Un estratto di “Porti ciascuno la sua colpa” di Francesca Mannocchi (Laterza, 2019).
“Ma quali prigionieri? Noi non facciamo prigionieri”, ci aveva detto a dicembre Makmoud, ventun anni, di Misurata, studente di informatica e a tempo perso soldato che protegge dall’Isis i confini al di là dell’Europa. “Non abbiamo fatto prigionieri”; questo era il mandato della guerra: kill them all.
Il giorno prima che Sirte venisse dichiarata ufficialmente liberata, i soldati libici hanno estratto un giovane dalle macerie di Al Giza. Aveva il volto segnato dalla fame e dalla sete, la barba lunga e incolta, indossava un paio di pantaloni verde mimetico, lacerati in più punti, sopra una maglietta cui erano state strappate via le maniche.
Mentre il soldato lo strattonava, si intravedeva il torace del giovane, così magro che si potevano contare le costole. Decine di altri soldati intorno, gridavano “Allahu Akbar”. Il giovane miliziano estratto dalle macerie era completamente disarmato. Tecnicamente, un prigioniero. Il soldato libico con un berretto capovolto sulla fronte lo teneva per i capelli e, per trascinarlo via e portarlo sul piazzale, lo spingeva con scosse violente. In pochi secondi tutti gli scalini della piramide di detriti si sono riempiti di altri soldati, berretti in testa, ciabatte ai piedi e fucili. Uno di loro aveva una t-shirt con su scritto “Tremendous law”.
Sparavano in aria, tutti insieme, come celebrando un’euforia collettiva. Finché uno dei soldati ha sparato alle gambe del prigioniero. Continuavano a urlare “Allahu Akbar” sempre più forte, fino a diventare un’unica voce. Poi gli spari, sordi, contro il ragazzo disarmato. Non avremmo dovuto essere lì, soprattutto non avrebbero dovuto essere accese la mia telecamera e la macchina fotografica di Alessio, ma lo erano. Perché avevamo speso così tanto tempo con quei soldati da guadagnarci la loro fiducia, per questo quell giorno avevamo raggiunto un punto così avanzato del fronte e nessuno era preoccupato della nostra presenza. Uno sparo, due, una gragnuola.
Ci siamo guardati ed è bastato un battito di ciglia e un gesto rapido del capo per camminare velocemente via di lì, il tempo di togliere le schede di memoria dalle macchine fotografiche, nasconderle nella tasca più interna dei pantaloni e chiedersi dove fossero le sigarette. “Fammi fumare per favore”.
Ogni tanto riapro quella foto e mi fermo ad osservare. Il ragazzo – il miliziano catturato – stringe la sua coscia sinistra, un soldato alla sua destra lo sta strattonando fino al piazzale antistante il mare, l’ultimo lembo del quartiere di Giza ormai raso al suolo. Intorno a lui decine di soldati, tutti armati. La fotografia ferma il momento esatto in cui il primo sparo l’ha colpito alla gamba sinistra. Il miliziano ha un’espressione mostruosa sul volto. Difficile dire se dal dolore o dalla paura. Ogni volta che guardo quella fotografia trovo un particolare che non avevo notato. L’ultima volta mi sono resa conto che c’è una persona di spalle in basso a destra, ha un camice blu. Era uno degli infermieri dell’ospedale da campo. Anche lui esaltato da quel momento di violenza collettiva, spettatore entusiasta di un crimine di guerra.
Abbiamo visto tanta morte e tanti feriti in questi anni. Ma quel giorno a Sirte è stato diverso. Quella era un’esecuzione, era la parte della guerra che non avremmo potuto e dovuto testimoniare. Al nostro ritorno il corpo del ragazzo era steso sull’asfalto, più o meno nella posizione che aveva raggiunto quando è stato colpito dal primo colpo, alla gamba. Intorno a lui altre decine di corpi. Decine di ragazzi giovanissimi, scalzi, affamati, pronti a tutto, con i loro passaporti in tasca. Giovani tunisini, iracheni, nigeriani, maliani. E libici, ovviamente.
Si era fatta l’ora della preghiera. A sinistra, il mare e i soldati sul marciapiede in file di due tre al massimo, a pregare, scalzi sui tappetini in direzione della Mecca, ginocchia a terra, i palmi delle mani rivolti verso il viso, lo sguardo basso.
A destra, Giza distrutta; in mezzo sull’asfalto i cadaveri dei miliziani morti, e noi fermi a guardare. Mentre osservavamo quel corpo circondato da decine di altri corpi abbiamo sentito un colpo secco, fortissimo. Proveniva dallo stesso gruppo di macerie da cui era stato estratto il giovane miliziano pochi minuti prima. Abbiamo alzato gli occhi verso qualcosa di indefinito in cielo. “Braccia” mi ha detto Alessio, “e un pezzo di busto”. Era un altro miliziano: pur di non farsi catturare si era fatto saltare in aria.
La morte di quel ragazzo ucciso di fronte ai nostri occhi è figlia della violenza di tutte le guerre, certo, ma lo era anche dell’elementare strategia antiterrorismo evocata da Rodi: risolvere il problema ammazzandone il più possibile.
Quel giorno di marzo, di fronte a un felafel a Mosul est, mi sono chiesta se la narrazione dell’Isis che si è imposta in questi anni e che ha descritto il gruppo terroristico come un mostro monolitico da disintegrare ad ogni costo fosse sufficiente a spiegare ciò che stavamo vivendo, e soprattutto quello che stavamo testimoniando a Mosul.
Dopo aver ascoltato la saggezza del piccolo Abudi, le parole di Rodi, dopo aver ricordato l’esecuzione del miliziano di Sirte, mi sono chiesta cosa fosse l’Isis nell’immaginario collettivo.
L’Isis è il male senza appello. Le bandiere nere, spiegate, senza sfumature. I miliziani dell’Isis non sono solo soldati del jihad in nome di una interpretazione distorta della religione, sono diavoli perversi, assetati di sangue, che vogliono corrompere le anime dei giovani musulmani e distruggere l’Occidente. Con l’Isis non si può parlare. Con l’Isis non si deve parlare. Sipario. Fine.
È sufficiente? No, non lo è stato e non lo è. Credo che una delle ragioni per cui l’Isis sia stato descritto come un mostro monolitico sia che questa descrizione è stata funzionale all’unica risposta che l’Occidente ha saputo dare al terrorismo in questi anni: violenza contro violenza.
Bombardamenti indiscriminati, esecuzioni sommarie, punizioni collettive. Questo, certo, porta a vincere la guerra momentanea, quella a favore di telecamera, con le parate di pick up e i carri armati che sventolano le bandiere irachene e il premier al Abadi che ringrazia la coalizione internazionale al grido di “Abbiamo vinto e annientato il male”. Ma non porta né a capire né a vincere le sfide di domani.
La violenza in questi anni è diventata un alibi e la narrazione dell’Isis è servita a giustificare qualsiasi cosa fosse ritenuta necessaria contro quel male. E a giustificare una rimozione di massa: i foreign fighters e i loro figli rifiutati dai loro paesi di origine in Europa, la vendetta dei villaggi iracheni nei confronti dei familiari di Isis.
Trascinati in un oblio che rende colpevoli anche le vittime.