A proposito della bagagliofobia.
Rosse, blu, verdi, a pois. Le vogliamo colorate, griffate, aerodinamiche, a due o quattro ruote, che migliora la stabilità. Silenziosissime, in plastica sottile e resistente, il manico in alluminio, in carbonio, in titanio. Leggere come se non fossero mai state riempite. Come se non servissero al loro scopo. Qualcuno è disposto a spendervi diverse decine, centinaia, anche migliaia di euro. Si comprano vuote, al supermercato, al mercato, nella boutique di Louis Vuitton oppure su Amazon BuyVip. Ce le vendono singole, oppure in coppia, di diverso formato, in formato famiglia. È un buon affare, affare fatto.
Eppure, qualcosa di strano persiste: come un’inquietudine, tanto largamente condivisa quanto generalmente inconsapevole. Un’inquietudine della quale, forse, soltanto i flâneur – o quelli che hanno del tempo da perdere, che poi è la stessa cosa – arrivano ad avere consapevolezza. Sono le valigie a esprimere la nostra angoscia. Non la contengono, non la trattengono, ma la trasportano, la portano a passeggio, la disseminano nella città e arrivano a ridosso della campagna. Sono le valigie il male di questo tempo: colorate o meno che siano, opache o lucide, non possiamo smettere di guardarle con sospetto oppure, al massimo, associarle alla fatica.
Se la valigia è il male, siamo noi a poter essere buoni: trascinandole quando il pavimento è liscio e afferrandole per il manico sulle piastrelle piccole e sconnesse che fanno un sacco di rumore; trasportandole senza imprecare ai piedi della lunghissima scalinata; non dimenticandole sull’autobus, in aeroporto, sul vagone della metropolitana; aiutando l’amico, una cara signora, la sconosciuta che ha fatto male i suoi calcoli e rischia di compromettere il viaggio.
Si distinguono tre forme di bagagliofobia:
1. La paura di perdere la valigia. Colpisce chiunque, senza particolari distinzioni di età, genere e appartenenza sociale. La si combatte prestando particolare attenzione: facendo nodi al fazzoletto, mettendo un allarme al cellulare, scrivendolo sul palmo della mano, trasformando la paura in una modalità dell’attenzione. È bene sapere, tuttavia, che si tratta sempre e comunque di gesti scaramantici che difficilmente possono bastare. Una variante molto diffusa di tale ossessione è inoltre quella di vedersi sottratta la valigia stessa o magari una parte del suo contenuto. Si stabiliscono dunque polizze di assicurazione, si comprano lucchetti, allarmi, si inserisce un codice segreto a quattro cifre che coincide con il proprio anno di nascita.
2. La paura che la valigia sia inadeguata o compilata in modo inadeguato rispetto alle esigenze del viaggio. È questa la sfera delle previsioni metereologiche e degli indumenti di scorta, che non si sa mai. Il beauty-case (nuovo) rimasto per sbaglio sul letto. La bilancia a forma di gancio regalata da un qualche parente e mai effettivamente usata. Il 55 40 20, come numero magico. La discussione con l’hostess. La franchigia rispettata ma la maniglia rotta, la ruota ugualmente inceppata. È questa la variante più strettamente nuovo-mediatica della fobia della valigia, quella che cerca un argine, un riparo, nel “sistema degli oggetti” e nella loro socializzabilità elettronica. All’inizio e alla fine del viaggio, nel bene o nel male, si fa dunque una foto e la si posta su Instagram.
3. La paura della valigia stessa. Per quanto sia la più largamente diffusa, è questa la forma più radicale di bagagliofobia. Quella che sussume in sé tutte le altre e le eleva in modo esponenziale. È la paura di non sapere cosa c’è nella valigia degli altri, il sospetto suscitato dalla maleta del passeggero accanto, il signore assentatosi per comprare il giornale (variante hitchcockiana). È il dubbio, l’ossessione, la paura della propria valigia, della “stabilità” e della “tenuta” del suo contenuto, come nell’ossessione di un buco nero che risucchia dall’interno il proprio abito preferito, il cappello, le scarpe lucide (variante lynchiana). La scelta, in fine, di aprirla, davanti a tutti, in mezzo alla strada, costituisce un tentativo di superare tale sentimento attraverso un espediente comico. Un palliativo.
