Una conversazione con l’ex prigioniera Dareen Tatour

«Erano 35 i “Mi piace” che ho ricevuto sulla mia pagina Facebook l’undici ottobre 2015, il giorno del mio arresto» ricorda Dareen Tatour, esattamente una settimana dopo aver postato online la sua poesia Resisti o popolo mio, resisti loro (Qawem Ya Shaabi Qawemahum). In principio fu un algoritmo, poi le unità informatiche della polizia israeliana che pattugliano lo spazio web alla caccia dei cosiddetti “lupi solitari”, sono arrivate alla sua porta, a Reineh vicino Nazareth nella Galilea, nella casa dove è nata e cresciuta.
All’inizio del nostro incontro Dareen Tatour ripercorre i giorni seguiti all’arresto, e il primo pensiero va ai ben quattro interrogatori cui è stata sottoposta, prima che le venissero notificate le accuse: la sua poesia andava incriminata per istigazione a lotta armata e terrorismo contro lo Stato di Israele.
Dareen è una poeta e attivista palestinese, e cittadina israeliana.
Con la nascita di Israele nel 1948, 750.000 palestinesi furono espulsi dalle loro case e dalla loro terra, in quella che in arabo è chiamata Nakba o “Catastrofe”. Da allora i palestinesi rimasti, pur avendo ricevuto la cittadinanza, esistono e resistono come minoranza discriminata all’interno di Israele.
La storia di Dareen Tatour apre a grandi questioni riguardanti la libertà di espressione in un contesto coloniale, dove la carcerazione, violenza e oppressione sono il quotidiano per i palestinesi che vivono da entrambi i lati del muro di separazione. Il suo è un racconto crudo delle tante forme che il sistema di potere coloniale israeliano può assumere. «Dopo la segnalazione della mia poesia all’unità speciale e l’irruzione della polizia nella mia casa, quasi per caso sono venuta a conoscenza dell’esistenza di una traduzione del testo dall’arabo all’ebraico». Piena di errori, la traduzione era stata fatta da un poliziotto israeliano. «Niente di ufficiale» spiega Dareen, «ma siccome un agente della polizia locale, aveva studiato un po’ di arabo a scuola, gli era stata assegnata la traduzione».
«D’altronde “l’arabo gli era sempre piaciuto”» dice, accennando un sorriso ironico nel ricordare la spiegazione fornitale dalle autorità per giustificare la fabbricazione della prova che avrebbe dovuto condannarla. Ben presto, la vicenda giudiziaria che l’aveva privata della libertà si sarebbe rivelata per quel che era: un rituale kafkiano, dove gli apparti repressivi dello Stato operano alternando sofisticati dispositivi e alta tecnologia alla goffaggine delle procedure burocratiche profondamente immerse nella più classica cultura orientalista.
Dopo una prigionia di 97 giorni, nel gennaio 2016 Dareen Tatour è stata costretta agli arresti domiciliari e a indossare un braccialetto elettronico. Nel 2018 viene poi condannata, e imprigionata prima nel carcere di Jelemeh e poi Damon. Dopo tre anni, il tribunale di Nazareth ha accettato il suo ricorso in appello, assolvendola da tutte le accuse relative alla pubblicazione della poesia.
Ma nonostante la vittoria in tribunale, ciò che emerge è una punizione commisurata – come capita alla maggioranza dei palestinesi – alla sua decisione di esprimersi pubblicamente, denunciando la violenza e l’ingiustizia che opprime il suo popolo.
Durante la nostra conversazione, Dareen ripercorre i vari passaggi che hanno condotto i reparti di sicurezza alla sua poesia, e di come il suo arresto sia dipeso dall’incontro fatale tra diverse tecnologie (più o meno sofisticate) di repressione, che fanno si che lo spazio web e digitale, così come quello fisico e reale siano profondamente insicuri e ostili per i palestinesi. La sorveglianza digitale avviene ad opera di algoritmi e software in uso alle unità informatiche di intelligence israeliana, che monitorano social media e piattaforme web, seguendo una logica di punizione preventive.
