Su Il Mundial Dimenticato di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni: breve storia di un film “fantastico”.
Quando hai per le mani una storia preziosa, non puoi che provare a raccontarla nel migliore dei modi possibili. È la sfida che i registi Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni hanno raccolto, lanciandosi nell’insidiosa impresa di dare vita alla più improbabile e affascinante delle bugie, quelle bugie così folli e belle da voler essere credute. La storia preziosa nasce dalla penna vivace dello scrittore e intellettuale argentino Osvaldo Soriano, grande appassionato di calcio. Perché la storia di cui stiamo parlando è, anzitutto, una storia di calcio e sul calcio. Dal racconto Il figlio di Butch Cassidy[1] i due registi hanno liberamente tratto un delizioso lungometraggio: Il Mundial Dimenticato. La vera incredibile storia dei Mondiali di Patagonia del 1942. Il film è una benvenuta presa in giro, una geniale trappola, una meravigliosa provocazione. Mentre lo si guarda si è portati a credere a tutto ciò che accade sullo schermo, e non solo per il patto segreto che vincola lettore e autore. Si crede a ciò che si vede perché sarebbe un peccato mortale non farlo.
Attorno al pallone si muove un mondo fatto di ideologie, di malcelati revanscismi, di personalità stravaganti e di invenzioni tecnologiche. Inoltre, come in ogni storia che si rispetti, a muovere i fili in questo speciale palcoscenico non potevano mancare tensioni amorose, ambizioni e gelosie. Perché una partita di calcio non è mai, solo, una partita di calcio. Se poi a contendersi il titolo sono delle improbabili e improvvisate nazionali, nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, arbitrate dal figlio di Butch Cassidy che per dirimere le controversie tra avversari sfodera e scarica il suo revolver al cielo, siamo alle prese con qualcosa che valica le linee di bordo campo. Siamo alle prese con il più originale dei mondiali: il mundial dimenticato.
Era strategico, per il Terzo Reich, allungare le mani sul Sudamerica. Era prioritario, per il pacifista e volteriano Conte Vladimir Otz, dimostrare che lo sport e la tolleranza potessero avere la meglio su guerra e terrore. Per i mapuches era l’occasione di una storica rivincita. Per gli antifascisti e rivoluzionari italiani, emigrati in Argentina, l’opportunità di dare vita a una nazionale azzurra non mussoliniana, alternativa a quella che si aggiudicò la coppa Rimet nelle due edizioni precedenti dei mondiali, nel 1934 e 1938. Molti dei giocatori furono reclutati tra gli operai che, a quel tempo, lavoravano alla costruzione di un’imponente diga a Barda del Medio, fatta eccezione per gli atleti/soldati tedeschi, inviati segretamente dal Führer, il cui scopo era, oltre che vincere il torneo, quello di difendere gli interessi economici del Terzo Reich in Patagonia. Ma gli ordini di Berlino parlavano chiaro: esaltare la vittoria della nazionale tedesca in caso di vittoria, insabbiare tutto in caso di sconfitta.
Una provocazione, se intelligente e intrigante, produce diversi e imprevedibili effetti. Questo film, ancor prima che uscisse, ha saputo suscitare dibattito, in primis nel mondo del calcio. Il Mundial Dimenticato invita, chi lo guarda, a una stimolante riflessione sul posto dello sport nella storia del Novecento[2], sulle implicazioni non sportive di un mondiale di calcio, sul volto umano del pallone[3], e sulla sottile e frastagliata linea che separa realtà e finzione.
La vera incredibile storia del mundial dimenticato ha coinvolto e incuriosito il pubblico presente venerdì 17 ottobre nell’Aula Magna della (ex) Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, nello storico edificio di Fieravecchia, giunto per assistere alla proiezione del film. In quei giorni si è tenuto a Siena il convegno Tempo libero, sport e fascismo, organizzato dalle Università di Siena e Bologna. Gli organizzatori hanno inserito nel programma del convegno, durato tre giorni, la proiezione de Il Mundial Dimenticato, alla quale ha collaborato anche il lavoro culturale. Era presente Filippo Macelloni, uno dei due registi di questo piccolo capolavoro, raffinato e indovinato esempio di mockumentary. Muovendosi tra realtà e finzione, il risultato è quello di una divertente, credibile e (quasi) indecifrabile parodia.
