Contrappunti sul tentativo di riforma della legge 180
Riccardo Ierna
In quasi tredici anni di lavoro in psichiatria e nell’ambito della medicina, mi sono fatto un’idea rispetto ai ripetuti tentativi di riforma della legge 180 e a maggior ragione mi sembra opportuno riproporla adesso, dopo il passaggio alla Camera, in Commissione Affari Sociali, del disegno di legge Ciccioli[1] in materia di assistenza psichiatrica.
Proverò allora a formulare sinteticamente una tesi, senza avere la pretesa di esaurire la complessità o di negare il valore di problematicità di un tema tanto complesso, quello della sofferenza mentale, della sua cura e quindi della sua gestione come problema sociale ed esistenziale.
Eviterò dunque di entrare in merito alla complessa e reiterata questione dell’iter legislativo del disegno di legge o dei contenuti che esso propugna, sui quali tra l’altro, si è già scritto e argomentato abbastanza.
Mi soffermerò invece su un aspetto che mi sembra essenziale quando si parla di proposte di riforma di una legge dello Stato. Perché ciò è sintomatico di un cambiamento strutturale della cultura, dell’economia e della politica di un paese. Mi riferisco alla situazione attuale della psichiatria italiana e all’effetto di ritorno che questa situazione sta generando sul livello di consapevolezza dei tecnici e della società civile.
Ho l’impressione, infatti, che stiamo lentamente girando e dibattendo intorno ad un falso problema: il problema del ritorno ad un regime di stampo manicomiale tout court nel nostro paese.
Non vi è dubbio che il disegno di legge che è passato alla Camera in Commissione Affari Sociali riproponga, de facto, una degenza prolungata in regime di ricovero coatto, che si configura come un restringimento ulteriore dei diritti civili e di libertà personale delle persone con disagio mentale.
Credo tuttavia che la questione più urgente per gli amministratori, per i tecnici e per la società civile sia quella di rendersi conto dello stato attuale dei servizi di Salute Mentale e di ciò che è stato fatto del lavoro pratico e teorico del movimento anti-istituzionale guidato da Franco Basaglia.
La mia tesi è che il “regime neomanicomiale” di cui si paventava il ritorno, con la proposta di legge, sia in realtà in pieno funzionamento da diversi anni, con la collusione di tutte le forze in gioco (tecnici, amministratori, politici e società civile) e che, nonostante il tentativo a livello locale di continuare a fare“Salute Mentale”, inventando nuove forme di solidarietà sociale e tenendo fede ai principi ispiratori della legge 180, (penso ad alcune esperienze esemplari di deistituzionalizzazione e di imprenditorialità sociale
operanti soprattutto nel Nord Italia ed in parte replicate in alcune regioni del centro-sud), siamo di fronte ad una psichiatria italiana che non ha affatto smesso i panni di un sapere/potere “funzionario” dell’ordine pubblico e gestore della “normalizzazione” della sofferenza mentale come problema specifico di una società iperglobalizzata[2].
Su questo posso parlare per esperienza diretta come tecnico (psicologo/operatore) che ha lavorato in strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali e posso dire, senza timore di fare del pressapochismo, che questo neomanicomialismo vive negli interstizi della realtà quotidiana di molti servizi ospedalieri e territoriali[3].
A Roma ad esempio, nell’SPDC[4] dove ho svolto tirocinio per alcuni anni, esistevano i cosiddetti “pazienti
cronici”, persone in regime di TSO prolungato (e prorogato)[5] che erano in reparto da quasi tre anni per mancanza di un progetto terapeutico e di un lavoro dei servizi in grado di evitare la loro continua riospedalizzazione (configurando il tristemente noto fenomeno del “revolving door”[6]).
Questo significa che la legge poteva essere già aggirata attraverso un’interpretazione non corretta del TSO: non configurandolo, cioè, come pratica eccezionale cosi come prescritto dalla legge, ma come prassi consuetudinaria e come esercizio di “custodia cautelare” in caso di crisi o di acuzie, se non affrontata adeguatamente a livello territoriale.
Come sappiamo, la gestione del reparto ospedaliero si è sempre impregnata dei vecchi metodi manicomiali[7]: contenzione fisica e chimica spesso preventive[8], sorveglianza reiterata[9], in qualche caso utilizzando anche l’Elettroshock, la cui validità scientifica come “trattamento di cura” è ancor oggi molto controversa e lungi dall’essere stata accettata universalmente[10].
