La potenza del noir

“Il mostro di Modena” di Giovanni Iozzoli.

Immagine di Steve Halama (fonte: Unsplash).

Giovanni Iozzoli è un autore che si è fatto conoscere per la sua “tetralogia dello sradicamento” – I terremotati (Manifestolibri, 2009), I buttasangue (Artestampa, 2015), La vita e la morte di Perzechella (Artestampa, 2016), Di notte nella provincia occidentale (Artestampa, 2018) – incentrata sulla crisi e sul senso di sradicamento che opprime i protagonisti delle sue opere, accomunati da un analogo percorso di migrazione. Nel successivo romanzo L’Alfasuin (Sensibili alle foglie, 2018) – incentrato su quell’universo di sfruttamento che si cela dietro ai miti dell’Emilia delle imprese di successo –, lo scrittore ha invece raccontato di una generazione sfruttata e inascoltata di lavoratori, spesso di origine straniera, che, anziché rassegnarsi e patire passivamente la realtà che li circonda, ha deciso di ribellarsi a condizioni di vita e di lavoro insostenibili. Seppur presente in maniera meno evidente già in alcune di queste sue opere, è con la sua sesta fatica letteraria, Il mostro di Modena (Artestampa, 2020), che Iozzoli si cimenta più direttamente con il genere noir.

La letteratura noir – che è altra cosa rispetto al giallo, al poliziesco classico, al procedural ecc. –  per quanto difficilmente classificabile entro canoni precisi, può dirsi caratterizzata da una serie di elementi ricorrenti tra i quali si possono elencare: la presenza di un evento criminale traumatico, solitamente di sangue, utile ad introdurre il disordine in un ordine che si rivela del tutto apparente; la presenza di personaggi complessi, articolati ed ambigui che instaurano nei confronti della realtà un rapporto improntato al sospetto; una strisciante sensazione di perdita irrecuperabile di qualcuno o qualcosa; un finale incapace di restaurare completamente la situazione precedente al trauma.

Il nuovo romanzo di Iozzoli è un noir particolare; è un noir senza sangue esibito, in cui l’alcol non scorre a fiumi e privo persino di bagliori notturni e di revolver alla cinta dei pantaloni o sotto alle ascelle cari al genere. È un noir abitato da silenzi, da teste girate dall’altra parte o chine intente a produrre. Un noir attraversato da vecchi cronisti di nera che sapevano fare il loro mestiere e da distintivi davvero poco luccicanti, da marciapiedi battuti e da tossici un po’ per noia disperata ed un po’ per chiamarsi fuori. Un noir fatto di emancipazioni scemate miseramente in insoddisfazioni, di tentativi di scalata sociale, che a volte si rivela di veloce andata e ritorno, di sogni e speranze che hanno lasciato spazio al vuoto, di insofferenze e incomunicabilità tra generazioni, di solitudini ed anime in pena vendute o regalate ad un demonio che alterna le sembianze di una ago nelle vene, di capannoni in costante ampliamento o di auto prestigiose.

Tra gli anni Ottanta e Novanta nel modenese vengono uccise dieci giovani donne legate al mondo della prostituzione, più o meno occasionale, e con problemi di tossicodipendenza. Nonostante la ritrosia degli inquirenti e, con loro, di una società impreparata a fare i conti col male interno ad essa, nel corso del tempo si è però fatta strada un’ipotesi giornalistica che ha messo in relazione otto di questi omicidi generando una sempre più diffusa convinzione in città circa la presenza di un omicida seriale.

Vedevo una serialità. C’erano tanti aspetti sempre uguali. Sospettavo che qualcuno avesse individuato le sue prede ideali dentro lo stesso ambiente marginale, anche se come noto il grande criminologo De Fazio, mio amico, non era d’accordo perché non si trovavano riscontri sufficienti per collegare i fatti. Oggi sono “casi freddi” ma non sono casi chiusi.

Così racconta Pier Luigi Salinaro, storico cronista di nera della “Gazzetta di Modena”, in un’intervista rilasciata alla sua vecchia testata nel luglio del 2018 in cui sottolinea anche come, curiosamente, unendo su una piantina tutti i luoghi dei ritrovamenti, si formi un inquietante pentacolo che sembra rinviare agli ambienti massonici.