Il Mundial Dimenticato, tuttavia, è molto più di un film. La sua uscita nelle sale è stata anticipata da una campagna mediatica confezionata ad arte dall’agenzia TBWA. Tutto comincia con un video, anch’esso in qualche modo un mockumentary, del giapponese Katsuro Matsuda, che perde una grande vincita ad un quiz televisivo rispondendo «In Patagonia» alla domanda «Dove furono giocati i campionati mondiali di calcio del 1942?». Ma Katsuro Matsuda non ci sta, si incatena per protesta, e convinto della correttezza della sua risposta grida al mondo la sua verità. Nasce Mundialcause, la campagna internazionale lanciata dall’irriducibile Matsuda per raccogliere ogni possibile testimonianza del mondiale censurato, chiederne il riconoscimento ufficiale e, soprattutto, avere i centomila yen che gli spettano, avendo risposto correttamente a tutte le dieci domande del quiz The Shogun Treasure.
Non tarda ad arrivare la solidarietà internazionale. Nascono petizioni per chiedere alla Fifa che quel mondiale venga ufficialmente riconosciuto, e in sua difesa scendono in campo giornalisti e storici, atleti e dirigenti sportivi. Survival, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, ha diffuso un video nel quale si chiedeva di «assegnare alla Patagonia l’organizzazione dei mondiali di calcio del 2026». Si sono fatti sentire anche ex giocatori del calibro di Josè Altafini e Gigi Buffon, che confessa di aver parato i rigori ai mondiali in Germania con l’infallibile metodo mapuche. Quando Darwin Pastorin, giornalista sportivo e scrittore, fa notare a Buffon che in Germania di rigori non ne parò nemmeno uno, il portiere della nazionale rilancia affermando che fu sempre grazie al metodo mapuche che lo fece sbagliare allo sfortunato Trezeguet.
Un altro grande campione del calcio nostrano compare nel film: Roberto Baggio. Al codino più famoso del calcio viene fatta una delle (false) interviste che confermerebbero l’esistenza di un qualche rimosso e bizzarro mondiale che, nel cuore del Novecento, si giocava laggiù, nel buco del culo del mondo. Lontano dai riflettori e dai bombardamenti, mentre nel vecchio continente infiammava la Battaglia di Stalingrado, nella pacifica Terra del Fuoco il Conte Vladimir Otz coronava il suo sogno visionario. Nel film ritroviamo anche lo scrittore e storico argentino Osvaldo Bayer[4], autore di Patagonia Rebelde[5], Gli anarchici espropriatori e altre raccomandabili opere. Altre interviste sono al brasiliano João Havelange, già presidente della Fifa dal 1974 al 1998, all’ex calciatore inglese Gary Lineker e ad altri più o meno noti personaggi. A condurci però nel cuore di quel fantasmagorico mondiale è Sergio Levinsky, giornalista e sociologo argentino, che nota una vecchia fotografia appesa alle pareti di una piccola pulperia, sperduta nella Patagonia selvaggia, e inizia a indagare.
Sulla sua strada Levinsky incontrerà il nipote di Guillermo Sandrini, eclettico e ingegnoso cineoperatore, a cui dobbiamo le immagini sopravvissute di quel lontano mondiale, le sole in grado di farci rivivere le acrobatiche giocate della squadra mapuche. Senza di lui la memoria di quella avventura sarebbe stata orfana di immagini. A Sandrini appartengono i resti ritrovati durante un recente scavo paleontologico, come mostra il servizio di telegiornale che apre il film. In quello scavo si nasconde anche la soluzione dell’enigma, il tassello mancante del quadro. Con un paio di comici baffi e di ridicoli occhialetti, che ci riportano immediatamente a Groucho Marx, Sandrini è un personaggio da cineteca. Precursore assoluto delle tecniche cinematografiche, instancabile inventore, assolve, al di là di ogni aspettativa, il compito a lui conferito dal Conte Otz: filmare in modo unico un evento unico. D’altra parte, per l’allora Ministro dello Sport di un ipotetico Regno di Patagonia[6], era di capitale importanza dare visibilità e immortalità al suo capolavoro. Sandrini si rivela pure un buon corteggiatore, riuscendo a conquistare pure lui un posto nel cuore dell’affascinante giovane ebrea europea Helena Otz, amata sia dal centravanti tedesco Klaus Kramer, atletico intellettuale prestato al pallone (pare fosse pure una spia nazista…), che da Nahuelfuta, il tenebroso e imbattibile portiere indigeno. Un triangolo amoroso, anzi un quadrangolo, con la discreta ma costante presenza del nostro Sandrini.
