vado. E ride, soffia, ruggisce. Si diverte, credo. Sono di nuovo scalzo sulla ghiaia e ho gli occhi lucidi. Umiliato. Smette.

Non ci torni più. No, ho capito. Ho i telefoni almeno. Mamma. Chiama. Muto. Babbo. Chiama. Muto. Come? Mamma. Muto. Babbo. Niente. E adesso? Stiamo calmi. Ambulanze, o Vigili del Fuoco? Ho paura adesso. Adesso ci sono troppe variabili e troppe domande. I dieci metri attorno a me sono ok, ma il resto? Il respiro mi strozza. Abbracciami perché non so che fare. Chiamo. Richiamo anche se so che non serve a niente. Però non si sa mai.
Botta.

Via dai muri, via da sotto i balconi, via dai pilastri del cancello. Via da qui. Cosa vuole dimostrare adesso? Ci ha vinti, ci ha umiliati. Ci vuole sottomettere. Ce l’ha con noi? Sì, ce l’ha con noi. Ancora grida, anche se siamo tutti fuori. Adesso il freddo mi entra nelle ossa, dovrò venire a patti, dovrò entrare in casa e non potrà passare tanto tempo. Non posso stare seminudo perché non sto più tremando solo per le scosse. Il vicino continua ad imprecare e sfoggia domande retoriche: ma cos’è ’sta storia? Lo sappiamo bene cos’è, ma ci fa già schifo ammetterlo. Smette.
C’è un’auto, si ferma al ciglio della strada. È un’auto conosciuta. È mio padre. E mia madre sta bene. E la casa è in piedi, almeno per ora. È già qualcosa. Quante volte ho pensato “meno male che almeno una casa ce l’ho”? Mai.

Arrivano le prime notizie. Assurde. Questo è crollato. L’altro è coricato. Questo non c’è più. Sparito. Ma no, state scherzando, vi siete sbagliati. O meglio: state esagerando. Saranno crepe, un capitello per terra, un cornicione già sfatto dall’umidità. Siamo emiliani non siamo abituati a queste cose e ci caschiamo come allocchi, da noi non succede no, stavolta non ci ricasco. Ma non ci credo lo stesso. Avrò torto”

UTC 2:03, Paolo Polacchini, pp 14-16, 17.

“A Rovereto è venuto giù mezzo paese, le fa eco Andrea, con le case semidistrutte che mostravano l’interno degli appartamenti abbandonati. Quegli squarci di vita privata sotto gli occhi di tutti mettono molta tristezza, con le cose di tutti i giorni in mezzo alle macerie. Una sensazione di smarrimento totale. Vedere il tuo paese orrendamente modificato in pochi secondi ti toglie molti punti di riferimento. Ma per fortuna l’asilo non ha avuto danni, dice Francesca, visto che è una struttura ad un piano in cemento armato. Fuori ho visto le maestre con i bimbi, e gli altri genitori che erano andati a recuperarli. Giacomo non stava piangendo. L’ho preso in braccio e lì mi ha detto: “Pensavo che non arrivassi più”. Poi ha cominciato a piangere. Ed io con lui.

Noi siamo fuori in giardino, per attenuare la calura estiva e per poter parlare con maggiore libertà, mentre Giacomo è rimasto in casa a giocare. Lo osservo e mi chiedo come possa razionalizzare una cosa del genere un bambino, come possano scavarti dentro queste paure quando hai solo 6 anni. Da piccolo hai poche ma solide certezze: la famiglia e la casa. E non riesco ad immaginarmi cosa voglia dire pensare di perderle.

