Alle radici dell’idea contemporanea di natura.
Un nuovo lessico attorno ai temi di natura, ecologia e ambiente si sta formando in campo culturale da qualche anno. Dalla Serpentine Gallery a Londra alla Triennale di Milano, siamo immersi in uno scambio continuo di idee attorno a parole chiave come “Antropocene”, “iperoggetti” o “post-ecologia”. Per orientarsi in questo dibattito culturale e non cadere nella tentazione anacronistica di pensare che l’ossessione contemporanea con l’idea di natura sia cosa nuova si può provare a storicizzare, seguendo alcuni fili rossi dell’archeologia del sapere.
Una buona guida è stata pubblicata dallo storico della scienza Stéphane Van Damme (ENS, Parigi) e intitolata Seconde nature. Rematérialiser les sciences de Bacon à Tocqueville (Les presses du réel, 2020). Si tratta di un invito a rileggere la storia del naturalismo tra Sei e Ottocento alla luce degli ultimi trent’anni di storiografia delle scienze. Con Van Damme, molte delle narrazioni stabilite – la rivoluzione scientifica, il metodo sperimentale, il naturalismo nelle pratiche artistiche, etc. – diventano meno ovvie, e ci si rende pienamente conto che la natura è da sempre un’idea complessa e paradossale.
A partire innanzitutto dalla “seconda natura” che dà il titolo al libro, quella natura tormentata e costretta che Bacone chiamava “vessata” e che è l’interesse principale della scienza moderna. Il sapere naturalista deve configurarsi, come già aveva mostrato Foucault, come un sapere di un oggetto parziale: la natura “creata” dagli scienziati di Antico Regime. Un esempio: Bernardin de Saint Pierre, scrittore naturalista che dopo la Rivoluzione diventerà intendente dei Jardins du Roi, sosteneva che le pratiche degli eruditi come il collezionismo o la dissezione sono la morte della natura, perché “Quando l’uomo comincia a ragionare, smette di sentire” (p. 153, da Études sur la nature, 1784). Questa citazione è solo una delle tante tracce sparse nelle pagine del libro di un pensiero non-ortodosso sulla natura, della ricchezza filosofica delle scienze di Antico Regime che serva a mostrare la continuità del sapere antico nell’esperienza sensibile di età moderna.
Le parole guida di Van Damme in questa ricerca sul campo della storiografia delle scienze sono “pluralità” e “pratiche”, termini che rinviano alla matrice antropologica del suo lavoro e invitano il lettore ad un viaggio tra le tribù degli epistemologi e degli storici della scienza di ieri e di oggi. Questo libro è un mondo: allarga enormemente la visione sulla storia europea e abbraccia il mondo intero, storicamente e geograficamente. Si potrebbe dire che il libro appartiene anche alla categoria dei testi-archivio, cioè quei preziosi volumi da avere nella propria libreria che permettono di ritrovare la bibliografia degli ultimi trent’anni su temi di attualità intellettuale. Penso ad esempio alla splendida panoramica introduttiva sulla storiografia dei grandi paradigmi della scienza, da Alexandre Koyré a Thomas Kuhn, per proseguire con Michel Foucault, Philippe Descola e Bruno Latour.

Il lettore è immerso in una vasta carrellata del sapere sulle scienze naturali dall’inizio del novecento fino ad oggi, con riferimenti anche a tesi di dottorato discusse di recente (inclusa quella di chi scrive!). Nel capitolo sui regimi visuali del naturalismo incontriamo tutte le teorie recenti sull’immagine scientifica e sulla centralità dell’osservazione come pratica di costruzione dell’oggettività. La serie di prove a cui le immagini sono sottoposte già dal Seicento, attraverso l’utilizzo di tecnologie della visione o della chimica del colore da parte dei pittori di paesaggio, sono esempi di quelle fasi sperimentali che per Van Damme incarnano il principio del rapporto con la natura: plurale, materiale, sperimentale in un senso quasi artigianale.
In controtendenza rispetto alla narrazione della rappresentazione realista, che corre parallela alla narrazione del progresso scientifico, le arti sono apprezzate nella loro vicinanza alle scienze naturali. Si spiega così anche la scelta di pubblicare un libro di storiografia della scienza in una collana dedicata al rapporto tra arte e società, diretta dalla storica dell’arte e della cultura Laurence Betrand Dorléac, per un editore conosciuto soprattutto per il suo ruolo nel dibattito artistico e filosofico contemporaneo. Da storico della scienza che lavora da anni su un terreno multi-disciplinare, Van Damme ci aiuta ad identificare le aree del pensiero contemporaneo che sono sorte accanto alle figure centrali del pensiero moderno sulla natura, spostando l’accento di volta in volta sull’epistemologia, l’antropologia, lo strutturalismo e la global history. Scopriamo infine qualcosa che avevamo già intuito, e cioè che l’apporto delle discipline antropologiche e della cultura visuale non permettono più di leggere la storia della scienza come un’inchiesta sulle origini dello sguardo moderno sulla natura.
Ritornare alle origini, appunto. La scoperta di Galileo, l’uso del telescopio, la matematizzazione del mondo naturale, sono tutti elementi di una narrazione delle origini della scienza moderna che oggi possiamo inserire in un contesto più ampio di storia delle pratiche, superando ogni ansia sulla rimozione della “figura paterna”. Non c’è singolo scienziato, o naturalista, o inventore che possa rivendicare una paternità sul metodo scientifico occidentale. Come ha già mostrato Philippe Descola in vari testi a partire da Par délà nature et culture (2005), l’idea moderna di natura è in parte il risultato di un processo di oggettivazione propria dell’Occidente che ha diviso cultura e natura ma anche natura “libera” da natura “controllata”. Altri antropologi delle scienza, da Alfred Gell a Tim Ingold, hanno dedicato il loro lavoro a stabilire una visione antropologica del rapporto tra esseri viventi e mondo – che include anche una agency del non-umano.
Dal libro di Van Damme emerge invece la storia centenaria di gruppi di figure ibride, marginali, spesso legate ad un sapere manuale più che teorico. Accanto ai practitioners troviamo i loro biografi e le generazioni di storici spesso in conflitto tra loro che hanno stabilito alcune narrazioni dominanti, partendo dal Seicento come spartiacque tecnologico. Tolto questo ultimo velo, alle origini della scienza moderna dobbiamo collocare una comunità eterogenea di uomini di culture diverse che insieme hanno costruito i saperi sul mondo. Chiamare questi saperi “scienza” è possibile solo se consideriamo una narrazione scritta e stabilita istituzionalmente. Appena usciamo dai confini accademici, la scienza si confonde con l’arte e tutte le pratiche di conoscenza materiale. Non una storia di scienziati quindi, ma una storia di tutti.