Chi vive in una qualsiasi città d’Europa, conosce a memoria gli inviti, fatti in diverse lingue, con accenti spesso improbabili, a non “lasciare il proprio bagaglio incustodito”. La minaccia dell’arrivo della polizia o degli artificieri che nella migliore dei casi si limiteranno a “controllare” il bagaglio e nel peggiore lo faranno “esplodere” scongiurando così la paura che possa farlo da solo, adesso o tra un po’, prima o poi, comunque, potenzialmente. Negli spazi pubblici della città di Parigi, ad esempio, la voce dell’altoparlante ripete in continuazione «Ne vous séparez pas de vos bagages. Signalez-nous tout colis suspect ou abandonné» [Non separatevi dai vostri bagagli. Segnalateci ogni pacco sospetto o abbandonato]. Una misura di allarme e di sicurezza elaborata come risposta preventiva agli attacchi terroristici che hanno avuto luogo negli ultimi mesi in quella stessa città e in altre città europee. Una misura di sicurezza, un mantra, che sembra basare la sua efficacia in quell’immaginario fobico che a sua volta rilancia continuamente, con una cadenza di pochi minuti.
Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, la Ratp (l’azienda che gestisce la rete dei trasporti della città di Parigi e del circondario) ha elaborato una nuova strategia di comunicazione e sensibilizzazione dei passeggeri. Se la voce degli altoparlanti continua imperterrita a ripetere le poche parole sopra citate, una serie di manifesti, progettati con la massima cura, tappezza le pareti delle 303 stazioni della metropolitana. Si tratta della campagna Affaires oubliées, traffic perturbé [Oggetti dimenticati, traffico alterato].
Al centro dell’immagine vediamo una bella valigia di pelle marrone o di colori sgargianti, oppure uno zainetto all’ultima moda; dopodiché, una serie di frasi esplicitano le diverse forme di disturbo arrecato, a soggetti diversi, dal semplice fatto di averla lasciata – non obbligatoriamente in mala fede – da qualche parte. Una valigia dimenticata è “un pelouche perduto (per la piccola Emma)”; Una valigia dimenticata è “un pacco sospetto (per la Polizia)”; Una valigia dimenticata è “un’ora di traffico rallentato (per i viaggiatori)”.
Sono diversi gli aspetti di questa campagna a suscitare attenzione: il primo è che nessuna delle valigie utilizzate per i manifesti è un trolley; il secondo è che la campagna non ricorre a immagini di “valigie sospette” e non fa espliciti inviti all’idea di “vigilanza”; il terzo è che l’obiettivo dichiarato della campagna è appunto quello di sensibilizzare i viaggiatori alla semplice attenzione nei confronti delle proprie belle borse colorate, onde evitare dispiaceri ai propri bambini, preoccupazioni alle forze dell’ordine e scocciature agli altri passeggeri.
Descritta in questo modo, la campagna sembra operare un superamento della tendenza fobica che caratterizza le voci degli altoparlanti in favore di una concezione “economica” della valigia e dei rapporti che intratteniamo con essa. E, tuttavia, è evidente a chiunque si muova quotidianamente in quei corridoi sotterranei che l’onnipresente invito alla vigilanza, il sospetto generalizzato, la costruzione sociale della valigia in quanto “oggetto del terrore contemporaneo” agiscono implicitamente nell’efficacia di questa campagna.
È impossibile negare che – sebbene prive di ruote – quelle belle valigie, sole in quel modo lungo il binario o davanti un sedile della RER, mettono una certa inquietudine. Se la campagna Affaires oubliées, traffic perturbé cerca da un lato di “tecnicizzare” e “ottimizzare” la questione individuale e sociale delle valigie, dall’altro lato, per farlo, per attirare l’attenzione e suscitare la propria efficacia sui viaggiatori-spettatori, ricorre a un intreccio, quanto mai problematico, delle varie paure: di perdere la valigia; del contenuto della valigia; della valigia stessa.
Il messaggio ripetuto in continuazione dagli altoparlanti e la nuova, innovativa campagna lanciata dalla Ratp condividono una parola. Una parola si ripete nei due messaggi di informazione e sensibilizzazione. Si tratta di “colis”. Una parola molto comune in francese, usata da tutti, quotidianamente. Una parola che suona strana all’orecchio italiano, allo stesso tempo vicina e lontana, potenzialmente rivelatrice di qualcosa.
