Migrazioni, fughe, invasioni, alluvioni, vacanze… In un mondo in cui tutti si muovono, il turismo sembra diventare la figura media della mobilità. Alcune riflessioni sui confini della networked hospitality.
L’importanza assunta dal concetto di autenticità all’interno del discorso turistico sembra essere un sintomo delle profonde trasformazioni riguardanti le diverse forme della mobilità contemporanea: dalle fluttuazioni del denaro ai flussi migratori, dalle immagini alle merci.
Nel corso degli ultimi anni l’industria del turismo è sempre più orientata a confezionare esperienze che valorizzano l’autenticità, in contrapposizione all’artificialità del turismo di massa: “genuino”, “lento”, “dolce”, “diffuso”, “green” sono alcune delle attribuzioni utilizzate dal destination marketing per la promozione di pratiche turistiche rivolte a una ri-scoperta del genius loci e a un ri-avvicinamento della vacanza ai ritmi del quotidiano. Dalle piattaforme generaliste di networked hospitality, come Air Bnb e Home-Exchange, a quelle più settoriali, segmentate per orientamento religioso (Jewishswap), tendenze sessuali (Home around the world e Gay home trade), settori professionali (Sabbaticalhomes), dedicato a docenti universitari in cerca di alloggio durante il loro anno sabbatico — costruiscono il proprio brand su una drammaturgia del quotidiano, quello dell’ospitalità è uno dei campi privilegiati per la celebrazione dell’“autentico in viaggio”.
Tutti i rituali di homemaking − come cucinare con gli utensili dell’ospite, prendersi cura delle sue piante e dei suoi animali domestici, parlare con i suoi vicini − che caratterizzano le piattaforme di sharing dedicate alla ricettività, spingono verso un superamento della tradizionale opposizione tra il tempo del quotidiano e quello della vacanza.
Attraverso le testimonianze degli utenti, le piattaforme raccontano di un’esperienza turistica così autentica da imitare l’inedia del quotidiano e propongono un modello di vacanza legato alla permanenza piuttosto che allo spostamento, agli oggetti e alle passioni del domestico piuttosto che agli spazi aperti della città, in una continua reversibilità tra la figura attoriale dell’host e quella del guest.
Nelle immagini postate e condivise dagli swapper, gli utenti dei servizi di networked hospitality, l’avventura del surfing sembra adagiarsi plasticamente sul sofà: in abbigliamento comodo, immortalati nei momenti del risveglio o in quelli della “buona notte”, armeggiando con gli utensili della cucina e in compagnia di cani e gatti. Se si prendono in rassegna le immagini e i testi di presentazione di piattaforme come Home around the world e Gay home trade, l’intimate tourism di cui ha parlato la sociologa polacca Paula Bialski (Becoming intimately mobile, Peter Lang, 2012) trattando dell’imbricazione tra social network, economia collaborativa e esperienze turistiche, sembra tradursi in un turismo dell’intimo.
Descrizioni come «See the world for free and experience that sense of belonging you can only get from staying in a cosy home and walking in another’s footsteps», oppure «Of course, you’ll still want to be a tourist some of the time. But you also have the choice of staying in bed all day eating chocolates, hanging out at a neighborhood coffee shop» dimostrano come le forme dell’esplorazione turistica classicamente intese siano narcotizzate dalla possibilità di indugiare nello spazio intimo della camera e della confidenza.
Se è il dominio tranquillizzante del quotidiano a prevalere su quello imprevisto del viaggio, parallelamente, anche dal punto di vista temporale, una temporalità duratività sembra sostituirsi alla puntualità dell’esperienza della vacanza: due potenziali swappers si conoscono e si scelgono online prefigurando e premediando il loro futuro incontro, attenuandone così la componente di rischio. La possibilità infatti di accedere al letto dei nostri ospiti si paga con la moneta della reputazione. La possibilità della reversibilità dell’host in guest è affidata alla sanzione della rete, secondo un modello reputazionale che passa dalle piattaforme di ospitalità ai profili Facebook, Twitter, Linkedin degli stessi utenti.
Se la mobilità del viaggio turistico sembra autoconfinarsi in quel «supermercato di amici e conoscenti» descritto da John Urry (J. Urry, Mobilities, Polity, 2007) a proposito della società iperconnessa, è opportuno rilevare come, d’altra parte, le pratiche del turismo sconfinino nel quotidiano, sfumando i confini tra le diverse forme di mobilità di persone e cose. È così che, quando il quotidiano è stravolto dalla contingenza catastrofica, la mobilità del turismo incontra quella dell’emergenza.
