Affetti: un affare di campo

Una recensione a “Postcritica. Asignificanza, materia, affetti” di Mariano Croce, Quodlibet 2019.

postcritica recensione

Fra il nostro corpo e gli altri corpi, c’è una disposizione paragonabile a quella dei pezzi di vetro che compongono una figura caleidoscopica.

(Henri Bergson)

Uno dei punti di svolta della fisica moderna è l’istituzione del concetto di campo. Mentre nella fisica newtoniana si immagina che le forze agiscano direttamente tra oggetti distanti l’uno dall’altro, gli studi sull’elettricità ed il magnetismo alla fine del XIX secolo pongono definitivamente in crisi tale assunto. L’ipotesi di Faraday, successivamente formalizzata nelle equazioni di Maxwell, è quella di introdurre viceversa un’entità reale distribuita nello spazio, che modifica e viene parimenti modificata dalla presenza di corpi elettrici e magnetici. Tale entità, che definisce proprietà locali delimitate all’interfaccia da superfici di discontinuità, è ciò che oggi definiamo il campo elettromagnetico. Nell’ambito dell’ottica tali superfici sono allora responsabili dei processi di riflessione e rifrazione, che dipendono da proprietà elettromagnetiche e geometriche.

Orbene, questa sortita nella fisica e nei suoi riflessi sull’ottica non è certo frutto di un capriccio disciplinare di chi scrive, quanto il richiamo a una svolta decisiva nell’ambito più generale della conoscenza: mentre la nozione di campo ha imposto una ridefinizione del concetto di relazione, i fenomeni ottici mostrano come l’effetto si dà, anche, quale esito di una collocazione. Questa potrebbe valere come sintesi plastica, tutta fenomenica, dei temi di cui sto per scrivere.

In effetti, mi propongo qui di segnare alcuni tratti peculiari di una proposta filosofica che di una certa collocazione fa il proprio manifesto espressivo. Che di manifesto si tratti è del resto evidente sin dalle prime righe di quella promessa che apre Postcritica di Mariano Croce, il cui programmatico intento dismette ogni forma di contrapposizione tra scuole. Il “post” – pur saturo di certe inclinazioni assiologiche – viene rivendicato e connotato dall’autore quale “campo in cui si creano legami con le cose per operare una ricomposizione della materia” (p.8). Sicché, tratto caratteristico della postcritica, quantomeno nella declinazione offertaci nel libro, sarà una certa disposizione al farsi pratica di vita, anziché postura teorica.

Ma cerchiamo ora di muoverci secondo un certo ordine storiografico, il cui approdo sarà per noi la postcritica. In effetti, proprio ad una fascinazione della teoresi si ancora, sin dagli albori del XX secolo, un certo atteggiamento filosofico, cui la postcritica – e proverò a delineare in che senso – risponderà in forma alternativa. L’opera kantiana, in qualche modo erede della proposta cartesiana, radicalizza la scissione tra materia e pensiero – sedimento d’innumerevoli bipartizioni – e fissa in questo modo le premesse della svolta epistemologica novecentesca. Con lo strutturalismo, suprema acme di quel progetto filosofico, lo stato delle cose non rientra più nei margini del conoscibile. La materia si fa elemento intangibile, distante, opaco. La cosa diviene allora oggetto, di cui il soggetto traccia le coordinate secondo categorie cognitive che a lui sono proprie. Se l’unica possibile forma di accesso al mondo si attua attraverso tale mediazione, il pensiero si ricolloca per intero nel campo della riflessione. E, nella suggestiva ipotesi avanzata in Postcritica, proprio a tale emarginazione della cosa si accompagna una persistente inclinazione al sospetto, che connota gran parte della filosofia moderna e di molte altre aree del sapere. Una tentazione che situa il mondo in una posizione di distanza, teatro di dinamiche oscure, pervasive, i cui meccanismi devono esser esplorati attraverso un’opportuna indagine sui segni.