“Com’è stato l’impatto con le persone che si sono occupate dell’emergenza e con le procedure degli aiuti?”
Da noi, come in quasi tutti i piccoli centri, ci si è dovuto molto arrangiare: la presenza dei Vigili del Fuoco e dei volontari è stata fondamentale e molto apprezzata, ma nelle prime settimane molti si sono sentiti abbandonati. Pensa che il sindaco di Novi è venuta a Rovereto solo dopo una settimana. E a Rovereto è crollato mezzo paese. Infatti alla riunione in piazza c’era moltissima tensione: sono volate parole di fuoco per la lentezza degli aiuti. Quasi tutti hanno dovuto fare da soli, dice Andrea, trovando sistemazioni di fortuna e generi di prima necessità. Il problema era anche che tutti i negozi erano chiusi. Dovevi fare chilometri per qualsiasi cosa. I volontari hanno fatto un gran lavoro, così come i Vigili, ma appena entravi nel meccanismo burocratico degli aiuti diventava tutto più difficile.
“Parli di uffici pubblici e Protezione Civile?”
Parlo di ore di fila per non avere mai informazioni certe. Dei tre giorni consecutivi in cui sono andato in Comune, nei tendoni provvisori in cui si sono trasferiti, per avere notizie per la casa: avevo bisogno di qualcosa di scritto per andare in banca a bloccare il mutuo, ma ogni volta c’erano cose diverse, nuove disposizioni. Di certo non sarà colpa loro, però gli impiegati con cui parlavo sembravano informati quanto me sulle cose. Il problema è che qui le regole si fanno giorno per giorno, si inserisce Francesca, ed ogni volta sembra di ripartire da zero. 
Un concetto semplice ma che spiega perfettamente la situazione di tutte le migliaia di persone colpite dai terremoti del maggio 2012: l’emergenza è una terra inesplorata, che pone lo Stato di fronte a problematiche per cui non si hanno soluzioni certe. Le procedure cambiano di volta in volta, modificate dall’esperienza di nuove disgrazie, ma non sono perfettamente calate sul territorio appena colpito. Inevitabile, ma non per questo meno preoccupante.
È a causa di tutte queste difficoltà che abbiamo deciso di provare a ripartire da soli, mi dice Andrea. Aiutati naturalmente dalla famiglia e dagli amici, ma evitando i canali istituzionali dell’emergenza.
Forse l’unica cosa buona di questo dannato terremoto è stata la scoperta delle persone, dice Francesca con un bel sorriso negli occhi. Mia madre e la sua casa sono state un appoggio determinante i primi tempi, ma anche gli amici con il loro aiuto e la loro presenza. Persone che sono venute ad aiutarci a recuperare le nostre cose. Tantissime parole scambiate la sera, quando il buio e la notte ti riportano alle paure più grandi.
Senza di loro avremmo fatto fatica a superare le prime settimane, si inserisce Andrea, tra la paura e l’incertezza per il futuro. Per alcuni giorni ho pensato di lasciarla al suo destino: mi sembrava impossibile recuperarla e, soprattutto, pensare di tornarci dopo tutto quello che era successo.
Io ho sperato che crollasse, dice Francesca, solo per i primi tempi ma l’ho pensato molte volte.
Poi però grazie all’insistenza di alcuni amici, dice Andrea, abbiamo fatto controllare l’edificio da un tecnico abilitato che ci ha rassicurati sulla possibilità di recupero. Anche perché non avevamo tante altre scelte: sulla casa colpita abbiamo ancora più di 10 anni di mutuo da pagare, e farlo su delle macerie sarebbe stata un’ulteriore beffa. E soprattutto non avremmo potuto permettercelo. Quindi abbiamo scelto il male minore, almeno dal punto di vista economico.

“Perciò avete chiamato una ditta per eseguire i lavori?”
Abbiamo fatto fare dei preventivi, e tutti purtroppo erano troppo elevati. Almeno per le nostre possibilità. Il problema era questo: per lavorare in sicurezza, date le continue scosse, bisognava togliere il tetto. Ventimila euro solo per quello. Poi c’erano i costi di recupero. Troppo per una casa che dobbiamo ancora finire di pagare. E qui ho avuto di nuovo paura. Panico vero e proprio. Perché non avevo la minima idea di cosa fare. Non potevamo lasciarla andare e non potevamo permetterci di metterla in sicurezza. Ed ogni nuova scossa continuava a lesionarla.

“Quindi come hai fatto?”
L’ingegnere che era venuto a vedere la casa ha fatto il progetto per la messa in sicurezza, mio zio ha preparato i ferri poi io, assieme ad un amico, ho eseguito i lavori. Praticamente ho fissato la facciata dell’edificio con dei tiranti, che sono andato a bloccare nella casa del mio vicino. Abbiamo bucato pareti e solai. È stata una lunga giornata, considerando che in caso di scossa eravamo nel punto più alto della casa, quindi la fuga sarebbe stata anche la peggiore possibile. Ma è andato tutto bene. Ora la struttura è in sicurezza.
Ma quali sicurezze abbiamo, dice Francesca, con le successive scosse di assestamento sono venuti giù altri calcinacci. Però adesso la nostra parte è solidale con il resto degli edifici, le risponde Andrea, io sono tranquillo.
E se viene un altro terremoto? Se si torna a danneggiare? Ma quando ci tornerò a dormire al primo piano? Quando avrò il coraggio di mettere mio figlio di nuovo nella sua stanza?
 Per la prima volta, dopo due ore, restiamo tutti in silenzio. Le domande di Francesca sono troppo grandi per avere una risposta: almeno non ora. Mi rendo conto che tutte queste parole hanno scavato in profondità, riportando alla luce paure che normalmente tengono solo per loro. E mi chiedo quante volte avranno parlato di questo. Del dopo. Che ora spaventa più del sisma che li ha portati fuori dalla loro casa. Perché probabilmente è proprio questo il vero dramma del terremoto. L’edificio può crollare o meno. In entrambi i casi una soluzione si trova. Ma quando a crollare sono le nostre sicurezze l’esperienza vissuta fino a quel giorno non conta più: e così ci si trova di nuovo di fronte ad una pagina bianca. Che ognuno deve riscriversi da solo.”