Sul fronte dei servizi territoriali, abbiamo specularmente una situazione che si configura nella maggior parte dei casi[11] come una gestione psichiatrica dell’emergenza e della crisi proiettata sul territorio. Ne posso parlare per esperienza diretta avendo lavorato in strutture psichiatriche residenziali. Si tratta cioè di gestire situazioni di disagio (che ovviamente sono anche e soprattutto sociali e relazionali) attraverso le forme consuete di “normalizzazione” della moderna psichiatria (farmacoterapia, “terapia occupazionale” e psicoterapia supportiva nel migliore dei casi)[12].
Tutta la questione del lavoro, del diritto all’abitare, del contesto sociale e relazionale sono delegati ad una forma di “falsa riabilitazione” che, parafrasando Benedetto Saraceno, è puro intrattenimento[13]: basti pensare a tutta una serie di questioni delicate che vanno dal problema delle borse lavoro a tempo determinato, al lavoro protetto senza tutela contrattuale, per arrivare alla drammatica situazione di alcune case famiglia, alla stagnazione dei centri diurni, alla cronicizzazione del disagio in alcune comunità terapeutiche. Tutto ciò solo allo scopo di segnalare alcune criticità di questo sistema di gestione, basato troppo spesso su quello che Giuseppe Bucalo chiamava una “vita fotocopiata”[14],cioè una forma di pseudo -contrattualità sociale dove di fatto si paga il prezzo dell’inclusione dopo aver pagato quello dell’esclusione.
E lo si paga con un’esistenza ed una forma di vita che non è la vita, ma un artefatto della vita. Dove non c’è potere reale e riappropriazione concreta dell’esigibilità di diritti, ma un “addomesticamento” di questi diritti in nome di un’integrazione impossibile perché non realmente giocata sul piano del soddisfacimento dei bisogni e di valorizzazione delle proprie risorse.
Con questo non voglio dire che la situazione sia omogenea in tutto il paese. Esistono realtà locali dove si è realmente “progettata e costruita” Salute Mentale, attraverso il coinvolgimento di tutte le agenzie della società civile (tecnici, amministratori, politici, cittadinanza)[15]. Ma la tendenza generale a livello nazionale si esprime maggiormente nella condizione precedentemente sopracitata.
Non entro ovviamente nella delicata questione della gestione privatistica e lucrativa del comparto psichiatrico (Cliniche private, Rsa, Ospizi, ospedali psichiatrici privati ecc..) che ha da sempre collateralmente accompagnato la gestione pubblica (anche con molte connivenze tra servizio pubblico e privato). E la città di Roma, dove vivo, ne costituisce l’esempio più paradigmaticamente drammatico[16]. Il discorso ci porterebbe troppo lontano.
Tornando al discorso sul TSO, Franco Basaglia non fu mai convinto della necessità dei reparti ospedalieri, egli pensava maggiormente ad una rete territoriale di centri “anticrisi” costituita da piccoli appartamenti collegati tra di loro. Era contrario cioè ad una ri-ospedalizzazione forzata che prescindesse da un collegamento reale con la comunità di appartenenza ed i servizi territoriali.
La vera questione per Basaglia è sempre stata quella di andare a vedere ciò che di ideologico si nascondeva nella medicina e nelle sue forme di gestione della “malattia”: per lui il vero manicomio era la medicina, non la psichiatria[17]. Per cui riconsegnare la questione psichiatrica, intesa come “gestione della crisi della sofferenza mentale” al reparto ospedaliero, avrebbe rappresentato la cartina di tornasole per verificare e nei fatti smascherare, un intero apparato ideologico di gestione della malattia. Questo sarebbe servito, se solo si fosse portata coraggiosamente fino in fondo questa ipotesi di lavoro tracciata da Basaglia[18], per porre un ulteriore ripensamento di tutta la pratica medico-psichiatrica e della sua ideologia (cioè spezzare quel circolo riproduttivo di ideologia che razionalizzava la follia facendola diventare malattia – per ricollocare la sragione nell’alveo della ragione). A tal proposito sarebbe importante rileggere quello splendido volumetto curato da Franca Ongaro Basaglia dal titolo Salute/Malattia[19].