Colis gliel’hanno insegnata gli italiani ai francesi, nel Settecento, prima di metterla in secondo piano e quasi dimenticarla del tutto. Come spiega il dizionario etimologico, si tratta di un “termine commerciale”, utilizzato dapprima a Lione e a Marsiglia dove il traffico con l’Italia era più forte. Un termine che traduciamo perlopiù con “pacco”, ma che letteralmente sarebbe “collo”. Il collo dei facchini, come metonimia (e unità di misura) dei carichi importanti. In Italia, i magazzinieri e quelli che lavorano nei magazzini sanno ancora utilizzare alla perfezione il termine collo per descrivere qualsiasi involto, balla, cassa che sia trasportabile. Ma per chi non frequenta i magazzini – e una gita all’Ikea può non bastare in tal senso – collo è una parola strana che compare nel gergo dei biglietti aerei: «a bordo è consentito il trasporto di 1 collo di bagaglio a mano», dice Transavia; «fino a un limite massimo di 20 kg per collo» dice Ryanair.
Che cosa significa l’espressione “collo di bagaglio” chiedeva del resto la giovane Deffi su Yahoo Answers nel 2010? «Sei un accollo!», gli rispondeva magari qualcuno, ignorando o trascurando l’antropomorfismo comune a tali espressioni.
Qualche settimana fa, l’azienda italiana Piaggio ha presentato a Boston i primi progetti sviluppati da Piaggio Fast Forward (PFF), il centro di ricerca avanzata sulle forme di mobilità del futuro. Tra questi progetti spicca per il suo fascino un trolley-robot colorato di forma sferica. Si chiama GITA ed è capace di trasportare fino a 18 kg di peso e di seguire autonomamente il proprietario, a una distanza costante di pochi passi, nei suoi spostamenti in interni e in esterni. Come ha spiegato il presidente di PFF, si tratta di «comprendere profondamente le persone, le loro abitudini per soddisfare le loro esigenze: questo il percorso che ci ha portato a creare Gita. Abbiamo capito che dobbiamo creare prodotti in linea con i bisogni degli uomini di domani».
Capace com’è di intrecciare le tecnologie contemporanee all’esigenza umana di lunghissimo periodo di portare un bagaglio con sé, il progetto di PFF meriterebbe un’analisi dedicata e approfondita che esorbita di gran lunga i limiti di queste pagine. Piuttosto, alla fine di questa storia, viene voglia di una sintesi, qualcosa che giustifichi le digressioni. Viene da chiedersi che cosa – quanto alle questioni di mobilità, ben inteso – possa tenere insieme gli “uomini di domani”, gli uomini di oggi e quelli di ieri, ai quali si è brevemente fatta menzione.
Da sempre, o quantomeno da parecchio tempo, chi si sposta – anche per brevi viaggi urbani – tende a portare con sé un bagaglio, una valigia più o meno ingombrante, più o meno dinamica. Ma oggi che paura e socialità tendono più che mai a sovrapporsi problematicamente, la valigia assume uno statuto particolare: mette le ruote ai dubbi, movimenta la paura, mette in ansia la socialità. È una figura del “segreto”: una forma del privato che si insinua – si espone nascondendo – nel cuore della vita pubblica. Da questo punto di vista, ogni valigia è una valigia diplomatica: una figura della diplomazia, intesa come personalizzazione di una condotta strategica, capillarizzazione del “confine” in prossimità del nostro corpo.
Passando attraverso il cinema di Hitchcock, gli annunci degli altoparlanti, la campagna della Ratp e tutti i bagagli del mondo, la valigia, insomma, continua a darci tante inquietudini. Tante di più – a noi e a chi ci sta intorno – quanto più essa è distante da noi, quanto più fortemente si distacca del nostro collo o dal collo del “nostro” facchino.
Se si vuole imparare a non preoccuparci e convivere con le valigie è dunque il caso di mettere in chiaro un questione: che la valigia non è una cosa come tutte le altre, ma è un oggetto speciale che chiede di essere accompagnato e assistito, sempre, o da noi o da un nostro delegato fedele. È l’“oggetto personale” (personal belongings, persönliche Sachen, pertenencias personales) per eccellenza, per metonimia: oggetto teorico della nostra condizione di “persone”. Perché, alla fine, come abbiamo insegnato ai francesi, una valigia è un colis.