Secondo l’ipotesi seriale, la tragica sequenza di morte prenderebbe il via nell’estate del 1985 con il rinvenimento, nei pressi di una fornace, del cadavere di Giovanna Marchetti, colpita violentemente alla testa dopo un tentativo di strangolamento. Dunque, nel 1987, a distanza di pochi mesi uno dall’altro, vengono ritrovati i corpi di Donatella Guerra, su cui ha infierito un coltello da macellaio, e di Marina Balboni, strozzata col foulard che portava al collo. Ad essere strangolate sono anche Claudia Santachiara, il cui cadavere viene abbandonato nel maggio del 1989 nei pressi dell’Autobrennero e Fabiana Zuccarini, tossicodipendente ma non prostituta, soffocata, il cui corpo viene trovato nel febbraio del 1990. Poi è la volta di Anna Abbruzzese ad essere scoperta priva di vita nel febbraio del 1992 e di Anna Maria Palermo, uccisa nel gennaio 1994 con una dozzina di coltellate al cuore e scaricata in un canale. Infine, Monica Abate, il cui cadavere viene ritrovato nel gennaio del 1995 nel suo appartamento in centro a Modena il cui strangolamento viene maldestramente celato da una messinscena che vorrebbe ricondurre la morte ad una overdose, con tanto di siringa conficcata in un braccio.

Ai cadaveri di questi otto casi di giovani donne che hanno segnato col sangue la storia degli anni Ottanta e Novanta modenesi, il romanzo di Iozzoli ne aggiunge un nono, d’invenzione, che, per certi versi, li racconta tutti e che allo stesso tempo permette all’autore di tratteggiare una società di provincia cresciuta colpevolmente miope, forse distratta dall’ossessione del produrre a testa bassa che, in diversi casi, ha condotto ad un’ascesa sociale rivelatasi insoddisfacente.

A colpire nel romanzo è anche l’assenza o il sostanziale silenzio delle figure femminili. Se la nona vittima, attorno alla cui scomparsa è imbastita la storia, e con lei le otto precedenti, è la grande assente dal racconto, la figura della madre è segnata da un silenzio che oltre ad essere dettato dalla malattia si rivela anche volontario. È il silenzio di chi ha forse compreso, e da tempo, quello che le figure maschili, indaffarate ed in cerca di protagonismo, non sembrano mai aver davvero colto. È il silenzio di chi ha forse percepito la deriva verso cui si proiettava la figlia, il contesto da cui si allontanava ed il tragico epilogo di cui sarà vittima. È il silenzio delle vittime principali, dirette ed indirette, della miopia di una realtà territoriale e di un’epoca mitizzate con cui, ancor oggi, si fatica a fare i conti. 

Modena, la città che ha generato il “mostro”, solitario o collettivo che sia, se per certi versi ha tratti comuni a tante altre città di provincia che hanno covato in seno altrettanti mostri, non di meno vanta peculiarità tutte sue che nel romanzo sembrano avere le radici sotto alle colate di cemento dei distretti produttivi, sotto i pavimenti dei centri commerciali e sotto i nastri d’asfalto su cui scorrono le automobili di lusso, ben più che all’ombra della torre che da secoli svetta nella piazza principale.

È in questa ricostruzione umana ed ambientale che il romanzo si presenta come un noir capace di raccontare una faccia di Modena che forse non si è mai voluta vedere e con cui ci si ostina a non volere fare i conti per evitare di trovarsi di fronte a quel lato oscuro del sogno emiliano, esorcizzato da qualche saltuaria civica adunata nel centro cittadino e da qualche autocompiaciuta tabella economica pubblicata sui giornali.

Al di là del fatto che si sia trattato o meno di episodi seriali, tra le pieghe del benessere esibito in vetrina e celebrato in piazza, questa lunga scia di sangue innocente che ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta, letta attraverso l’espediente di una fiction derivata dai fatti di cronaca, contribuisce a riportare a galla quel malessere strisciante che ha fatto da contraltare al successo della società modenese. Anche questa è la potenza del noir.  

Print Friendly, PDF & Email
Close