L’altra grande questione posta dalla legge 180 era legata al TSO. Era una questione non da poco perché, nonostante sostanziasse, di fatto, una “privazione della libertà personale” giustificata da un atto medico di cura, riproponeva la questione dell’incapacità di intendere e di volere in tutta la sua drammaticità, sia dal punto di vista giuridico, (compreso il criterio di incostituzionalità) che etico. Ed anche qui il problema era di verificare fino a che punto i tecnici e la società civile avessero recepito quel principio fondamentale che Basaglia poneva alla base di tutta la sua riflessione e della sua pratica: il principio di responsabilità del tecnico e quello della società, sulla questione della “malattia” e della sua gestione.
Il TSO rappresentava anch’esso una sfida: teneva legata la responsabilità del medico, che quindi non poteva più sottrarsi direttamente, delegando ad un’istituzione – il manicomio – la completa gestione di questa responsabilità giustificandone l’ideologia e il “malato”, in un rapporto dialettico nuovo e incentrato su una “negoziazione forzata” di questi due attori tra di loro e con la società civile.
Ma anche questa dialettica sembra sia stata recuperata dal sistema psichiatrico: di fatto, si sono poste due condizioni tra loro rinforzantesi: gli psichiatri hanno spesso finito per utilizzare il TSO in senso punitivo e realmente coattivo, riproducendo, di fatto, la sua antica funzione custodialistica e repressiva. Questo in risposta ad una crisi sempre più generalizzata della “gestione territoriale” del disagio e ad una pressione sempre più crescente delle famiglie delle persone con disagio mentale. E forse sarebbe opportuno chiedersi, una buona volta, perché i servizi territoriali non sono stati in grado di fare Salute Mentale in luogo di una psichiatria contenitiva dell’emergenza sul territorio.
La società civile (familiari, rete informale, cittadinanza) ha creduto di trovare legittimamente nel TSO. un salvagente nelle situazioni di grave difficoltà, in mancanza di un supporto adeguato da parte dei servizi e di una cultura della responsabilità sociale che, di fatto, non è stata mai compiutamente recepita né dai tecnici né dalla società stessa.
Il TSO., dunque, rappresenta ancora oggi la “valvola di sicurezza” del sistema sociale. Uno dei vulnus dell’intera questione psichiatrica. Sarebbe importante porre oggi una riflessione su cosa ha fatto in modo che il TSO conservasse questa antica funzione, in luogo di una funzione di detonatore di contraddizioni e di apertura di discorso sulla malattia e sulla cura. Su questo vulnus trova oggi ragion d’essere il tentativo di riforma della 180 come risposta ideologica e reazionaria ad una situazione non più sostenibile dal sistema sociale.
Il problema, allora, non è di come contrastare un disegno di legge che, di fatto, darebbe legittimità a qualcosa di già incostituzionalmente evidente ed operante (nonostante una legge che promuove il suo contrario). Questa si configura come la più grande mistificazione del nostro tempo. Come il suo più grande depistaggio. Il problema, semmai, è di sapere come cambiare l’assetto esistente che presta il fianco a questo disegno di legge e ai tanti altri che verranno. Il problema è di come trasmettere un pensiero ed una nuova prassi negli operatori e una maggiore consapevolezza nella società civile, coniugando le esperienze del movimento anti istituzionale con le contraddizioni di un mondo ormai globalizzato e spogliato del valore politico/prassico che poteva avere nella stagione di quelle lotte e di quella conquista culturale[20]. Questo non potrà passare solo ed esclusivamente attraverso una petizione di principio o uno slancio solidaristico in termini di social network. Ma va fatto compiutamente nei luoghi istituzionali, nei posti di lavoro, nelle sedi sindacali, nelle scuole, nei servizi pubblici e privati, nei comuni. Insomma nei luoghi della vita sociale.
Il problema è di come rifondare lo statuto epistemologico dei saperi che si occupano della cura. Di come rifondare e riformare gli apparati deputati alla trasmissione di questi saperi: l’università. Di come realizzare una nuova prassi che prescinda dai vecchi schematismi della psichiatria novecentesca (DSM IV ora V, farmacologia endemica, medicalizzazione ed ora psicologizzazione della vita quotidiana). Di come fare in modo che questa nuova prassi non possa più fondarsi sulla vecchia cultura della gestione del deficit, ma piuttosto sulla valorizzazione delle risorse personali e contestuali della persona sofferente.
