La leggenda e la pasta sfoglia

Una lettura incrociata di due nuovi libri di Michele Mari, fra leggende private, demoni e pasta sfoglia.

Sono tempi interessanti per i lettori di Michele Mari: sono arrivati in libreria quasi contemporaneamente il suo nuovo libro Leggenda privata (Einaudi) e la riedizione de I demoni e la pasta sfoglia (Il Saggiatore), così abbondantemente ampliato da farne praticamente una novità.

Leggenda privata è un’«autobiografia horror» in cui Michele Mari fa i conti in particolare con i genitori, il designer Enzo Mari e la disegnatrice e autrice di libri per bambini Iela Mari. I demoni e la pasta sfoglia invece è una raccolta di articoli, prefazioni, recensioni e interventi vari su molti degli autori e dei libri più cari allo scrittore.

Cosa si può ricavare a leggere Leggenda privata attraverso la lente de I demoni e la pasta sfoglia, e viceversa a leggere I demoni e la pasta sfoglia attraverso la lente di Leggenda privata? Inopportuni psicologismi a parte, a tenere in mano entrambi i volumi viene insomma da chiedersi quanto sia possibile e istruttivo leggere il Mari autobiografo alla luce del Mari lettore, e viceversa. Sappiamo quanto le due cose non siano mai separabili, e sappiamo anche quanto valga soprattutto per il caso di Michele Mari, per il quale risulta particolarmente pertinente quanto egli stesso ha scritto ne I demoni e la pasta sfoglia a proposito di Emilio Salgari: «l’illusione non si giocava fra vita e letteratura, ma era tutta interna alla vita». Del resto, in Leggenda privata leggiamo: «Esasperato, il figlio grida: “Vedetevela fra di voi”, e corre a rifugiarsi nelle braccia della Letteratura, unica Dea».

In Leggenda privata ci si poteva aspettare di trovare molti riferimenti alle letture del Mari bambino o giovane adulto, ma non è così, e i tanti riferimenti riguardano per lo più il cinema. Ma il Mari lettore non poteva certo rimanere del tutto tagliato fuori, e allora ecco che, per esempio, leggiamo: «Ragazzino, incominciai a trasferire particole di anima nei libri che leggevo, fino a dislocarvela compiutamente: in questo modo potevo circolare nel mondo come un insensibile golem senza patir troppi danni, e quando mi prendeva vaghezza di recuperare un po’ della mia anima andavo a cercarmela là dove l’avevo nascosta nei libri: soprattutto in quelli d’avventura e nei più spaventosi: finché, presa l’abitudine di recuperarne troppa, di roba, per far prima a nasconderla ho incominciato a sbatterla in grandi quantità dentro a libri che mi sono messo a scrivere io, appositamente. Ecco, fine della dinamica».

A sentire i commenti di alcuni lettori novizi di Mari, lettori che proprio da Leggenda privata hanno avuto la loro iniziazione all’autore, il principale fattore destabilizzante è il tenore linguistico. Al lettore o lettrice che parla di artificiosità o d’inutilità dell’eventuale difficoltà della lettura di Leggenda privata, si potrebbero allora mostrare i passi in cui Mari, parlando di altri scrittori, ne I demoni e la pasta sfoglia argomenta in lungo e in largo una poetica in cui – e lo dice a proposito di Gesualdo Bufalino – la prosa può risultare «tanto più funzionale, suggestiva e precisa quanto più è ostentatamente letteraria, libresca e inattuale».

Si tratta di un punto centrale della letteratura di Michele Mari, e se, da lettori, non ci si ritiene in grado o volenterosi di sintonizzarci anche su questa lunghezza d’onda, allora è bene subito far rotta verso altri lidi. Lidi quali il «minimalismo», rispetto al quale, nei Demoni e la pasta sfoglia, Mari riflette con severità: «Non vedo come l’autenticità o la necessità o appunto la forza di un testo letterario debbano essere inversamente proporzionali alla sua artificiosità, alla sua inattualità, alla sua difficoltà, alla sua aristocraticità, alla quantità e complessità delle sue mediazioni. Al contrario, la storia della letteratura offre numerosissimi esempi di scritture che proprio attraverso la maniera riescono, e riescono mirabilmente, a fare i conti con la serietà della vita». È un punto decisivo della poetica stilistica di Mari, uno scrittore che, come egli a sua volta riconosce a Bufalino nei Demoni, «si muove con familiarità lungo l’asse diacronico della nostra lingua».

A leggere insieme Leggenda privata e I demoni e la pasta sfoglia, viene inoltre in mente che uno dei principali numi tutelari ad aver guidato Mari nel suo scrivere del suo rapporto con i genitori è stato Giorgio Manganelli. Leggiamo nei Demoni di quanto Manganelli fosse «tanto meno distratto dai fenomeni dell’esistenza quanto più concentrato nell’operazione alchemica di cavare inchiostro dorato dal sangue, decorazione dall’angoscia, il canto dall’incubo». Significa allora che per raccontare veramente argomenti che per l’autore sono possibili fonti di angoscia – quale per Michele Mari la storia dei suoi genitori – l’unico vero modo è paradossalmente distrarsene attraverso un’operazione di distillazione linguistica massimalista. Ancora su Manganelli, nei Demoni: «Come in Céline, come in Mishima, il tossico gettato sul lettore è simultaneamente difesa, pudore, confessione, vendetta». O ancora: «Solo una libresca letterarietà armata di figure retoriche, di didascalie e di postille può aspirare a dire qualcosa sul nulla».