Le “machine intelligenti” attivano così la scansione dei social media, mentre gli algoritmi “osservano” testi, status degli utenti web, video, immagini e commenti. Attraverso il filtro di parole in arabo appropriatamente codificate – come ‘martire’, ‘jihad’, ‘Al-Aqsa’ e ‘coltello’ – questi algoritmi cercano tracce per produrre “bersagli” umani e prevederne la loro propensione ad atti violenti contro lo stato (Nashif e Fatafta 2017).
Mentre analizziamo tutti questi aspetti, Dareen ricorda le molte donne incontrate in carcere, arrestate a causa di messaggi scambiati con amiche su WhatsApp, intercettati dagli algoritmi e fraintesi come “pericolosi” e interpretati come prove schiaccianti di una “minaccia imminente”. Difficile non pensare a quanto Philip K. Dick scrisse a metà degli anni cinquanta in The Minority Report. Immaginando un futuro distopico, lo scrittore americano raccontava di una unità speciale della polizia chiamata Precrimine, inventata per arrestare potenziali sospetti di crimini non ancora commessi. Come se fossimo intrappolati nell’incubo di Dick, la realtà parla di centinaia di palestinesi arrestati dal 2014 (Al Jazeera, 2017). Utilizzando lo scudo retorico della ‘sicurezza’, Israele adopera l’intelligenza artificiale per neutralizzare voci e pratiche critiche resistenti, e cancellare la libertà di espressione dei palestinesi.
La repressione attraverso algoritmi, non è affatto esclusiva dell’intercettazione poliziesca o della censura giudiziaria. Questi possono creare tendenze, che influenzano quello che in gergo viene definito “likeability” del materiale digitale, e diventare motore di incitamento all’odio e al razzismo. Nel 2017, nel tentativo di demonizzare Dareen Tatour attraverso campagne social, il ministro israeliano della cultura Miri Regev aveva ri-postato e condiviso la sua poesia per esporla pubblicamente alla gogna del web. Ma come Dareen ricorda, nel momento in cui Regev ha scatenato la sua campagna online, il numero di condivisione del testo è cresciuto in maniera esponenziale, dando alla poesia più visibilità, e paradossalmente creando le premesse perché’ si creassero nuovi ponti di solidarietà politica. Il suo ricordo va a come tutto ciò l’abbia incredibilmente fortificata.
Ma tali controversie, piuttosto che dimostrare una verità unilaterale, non fanno che confermare il grande dilemma che riguarda internet, presenza online e libertà di espressione: il web rende davvero più liberi?
Dareen enfatizza come non ci sia libertà senza visibilità, spiegando come il web possa rivelarsi uno spazio in cui il silenzio, l’autocensura e l’assenza si impongono come modus vivendi. Sovra-esposizione e iper-visibilità possono quindi essere causa di grande vulnerabilità. Ricordando il tempo speso in carcere, Dareen riflette sulla natura oppressiva della rete, e sulle similitudini che esistono tra web e prigione, in quanto entrambi spazi dove scrivere, parlare e condividere è pericoloso, se non vietato. In rete, quando la libertà è a rischio, dissidenti e attivisti – così in Palestina come in altre parti del mondo – sono costretti alla clandestinità, uno stato politico ed esistenziale che in qualche modo anticipa l’ethos proprio del prigioniero politico, fondato su integrità e organizzazione, e sulla necessità di immaginare forme di comunicazione con l’esterno, usate in segreto per evitare l’occhio indiscreto dell’autorità.
Spesso però certe tattiche di resistenza, non sono sufficienti. Algoritmi più sofisticati sono in grado di produrre segnalazioni scavando nei meandri più profondi dell’utenza online. Oltre a ciò che già è pubblico, disponibile e condivisibile sulle piattaforme digitali e social, questi algoritmi hackerano profili individuali, rubando identità e accentuando strumentalmente le propensioni degli utenti, in una chiara e illegale violazione della privacy.
Nel 2014 è stato reso pubblico che agenti dell’intelligence israeliana hanno fatto utilizzo di tecniche di hackeraggio per acquisire informazioni private su utenti palestinesi comuni. Il targeting è tarato su categorie vulnerabili– in maggioranza donne e persone LGBT – aprendo così al ricatto da parte delle unità speciali, che costringono i propri “bersagli” a negoziare la propria riservatezza in cambio di collaborazione e scambio di informazioni con gli apparati di intelligence. Una strategia che spinge sempre di più all’autocensura e alla scomparsa dal web e dalla vita reale.