Anche la chiusura definitiva entro il 2013 degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), misura legittima e necessaria per porre fine ad un abominio umano e sociale, fortissimamente voluta dalle forze democratiche e neoliberiste e sancita dal decreto legge n.211 del 2011 ribattezzato “decreto svuota carceri”, andrebbe inquadrata in uno scenario che pone, pericolosamente, la questione della gestione delle detenzioni penali in un circuito psichiatrico già cosi fortemente repressivo e custodialistico. Perché non basterà chiudere gli Opg per risolvere il problema della detenzione e della riabilitazione delle persone con disagio mentale che hanno commesso reati.
Se non si creerà un reale lavoro di sinergia con la società civile, con i consorzi di lavoro, con i servizi territoriali, con i Sert, con le cooperative e soprattutto con i familiari di queste persone, noi vedremo riprodotto un circuito sempre più grande di “normalizzazione sociale” e di controllo delle devianze. Una sorta di grande internamento civile della “maggioranza deviante” cosi come preconizzato da Michel Foucault. Cosi alla sacca di marginalità sociale già ampiamente legittimata dal circuito psichiatrico si affiancherà una nuova marginalità. Quella esclusa già, di fatto, dal consorzio civile e “contenuta” in apposite strutture territoriali a lunga degenza. In questo modo il “manicomio diffuso” potrà esercitare la sua forma disciplinare di controllo senza aver bisogno di grandi istituzioni concentrazionarie. Cosi come avviene già in ambito psichiatrico.
Basaglia nella sua lungimiranza aveva previsto questa deriva. Diceva che i manicomi sarebbero potuti tornare ad essere chiusi o più chiusi di prima. Ma era perfettamente conscio che la questione vera e centrale non fosse tenere in piedi una legge a baluardo di una prassi che non la legittimava realmente (perché quella legge prima o poi sarebbe stata riformata o cambiata). Ma cercare di dimostrare sempre e concretamente la legittimità di quei principi che la legge ispirava. E fare questo significava mettere
quotidianamente in discussione la propria prassi. Significava mantenere aperta la contraddizione, attraverso un coinvolgimento costante di tutte le forze politiche e sociali. Di tutti i poteri in gioco.
Per questo io credo non bastino più le celebrazioni mediatiche, gli slogan nostalgici e le copertine agiografiche sulla figura di Franco Basaglia. Per tornare veramente a Basaglia occorrerebbe dissolversi come basagliani. Andare oltre Basaglia attraverso la riproposizione continua del suo antimodello. Che è rimessa in discussione sempre del proprio lavoro e dei risultati raggiunti.
Legare gli enunciati alle pratiche: questo il vero principio ispiratore della legge 180. Questa la testimonianza fondamentale della sua legittimità. Senza questo passaggio fondamentale di prassi e di consapevolezza
operato da tecnici, amministratori, politici e soprattutto società civile, uomini e donne che vivono quotidianamente la questione della sofferenza mentale e sociale, ogni forma di protesta contro possibili cambiamenti legislativi rischia di rimanere un semplice slogan o un’operazione altrettanto ideologica rispetto a quella che si vuole contrastare. Si rischia di fare paradossalmente del riformismo ideologico al netto di una prassi che non lo sostiene con i fatti. Quell’ideologia di ricambio contro la quale Franco Basaglia ha lavorato e lottato per una vita.
Note
[1] Il DDL Ciccioli sulle norme che disciplinano l’assistenza psichiatrica, è attualmente passato alla Commissione Sanità Affari Sociali della Camera ed è in attesa dell’approvazione definitiva in parlamento.
[2] Facendola rientrare fatalmente nel vasto “problema delle devianze”, cosi come era evidentemente in origine, prima dell’abbattimento del manicomio e della sua ideologia custodialistica e repressiva.
[3] E questa è una questione che non riguarda solo la psichiatria, ma in generale tutta la medicina e i saperi implicati nel suo dispositivo di cura.
[4] Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura
[5] Trattamento Sanitario Obbligatorio. È disciplinato attualmente dagli articoli 33, 34 e 35 della legge 833/1978.