Paure ed orgoglio, Fabio Baldoni, pp 25, 27-30.

Foto di Claudio Santi dal reportage “Una dura realtà”
“L’Emilia Romagna produce l’8,6% del PIL nazionale. Siamo una regione con una vocazione industriale dimostrata dal peso che l’industria ha nella formazione del PIL – 28,4% rispetto al totale – ben superiore a quello italiano e dei principali Paesi Europei. In Emilia Romagna le imprese di piccole e medie dimensioni sono la grande maggioranza: più del 90% delle aziende ha meno di 50 dipendenti. Sono 420 mila le imprese attive sul territorio, con una dimensione media di 3 dipendenti: un’azienda manifatturiera ogni 69 abitanti. L’Emilia Romagna è disseminata di piccole realtà che formano una rete di innovazione, tradizione, progresso, conoscenza nuova e tramandata, eccellenza. Siamo una rarità e non bisogna dimenticarsene.

E se avessimo chiuso tutti?
Invece tutti insieme, continuando a lavorare nonostante le grandi difficoltà del momento generale e particolare e combattendo contro i ritardi e le cancellazioni dei lavori causa terremoto, abbiamo sostituito lo Stato – che non ci ha garantito nemmeno una proroga nei pagamenti delle tasse e dell’IMU in scadenza due settimane dopo quella scossa delle 9 del mattino – ci siamo aiutati da soli.
Nulla di tragico, nulla di sanguinolento e commovente, il terremoto miete sentimenti e fatti anche dove non uccide e non distrugge. Dove è silenzioso, senza boati, senza riflettori, senza Stato.”

Le 9 di mattina, Valentina Morsiani, pp 21-22

“Dalla seconda scossa non mi sdraiai nel mio letto per almeno un mese: non provi più quel senso di sicurezza che solitamente la propria casa garantisce. Devi riappropriarti di quegli spazi, riprendere fiducia in quei luoghi. Il piano terra dava più sicurezza mentalmente.

Rientrai in casa, ma le prime sere dormivo sul divano, vestito, con le scarpe, la valigia pronta, addormentandomi solo per sfinimento, sperando di passare 4-5 ore di sonno in pace. Quei giorni passarono vivendo all’aperto, accompagnati giornalmente da quel rumore cupo, profondo; improvvisamente ci siamo trovati a convivere con il terremoto. In quella condizione particolare ogni giorno era vissuto senza programmare nulla, e il ricordo è vago, ma non scordi tutti i piccoli dettagli.
Vedere per la prima volta un bambino camminare da solo. Dormire a casa di amici, ritrovandosi davanti alla porta ad ogni scossa, poi ridere. Il sorriso degli anziani che ricevevano il pasto, il girare in bicicletta, il trovarsi tutti nello stesso bar, mangiare in campagna, mangiare in un parcheggio, mangiare in giardino, correre su e giù per le scale, l’incertezza quando entravi in casa, il raccontare per far capire, le brutte notizie apprese dagli amici, il cordoglio, un sorriso in un funerale, le case crollate, le case inagibili, i parchi invasi dalle tende, la Protezione Civile.

Il terremoto ti rimane dentro. Quel rumore cupo che anticipa la scossa mi ha accompagnato per giorni, tanto che ad ogni rumore sospetto mi bloccavo pronto a sentir tremare la terra sotto i piedi. Il tremore rimane nei muscoli, continui a vibrare convinto siano altre scosse, ma sei solamente tu.
È strano come da un evento negativo scaturiscano aspetti positivi: gli spazi erano improvvisamente diventati vivi, la gente era fuori dalle case, girava a piedi, in bicicletta, si trovava nei parchi, condivideva spazi, socializzava, questo ha trasformato per un lasso di tempo Mirandola in una città dinamica. E una consapevolezza ho tratto da questa esperienza: l’energia delle persone nel rialzarsi, nel vivere nella precarietà del momento ma con un sorriso, nell’aiutarsi per ripartire il più velocemente possibile.”

Il terremoto ti rimane dentro, Mirco Bianchini, pp 59-60.

Note

[1]Dalla Premessa di C. Cavazzuti e F. Baldoni (Il Rasoio), Fratture. Storie dal Sisma, Elis Colombini, Modena, 2012, p.6.

[2]F. Ferrari (Ozu Film Festival) a p.9.

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