Cosa succede quando un autodidatta decide di fare un film, a trent’anni compiuti?
Ossia quando il cinema è vissuto come un secondo lavoro? In occasione del nostro approfondimento sulla nuova Legge Cinema abbiamo chiesto ad Eric Gobetti, storico freelance, di raccontarci come sono nati Partizani – La Resistenza italiana in Montenegro e Sarajevo Rewind 2014>1914.
Nonostante tutto.
Cinema e Storia
Ho faticato ad accettare la proposta di scrivere questo pezzo sulla mia attività da regista. Non mi sentivo all’altezza; più che altro non mi sentivo un regista. Ripensandoci però penso che sia interessante capire come uno come me abbia imparato a confrontarsi col mezzo audiovisivo, con tutte le conseguenze del caso. Uno come me. Uno storico. Anzi peggio: uno storico freelance. In pratica uno che vive scrivendo libri, tenendo conferenze, accompagnando viaggi di studio. E infine anche facendo film. Ho avuto la fortuna di crescere nella città, Torino, dove ha sede il Museo Nazionale del Cinema. Quando ero ragazzo il cinema Massimo offriva un panorama di proposte cinematografiche che definire d’essai sarebbe estremamente riduttivo. Le retrospettive sul cinemacambogiano erano la regola, non l’eccezione. In quei fantastici programmi mensili che accumulavo sul comodino nella mia casa da studente Godard era quanto di più mainstream si potesse trovare. Mentre mio fratello si laureava in storia del cinema con una tesi sulle “dinamiche della femminilità nel ciclo di Alien”, io diventavo amico del suo compagno di studi Daniele Gaglianone, regista che riesce a conciliare il coraggio delle tematiche affrontate e una forma espressiva quasi perfetta.
Insomma, anche se sognavo fin da bambino di fare lo storico (e consideravo gli anni che mi separavano dall’università come una colossale perdita di tempo), adoravo il cinema. Eppure non ho mai veramente pensato di fare il regista. Mi ci sono trovato da grande, ben oltre i trent’anni. E mi ci sono trovato casualmente, grazie ai miei studi, alla passione per i Balcani, alle mie esperienze di viaggio.
Dopo alcuni video semi-amatoriali e una breve collaborazione con RaiStoria, tra il 2015 e il 2016 ho terminato due documentari ai quali ho lavorato in contemporanea fin dal 2013. Si tratta di film molto diversi, per pratica produttiva, esperienza lavorativa, prodotto finale. Eppure qualcosa li unisce: pur non essendo un regista di professione, ho la sensazione di aver intrapreso queste due avventure pensando di fare storia attraverso lo strumento cinematografico, ma finendo per fare cinema attraverso la storia.
In Partizani. La Resistenza italiana in Montenegro, che racconta la vicenda di una vera propria divisione partigiana italiana che si costituisce in Jugoslavia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ho scelto la forma del documentario classico, fatto essenzialmente di interviste e immagini di repertorio. Ho però utilizzato le riprese dell’epoca non come coperture ma come materiale a se stante, lasciando che raccontassero da sole un mondo, un’esperienza, accostandole e non sovrapponendole ai ricordi dei reduci. Questi ultimi poi non descrivono la loro storia in maniera lineare ma affastellano memorie di piccoli episodi, sprazzi di vita che sommati insieme vanno a formare un mosaico forse sfuocato ma certamente affascinante. Le musiche di Massimo Zamboni esaltano le immagini di repertorio già di per sé straordinarie e ti inchiodano per un’ora a quel mondo terribile di guerra, fame e sofferenza. La mia presenza in scena infine non è fine a sé stessa. Non appaio come un intervistatore esibizionista, ma mostro il mio reale coinvolgimento nella vicenda, come se potessi in qualche modo farla mia, riviverla sulla mia pelle settant’anni dopo.
Sarajevo Rewind 2014>1914 nasce dall’idea di ripercorrere, nei giorni del centenario, le strade che hanno portato la vittima e l’attentatore a Sarajevo, rispettivamente da Vienna e da Belgrado. In questo caso con Simone Malavolti – che come me è uno storico – abbiamo lavorato in maniera del tutto diversa, pensando a un film rapido, divertente, leggero, nonostante la tematica estremamente complessa. In pratica si tratta di un road movie storico, un caleidoscopio di informazioni e interpretazioni, fatto di brevi interviste, spezzoni di film, musiche, letture, paesaggi. Un carnevale nel quale è facile perdersi e confondersi, dove la nostra presenza in scena serve proprio allo scopo di accompagnare il pubblico, renderlo partecipe, permettergli di individuare un percorso di comprensione.
Insomma, ho fatto due film, due veri film, non montaggi di interviste da mostrare agli studenti durante un corso d’aggiornamento. Ma perché l’ho fatto? E soprattutto: come?