Il trionfo del linguaggio quale punto focale della riflessione filosofica novecentesca corrobora appieno un simile scenario frammentato. La materia, inattingibile, da un lato; il pensiero, con le sue categorie, dall’altro. Persa la possibilità di un contatto diretto con le cose, la filosofia si cimenta pertanto nell’approfondimento delle reti segniche, nei meccanismi, cioè, che fissano il rapporto tra referente e oggetto. Serie distinte (mondo e linguaggio), che attengono a dimensioni intraducibili, vengono così messe in relazione attraverso un processo di significazione, il cui tratto ha il carattere dell’arbitrarietà. Esplorare allora le dinamiche che di tale struttura detengono il controllo diviene affare della critica. Questo nella convinzione che al linguaggio si accompagnino una miriade di impliciti rimandi, sede di relazioni di dominio e inganno – da cui, appunto, l’ermeneutica del sospetto – attrazione fatale di cui Croce ci propone una caratterizzazione tutta idiosincratica, estremamente efficace. Si apre pertanto lo scenario d’una tendenza all’approfondimento, nel senso di una torsione verso l’analisi dei meccanismi sottostanti; situati, appunto, in una dimensione profonda, distante, altra.

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Ebbene, proprio su questo punto si innesta la scommessa di PostcriticaAnziché proporre un superamento in chiave teorica della critica, essa invita a un cambio di prospettiva tutto operativo. Dove la prospettiva, di nuovo, non è questione di punto di vista (dominio del senso illustre della vista), bensì affare di collocazione. Di qui l’attenzione al particolare, al dettaglio, all’interstizio. La postcritica, lungi dal denigrare il ruolo funzionale del linguaggio – e, con esso, della critica – va quindi sussurrando percorsi alternativi, ove la parola possa congedarsi dall’asfittico collocamento espressivo assegnatole nell’orizzonte di senso della langue. Al tradimento – secondo il vocabolo di Croce – che s’accompagna a un simile programma, segue anche la destituzione di tutta una serie di bipartizioni tipiche della filosofia novecentesca, che proprio sulla distinzione tra soggetto e oggetto avevano fissato le proprie fondamenta concettuali. Come l’aumento di temperatura produce un incremento delle dinamiche molecolari, favorendo processi interdetti alla fisica dei solidi, così Postcritica propone di sciogliere le forme cristallizzate del pensiero, promovendo nuove alleanze: combinazioni atte a favorire l’emergere di dinamiche fluide, ove i legami siano costantemente soggetti a forme di reintegrazione. Questo nella convinzione che la filosofia, quantomeno nella sua declinazione più viva e promettente, non possa che darsi nell’assenza di un canone disciplinare. E proprio di tale intento si fa portavoce e sede d’azione Postcritica, “libriccino” dalla cifra stilistica notevole, incline al letterario.

Eppure, a ben guardare, ciò che primariamente connota lo scritto di Croce è una proposta di condotta, e non già la consegna di un dilemma teorico. Come, del resto, si propone di dar seguito a un simile progetto? Invocando una batteria di operatori – cinque nella terminologia da lui adottata (connettori, reagenti, tensori, torsori, vettori) – che rendano conto del carattere inter-individuale della materia. Tali elementi, distinti ma non necessariamente separati, costituiscono allora le coordinate entro cui situare la dimensione affettiva del reale. Quell’affetto, mutuato dal lessico spinozista, che proprio esprime il grado di connessione tra corpi, vale a dire la tendenza stereospecifica di certi elementi ad aggregarsi in composti individua(bi)li.

Tuttavia, prima di giungere a un simile approccio, Croce propone un percorso testuale, le cui tappe m’intendo qui d’esporre sinteticamente. Se tentare di restituire la policromia espressiva di Postcritica è operazione illegittima, il cui esito sfugge agli intenti della presente trattazione, mostrare altresì come essa possa fungere da banco di prova di una certa proposta filosofica, a mio avviso assai convincente, è quanto mi preme dirimere. La linea discorsiva che Croce ci invita ad intraprendere si snoda allora in una serie di attracchi, in cui due autori (Giorgio Manganelli, Raymond Queneau) ed un’autrice (Clarice Lispector) condurranno la nostra esplorazione.