Vere e false immagini di repertorio, alcune delle quali con lo stesso logo dell’Istituto Luce, si alternano al (finto) tempo attuale, attraverso un montaggio che inganna e convince lo spettatore. Il lavoro di postproduzione ha reso le artefatte riprese di repertorio simili a quelle originali, complicando non poco l’esercizio ermeneutico che lo spettatore è invitato a fare. Dialogando con Filippo Macelloni, il regista ci ha confidato che nemmeno loro si aspettavano che la storia venisse presa così sul serio, che tanti spettatori potessero credere a ciò che vedevano, che in molti si bevessero questa improbabile vicenda fino a scriverne sui giornali e parlarne pubblicamente dando tutto per vero. Perfino un importante quotidiano sportivo italiano, in preda all’entusiasmo e alla confusione, stava per pubblicare un lungo pezzo in cui si parlava del mondiale in Patagonia del 1942 come se fosse realmente esistito. Per fortuna, o per sfortuna (sarebbe stato divertente…), a qualcuno venne lo scrupolo, in tempo, di verificare. Insomma, il meravigliato spaesamento che si prova mentre scorrono i titoli di coda è quanto mai legittimo e anzi, direi, è la dimostrazione che il film colpisce nel segno. Forse perché a tutti noi, in fondo, piace pensare che quei mondiali siano esistiti davvero. Qualcuno dice li abbia vinti madre natura, anche se le riprese inedite del Sandrini ritrovate nello scavo sembrano rivelare i veri vincitori… Forza Mapuches!
Note
[1] Pubblicato da Einaudi in Fútbol. Storie di calcio, che raccoglie i racconti “calcistici” di Osvaldo Soriano.
[2] Per chi volesse approfondire il rapporto tra calcio e dittature, si consiglia I Mondiali della vergogna di Pablo Llonto, Edizioni Alegre. Il libro ha suscitato un acceso dibattito, nel quale è intervenuto anche l’ex capitano dell’Inter, l’argentino Javier Zanetti. Il volume affronta i discussi mondiali del 1978 in Argentina durante la dittatura militare, facendo emergere un disegno preciso del regime di Videla per utilizzare politicamente i mondiali a proprio favore. Mentre si disputavano le partite negli stadi e il mondo plaudeva, la violenza della repressione mieteva indisturbata le sue vittime. Con i riflettori puntati sui campioni in campo (mancava però Maradona, non convocato), nessuno pareva accorgersi del dramma dei desaparecidos.
[3] Sulle implicazioni non sportive dei mondiali di calcio, ma anche sul volto umano del pallone, segnalo il recente Ladri di sport di Ivan Grozny e Mauro Valeri, Agenzia X. Alcuni capitoli di questo appassionato lavoro sono dedicati agli ultimi mondiali di calcio disputati quest’anno in Brasile. Gli autori mostrano a quale prezzo sono stati organizzati, le conseguenze economiche e sociali di questo grande evento, che (forse) di sportivo ha avuto ben poco, e le resistenze nate nella società brasiliana prima e durante il campionato del mondo di quest’anno. Il libro racconta anche le tante esperienze di Sport Bene Comune che esistono, non solo in Italia.
[4] Osvaldo Bayer fu perseguitato durante la dittatura militare e, costretto all’esilio, visse per molti anni a Berlino, rimettendo piede in Argentina solo dopo la caduta del regime, nel 1983. Bayer collabora oggi con il quotidiano argentino Página 12, fondato dall’amico Osvaldo Soriano. Sì, proprio lui, il primo responsabile di questa favolosa truffa.
[5] Da cui è stato tratto un bel film vincitore dell’Orso d’Argento a Berlino nel 1974.
[6] Per la verità è esistito qualcosa di simile, anzi esiste ancora oggi: Regno di Araucanía e Patagonia.