Solo qualche giorno fa, mentre imperversava l’alluvione su Genova, la homepage internazionale di Airbnb lanciava questo comunicato: «Alloggi Urgenti in Liguria. Costi del servizio cancellati per le persone colpite dalla catastrofe». Attraverso questo messaggio si avvisava che tutti i servizi messi a disposizione dalla community dall’11 al 18 ottobre 2014 e destinati agli sfollati dell’alluvione erano esenti da commissioni. Già nel 2012, in occasione dell’Uragano Sandy che devastò la costa est degli Stati Uniti, 1400 host di New York registrati su Airbnb aprirono le porte della propria casa alle vittime. Questa ondata spontanea di generosità convinse la piattaforma a lanciare nel 2013 il programma Disaster Response: quando si verifica una catastrofe, Airbnb invia automaticamente un’email agli host della zona colpita chiedendo loro se possono ospitare gli sfollati, senza applicare la tariffa corrispondente.
Di fronte agli incendi, alle inondazioni e alle tempeste di ghiaccio che si sono verificate in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Serbia, dalla Grecia alle Filippine, Airbnb ha collaborato con le autorità e le organizzazioni locali per prestare aiuto di fronte all’emergenza. L’iconografia dell’autenticità che caratterizza Airbnb, come altri servizi di networked hospitality, trova quindi un paradossale rilancio nell’autenticità del pathos emergenziale. La contingenza catastrofica rafforza il brand di Airbnb, che si propone come operatore umanitario che, facendo leva sul “buon cuore” della sua comunità, trasforma l’autenticità da un esperienza in movimento a un moto dell’animo. Attraverso la distribuzione di materiale informativo per la preparazione dei possibili “angeli del focolare”, lo sviluppo di tecnologie mobile e di apposite app per tenere informati gli ospiti in caso di pericolo e la possibilità di organizzare dei corsi per preparare la community a rispondere a situazioni simili, il marchio Airbnb rafforza il suo impatto oltre il settore turistico.
D’altro canto, è possibile notare come un progetto di questo tipo carichi di un valore etico e sociale un dispositivo elaborato con finalità commerciali. Airbnb non è più, in questo caso, destinato ai turisti, ma è un servizio che sembra riconsegnare alla cittadinanza i valori della solidarietà e il diritto all’assistenza, sempre più spesso appaltati a Ong e a enti che traggono profitto dallo “stato di eccezione”, correlato alla catastrofe. A margine di tale riflessione occorre tuttavia notare i rischi derivanti dal fatto che una piattaforma del valore economico e finanziario di Airbnb gestisca un servizio di prevenzione e contenimento dell’emergenza ambientale, assegnando alla networked hospitality una funzione di welfare suppletivo e palliativo, in ogni caso postumo rispetto alla catastrofe.
Cercando di non perdere di vista la vocazione originaria di una piattaforma come Airbnb e tornando a guardare le immagini attraverso le quali si pubblicizza il servizio Disaster Response, è facile cogliere il rischio di una turisticizzazione del disastro come esperienza ultima dell’autentico. Il racconto dell’ospite, accolto con una coperta e un piatto caldo, rischia di trasformare la catastrofe in un’occasione di storytelling anestetizzante, che tende a distogliere l’attenzione delle comunità tanto dai problemi ambientali e contestuali, come delle molte responsabilità politiche sottese a essi.
All’interno delle pratiche di consumo collaborativo, il campo della ricettività turistica e i servizi di networked hospitality definiscono un sistema di relazioni deterritorializzanti che creano aree di sconfinamento. Diaspore, migrazioni, fughe, invasioni, alluvioni, vacanza: tutti si muovono e il turismo sembra diventare la figura media della mobilità che da un lato può fornire strumenti di lettura utili per comprendere fenomeni più complessi e carichi di implicazioni sociali e politiche, ma può anche aprire il campo a strumentalizzazioni e semplificazioni di tali fenomeni.
Anche per questo, di quello spazio di “in-betweeness” (C. Rojek, J. Urry, Touring Cultures: Transformations of Travel and Theory, Routledge, 1997) abitato indistintamente dalle comunità in movimento, occorre cercare di mettere a fuoco i confini e le dissolvenze.
[Questo articolo è una versione ridotta dell’intervento tenuto all’interno delle sessione “Natura dell’autentico” del convegno dell’Associazione italiana di Studi Semiotici “Tra natura e storia. Naturalismi e costruzioni del reale”, svoltosi a Teramo nei giorni 24-26 ottobre 2014]