Del resto, per dirla stavolta con le parole di Manganelli stesso, citato nei Demoni, «i libri che non danno disagio sono libri disertati dagli dèi». E Leggenda privata, fra la tenebrosità del padre Enzo e la tristezza della madre Iela, di disagio ne dà eccome. Ma è un disagio che, a differenza di tanti altri momenti di disagio che capitano a noi lettori, non instilla mai il dubbio della verità – qualunque cosa essa sia – di ciò che stiamo leggendo. Per pensare a una ragione, si può tornare di nuovo a I demoni e la pasta sfoglia, e di nuovo al capitolo su Salgari, a cui Mari riconosce con tutti gli onori delle armi «una diffusa eccitazione verbale, il coagulo puntuale di uno stile, una manieristica firma, e dunque anche una paradossale garanzia di verità». Quella stessa verità che fa sì che una tale leggenda possa diventare letterariamente privata solo nel momento in cui diventi editorialmente pubblica attraverso le pagine di un libro come questo.

Da questa breve lettura incrociata di Leggenda privata e I demoni e la pasta sfoglia non può rimanere fuori Stephen King, fra i prediletti di Mari. Leggiamo nei Demoni: «Se scrivere storie d’orrore (come King ha più volte dichiarato ma come è evidentissimo di per sé) ha una funzione liberatoria, giacché solo portate alle estreme conseguenze e attraversate fino in fondo le angosce infantili possono essere esorcizzate, ebbene si può dire che a lungo andare l’esercizio salvifico della scrittura abbia assunto per King una tale importanza e una tale sacralità da divenire esso stesso, paradossalmente, fonte di angoscia». Non è per caso quello che potrebbe essere accaduto a Mari con la scrittura di Leggenda privata? Ecco allora che la definizione di «autobiografia horror» non appare più così tanto esagerata.

Per di più, Mari attribuisce a King, parlando del suo romanzo Cose preziose, una capacità straordinaria nel raccontare «misere cose, suscettibili però di essere sublimate e trasfigurate nel desiderio dei clienti». Letto questo passaggio su King nei Demoni, queste righe di Leggenda privata attireranno ancora di più la nostra attenzione (si sta parlando del frigorifero del bar di Nasca, dove Mari ha passato parte dell’infanzia e che i suoi lettori conoscono bene soprattutto grazie a Verderame): «Stephen King, dopo l’incidente che lo ha portato a un passo dalla morte [lo racconta in On writing], ha voluto acquistare il furgone che lo ha investito, e lo ha collocato nel giardino di casa, consorte di tante macchine mostruose che popolano i suoi romanzi. Ho pensato, si parva licet, che mi piacerebbe fare la stessa cosa con il frigo-Algida». Al lettore la scoperta se lo farà davvero o meno.

(A proposito: si tratta della stessa Nasca che, nella Leggenda, «diventava di colpo il Sud di Faulkner e Caldwell, la California di Steinbeck, una terra morbosa…»).

E i genitori, tema centrale di Leggenda privata. Come non pensare al rapporto fra l’autore e la madre Iela quando, nel capitolo de I demoni e la pasta sfoglia dedicato all’Invenzione di Morel di Bioy Casares, leggiamo con commozione questa citazione: «Forse abbiamo sempre voluto che la persona amata avesse un’esistenza di fantasma». E, dopo aver letto nella Leggenda del rapporto con il padre Enzo, come faremo a trattenerci dalla sovra-interpretazione di questo passo dedicato al Barone rampante di Calvino nei Demoni in chiave Mari Michele-Mari Enzo? «Trovo che la scena più bella del libro sia quella in cui il padre di Cosimo, quell’opaco e noioso genitore tutto preso dalle questioni dinastiche, colui al quale Cosimo si era clamorosamente sottratto, al compimento dei diciott’anni del figlio lo va a cercare per consegnargli la propria spada, in nome di un umanissimo perdono e di un umanissimo affetto che pongono lui, al suolo, molto più in alto del figlio appollaiato sui rami».

Nella sua introduzione a I demoni e la pasta sfoglia, Mari qualifica la letteratura di «forma alchemica che dalla debolezza psichica dell’autore ha tratto il suo stesso sfarzo». Ma in Leggenda privata è meno questione di «debolezza psichica dell’autore» che di letteratura – sempre dalla stessa introduzione ai Demoni – come «lusso e vendetta». Racconta Mari, in Leggenda privata, che quando suo padre Enzo lesse la sua raccolta di racconti Tu, sanguinosa infanzia (1997), commentò piccato che «la letteratura non dovrebbe mai essere impiegata per un “regolamento di conti”». E invece sì: «lusso e vendetta».

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