Nonostante ciò, Dareen rivendica il proprio rifiuto a questa vulnerabilità. Alla domanda se si senta spaventata o prossima all’autocensura, la sua risposta è immediata e ferma: “Se così fosse, a che sarebbe servito quanto accaduto? Dopo tre anni di persecuzione? Rinunciare a essere visibili, significherebbe la resa ad un sistema oppressivo che ti vuole invisibile – nella vita reale e in quella digitale”. In un contesto come la Palestina, dove colonizzazione significa pulizia etnica, la rete di fatto definisce una dimensione aggiuntiva, che riflette la lotta per la sopravvivenza nello spazio fisico e vitale.
Il rifiuto di Dareen dice molto della sua arte e del suo impegno politico. Dal giorno del suo rilascio, ha iniziato a collaborare con una rete di (ex)detenute. Pur costituendo una minoranza dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane (con più di 40 prigioniere su un totale di 5000 detenuti uomini), la questione carceraria femminile è centrale per capire il fulcro della macchina repressiva in Israele (Addameer).

Dareen sottolinea come per molte donne palestinesi l’uscita dal carcere sia politicamente, socialmente ed esistenzialmente devastante. A differenza degli uomini, la maggioranza di ex-detenute che rientrano in società, dopo aver vissuto ugualmente gli abusi del regime carcerario israeliano, più difficilmente vengono riconosciute degli stessi oneri e onori riservati a un ex-prigioniero. Il ritorno al quotidiano significa un costante confronto con altre forme di oppressione, in quanto frutto dell’intersezione tra violenza coloniale e patriarcato.
“La lotta al colonialismo e al patriarcato, sono parte della stessa lotta”. Sostiene Dareen che “non possono essere separate, perché’ sono entrambe centrali per la futura liberazione palestinese. La società patriarcale esiste in Palestina – così come nel resto del mondo –ed è la miglior alleata dello status quo, imposto da Israele”.
La sua testimonianza dimostra come ancora una volta il ruolo della donna sia da sempre al centro delle strategie di governo coloniale. Dalla retorica civilizzatrice per la ‘liberazione’ della donna dalle catene della tradizione, fino alle più recenti forme di divide et impera costruite su disparità di genere e sessualità.
Franz Fanon in Un Colonialismo Morente, spiega come i coloni francesi in Algeria pensassero ai corpi femminili algerini come lo strumento di repressione di un intero popolo: la distruzione del tessuto sociale del colonizzato doveva passare attraverso la “conquista” della donna. Secondo Fanon, agli occhi del bianco colonizzatore, la spoliazione del velo era percepita come la via maestra per scalfire e annientare la resistenza della società algerina.
Se da un lato slogan di liberazione dall’ ‘uomo arabo’ resistono come cliché’ nel discorso pubblico israeliano, così come in quello occidentale in generale, Dareen sottolinea come Israele allo stesso tempo, si affidi alle radici del patriarcato per garantire la conservazione dello status quo, che in ultima istanza rimane votato all’oppressione di tutti e tutte le palestinesi, senza distinzione di genere. “La garanzia di una inscalfibile supremazia maschile all’esterno e all’interno della nostra società, non può che condurre alla stabilizzazione e rinforzo dell’oppressione coloniale”.
Ormai giunti alla fine della nostra conversazione, Dareen insiste su un punto fondamentale, che anticipa un possibile cambiamento: “le manifestazioni che si sono succedute nell’ultimo anno in tutta la Palestina, da Ramallah a Nazareth, passando per Jaffa, Haifa e Sakhneen da parte di donne palestinesi che rivendicano la scelta della mobilitazione pubblica per denunciare la violenza patriarcale all’interno della propria sfera sociale e la colonizzazione israeliana, hanno destato più di una preoccupazione tra le autorità di sicurezza locali e nazionali israeliane”. Mi fa notare come infatti la reazione dello stato non si sia fatta attendere, con ben 11 donne palestinesi arrestate dalla polizia israeliana. A dimostrazione conclude Dareen che “anche la lotta alla frammentazione e violenza – di genere e non – interne al nostro mondo, è parte del nostro cammino per la decolonizzazione”.
Un ringraziamento affettuoso a Einat Weizman, Elian Weizman e Fabio Cristiano