[6] Il fenomeno del “revolving door” o “porta girevole” si riferisce a quel fenomeno molto frequente nei servizi caratterizzato da continui ricoveri o transiti dello stesso paziente nel servizio di provenienza, in mancanza di un
adeguato progetto terapeutico che lo “sganci” dallo stesso reparto ospedaliero o dai centri territoriali riabilitativi.
[7] In alcuni casi, a fronte di uno sbandieramento ideologico di certi SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura) aperti e senza contenzioni, si è dovuto constatare con amarezza che certe proposizioni rimanevano al puro stato di una semplice dichiarazione di intenti. Quel che è certo è che dei 321 SPDC su tutto il territorio nazionale, pochissimi possono vantare una prassi consolidata che escluda il ricorso alla contenzione fisica dei pazienti. Ed in tal senso un’inchiesta organica approfondita e documentata a livello nazionale non è stata ancora fatta per mancanza di collaborazione di gran parte di questi servizi.
[8] La logica ospedaliera era del tipo: “Ti contengo prima che possa accadere qualcosa a te o agli altri”.
[9] All’antica funzione di sorveglianza del vecchio infermiere psichiatrico si è aggiunta una “tecnologia della sorveglianza” con l’utilizzo di telecamere a circuito chiuso in molti reparti psichiatrici ospedalieri, riproducendo in modo esemplare quel consolidamento del potere disciplinare indicato da Michel Foucault. Si tratterebbe di una versione evoluta del Panocticon benthamiano. Si veda Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, 1975, e Id., Storia della follia nell’età classica, Bur, 2011.
[10] Sarebbe importante che oltre alla mole di studi pro ECT presenti in letteratura, si potesse ridare uno sguardo anche agli studi critici sull’argomento, come ad esempio il classico lavoro di Peter Breggin sugli effetti cerebro invalidanti di questo trattamento nelle persone a cui è stato applicato. Si veda Peter Breggin, Elettroshock. I guasti sul cervello;, Feltrinelli, 1984.
[11] Sono pochi i servizi territoriali che hanno funzionato come produttori di “Salute Mentale” attraverso un’integrazione piena ed allargata con le altre agenzie territoriali (Municipi, Asl, Cooperative di lavoro, Consultori, Centri di aggregazione sociale). Per una piccola bibliografia ragionata di alcune esperienze esemplari italiane si veda: La libertà è terapeutica?, A cura di Diana Mauri, Feltrinelli, 1983, Ota de Leonardis, “Dopo il manicomio”, in Quaderni di prevenzione delle malattie mentali, Il Pensiero Scientifico Editore, 1981, O. De Leonardis, D. Mauri, F. Rotelli, L’impresa sociale, Anabasi, 1994; G.Gallio, Nell’impresa sociale. Cooperazione, lavoro, ri-abilitazione, culture di confine nelle politiche di Salute Mentale, Edizioni E, 1995.
[12] Ho potuto verificare direttamente sul campo quanto all’ideologia del “contenimento comunitario” si sovrapponesse un’ideologia riparativa e ortopedica di certa psicoanalisi o di certa psicoterapia supportiva. Lasciando intatta la questione della non neutralità dei saperi psi sulla gestione di quello stesso contenimento e della sua ideologia. Si vedano in proposito i lavori di Robert Castel, Lo psicanalismo. Psicanalisi e potere, Einaudi, 1975 e Id., Verso una società relazionale, Feltrinelli, 1982.
[13] Benedetto Saraceno, La fine dell’intrattenimento, RCS libri, 1995.
[14] Giuseppe Bucalo, Dietro ogni scemo c’è un villaggio, Sicilia Punto L Edizioni, 1990.
[15] Si pensi soprattutto all’esperienza triestina guidata da Franco Rotelli dopo la morte di Basaglia nel 1980.
[16] Si veda a tal proposito l’importante volume di Renato Piccione, Lo scandalo psichiatrico della regione Lazio, Bulzoni, 1992.
[17] Si veda Franco Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina, 2000.
[18]E ciò è stato fatto solo in alcune realtà locali, senza generalizzarne la portata in termini di una trasmissione del valore storico di quella prassi, nella formazione culturale universitaria e accademica del nostro paese.
[19] Franca Ongaro Basaglia, Salute/Malattia. Le parole della medicina, Einaudi, 1982.
[20] Nel senso di un ricoinvolgimento concreto e partecipato della società civile nella “polis”, nella “cosa pubblica” e nel perseguimento del bene comune.