Manganelli, senza dubbio uno dei vertici della letteratura contemporanea, si situa a pieno titolo in quella corrente letteraria – ammesso che di correnti possa darsi definizione alcuna – che dell’autore propone la messa in mora. Meglio, la destituzione di qualsiasi ruolo nel processo di produzione testuale: quel “frantùmati” che proprio segna la rottura d’un campo privato, autoriale, attinente agli intenti dello scrittore. Tale estromissione dell’autore, lungi dal dismettere viceversa il campo d’azione del linguaggio, ne fissa la completa supremazia. Non si dà pertanto forma di uscita possibile da quell’agglomerato viscoso, autoconsistente, privo di “fessure o vie di fuga” (p. 40) che è il linguaggio. Tutto ciò che eventualmente straborda da esso attiene al campo del non linguistico, quindi del non esistente.

Se del resto Manganelli esclude qualsivoglia linea di fuga dal linguaggio, Raymond Queneau nel suo Esercizi di stile tenta una ricomposizione arguta e divertente di uno stesso accadimento. Per farlo, presenta una scenetta di vita quotidiana declinata in 99 diversi modi secondo registri stilistici vari, che attuano un protocollo sperimentale dalla “retorica gustosa e sapientemente artefatta” (p. 49). Se però in questo modo il linguaggio si ripropone di superare i lineamenti cristallizzati della lingua comune, pure il rimescolamento stilistico che tale scrittura adotta non fa che confermare un accesso al mondo ancora costitutivamente linguistico. Ovvero, in Queneau, la cosa è ancora oggetto, elemento le cui proprietà certo non attengono al campo d’azione della parola. Di nuovo, affare di cognizione.

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Su questo impianto, saturo di significazione, si apre il progetto eversivo della scrittura fluida di Clarice Lispector. La sua portata espressiva, forte d’un apparato filosofico spinozista, muove i propri passi lungo la destrutturazione del concetto d’identità, la cui posizione viene sistematicamente rimpiazzata da una cartografia affettiva, fatta di latitutidini e longitudini. In questo senso, la parola si fa cosa tra cose, elemento di fruizione dinamico il cui senso è esente da forme di controllo, dominio, o sedimento. Tutto si svolge allora lungo un unico “piano di immanenza” – secondo l’espressione, citata da Croce, di Deleuze e Guattari – in cui gli elementi si aprono a continui processi di reintegrazione.

Ciò che Croce ci suggerisce, attraverso la scrittura dirompente di Lispector, è pertanto di riconoscere il situs da cui ogni azione risulta definibile, ogni corpo localizzabile, ogni legame attualizzabile. Si tratta di una torsione che impegna i corpi in un processo – secondo il felice vocabolo coniato da Croce, sebbene in rimando a nozioni della filosofia medievale e protomoderna – di co(i)mplicazione. Di nuovo, affare di campo. Così, punto d’accesso a Postcritica è forse quel concetto cui in apertura si è fatto cenno. Trattare i corpi quali enti precostituiti che entrano poi in certi rapporti di mediazione non risponde allora alle dinamiche del tracciato molecolare. Viceversa, l’interazione – in quel salto dall’ è all’e – altri non è se non una forma di intrazione – come Croce indica – ovvero, di chiamata verso processi di aggregazione sempre nuovi, sempre aperti. L’int(e)razione si fa allora precipitato degli operatori della materia di cui sopra si è discusso. Gli elementi producono e sono, di rimando, prodotti dal campo che forma il loro corpo comune. In questo senso, «non semplice metamorfosi, ma anamorfosi» (p. 53). Ancora, affare di ottica.

Postcritica è insomma lettura densa, incisiva, avvincente, che si fa pratica di vita dal taglio relazionale. Da qui, l’attenzione rivolta al tocco. Quel che ne risulta è un’operatività int(e)rattiva, che solca, fende, ritaglia: fare di una circostanza un’occasione. Croce scansa così il rischio di una proposta formulata a mo’ di ricetta, e rilascia il lettore all’elaborazione del proprio campo affettivo, in un processo di mutuo potenziamento: «La mente umana è atta a percepire moltissime cose, e tanto più atta, quanto più numerose sono le maniere in cui il suo corpo può essere disposto» (Etica, Spinoza).

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