Regista per caso
Entrambi i documentari hanno avuto percorsi produttivi e distributivi legati in varia misura agli istituti di ricerca storica o ad altri enti dipendenti in parte da finanziamenti pubblici. Partizani è il risultato matematico di una sottrazione e di un’addizione. Alla mia ricerca (originariamente pensata per un libro che sto ancora scrivendo) mancavano i materiali più importanti: i documenti della divisione Garibaldi in Montenegro, che sono finiti nell’archivio privato di casa Savoia in Svizzera e non sono consultabili. Nel contempo però mi sono imbattuto quasi casualmente in una serie di pellicole straordinarie, riprese realizzate in Montenegro tra il 1942 e il 1944 dagli stessi soldati: una sorta di combat-film italiani, non materiale di propaganda prodotto dall’Istituto Luce. Non potevo portare avanti fino in fondo la ricerca storiografica, mi sono detto, ma avrei potuto fare un film!
Partizani è nato grazie all’interessamento degli Istituti storici della Resistenza di Firenze e di Torino, coi quali da anni collaboro. Nel 2013 sono state finanziate una serie di interviste agli ultimi reduci (piemontesi e toscani) della divisione partigiana italiana Garibaldi in Montenegro. Inizialmente dunque si trattava solo di raccogliere le interviste, in maniera semi-professionale. In una seconda fase (era passato circa un anno) il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio Regionale del Piemonte ha deciso di finanziare la realizzazione di un vero film, sempre attraverso la mediazione dell’Istoreto di Torino, che figura come produttore. A parte qualche raro cinema che ha creduto di darmi quest’opportunità – sempre con successo, va detto –, il film è stato visto prevalentemente in sale comunali, biblioteche, istituti di ricerca.
Sarajevo Rewind doveva essere un viaggio, dal quale poteva nascere qualunque cosa. È diventato un film in corso d’opera, quando le altre strade si sono rivelate meno allettanti o non praticabili. Tutto merito di Simone Malavolti, il mio compagno d’avventura, che ha spinto per questa soluzione e ha creato l’occasione perché si realizzasse. Dopo alcuni mesi di tentativi disperati per trovare una produzione, in occasione di un anniversario – quello dell’attentato di Sarajevo – che a noi sembrava culturalmente rilevante, non abbiamo avuto altra scelta che autoprodurre e autofinanziare il film. Partiti con due camper e due troupe di fortuna, con pochi soldi da investire e senza una prospettiva di guadagno né per i nostri amici né tantomeno per noi, siamo pure stati derubati di una parte del materiale girato, proprio durante le celebrazioni del centenario, a Sarajevo. Rientrati in Italia, abbiamo dato vita a un crowdfunding per ripagare in parte le spese sostenute, i nostri operatori e la strumentazione rubata (un computer, due camere, un cavalletto…). La campagna di finanziamento dal basso ha avuto un successo insperato (abbiamo superato il nostro obiettivo) e l’aiuto del Museo fratelli Cervi ci ha consentito di portare a termine il lavoro.
A fronte della colossale difficoltà nel fare documentari con amici ma senza soldi, gli enti che sarebbero preposti a incentivare la cultura del cinema nel nostro paese sono invece risultati del tutto inutili. Partendo dall’alto: quello dei beni culturali si è rivelato un mistero più che un ministero. Come funziona la macchina dei finanziamenti ai piccoli film? La mia sensazione è che la nuova normativa sia rivolta a produzioni medio-grandi, con una significativa disponibilità economica, e non possa davvero sostenere film del tutto indipendenti come quelli da me realizzati. Inoltre temo la burocrazia, che in Italia si rivela sempre uno scoglio difficile da superare. E come funziona e a cosa serve l’attribuzione della qualifica di “film d’essai”, che pure Partizani ha ottenuto, dietro una semplice richiesta e insieme a decine di altri film di tutti i tipi? Sinceramente non ho capito molto.
In secondo luogo la Piemonte Film Commission, che dovrebbe essere l’ente locale preposto ad aiutare economicamente prodotti filmici validi ma senza mezzi, è stata con me molto chiara, mostrando una logica, per certi versi ineccepibile: co-finanzia film che risultano già ben finanziati e che quindi mostrano di avere un potenziale di successo assicurato.
Infine il mondo dei festival, cui inizialmente mi sono orientato per entrambi i film, si è rivelato una grossa delusione. A parte alcune rassegne minori, come il San Giò di Verona che ha coraggiosamente scelto di premiare Partizani come migliore opera prima, gli altri festival italiani e stranieri cui ho inviato i film non hanno ritenuto di proiettarli (senza nemmeno dare una risposta, nella maggior parte dei casi). È forse presto per dirlo, ma mi sono fatto l’idea che sia difficile avere questa opportunità se si è fuori da un certo giro di conoscenze o non si posseggono i livelli di qualità che necessitano di fondi cui non ho potuto accedere. Inoltre la concorrenza è enorme e spietata.
Lavorare con lentezza
Dice spesso mia madre: «Chi non ha testa, ha gambe». Tradotto nel mondo del precariato intellettuale si può tradurre con l’espressione: «Chi non ha soldi, ha tempo». Ovvero, parafrasando la morale del proverbio: se non hai soldi da investire in un progetto, dovrai investirci tanto, ma tanto tempo! Sono ore e ore di lavoro, ovviamente mai ripagate, che ho impiegato per portare avanti i miei progetti di film. Non solo io, ovviamente, e non solo Simone, ma anche tutti i miei collaboratori, che hanno lavorato per pochi o nulli soldi, impiegando quindi comprensibilmente i ritagli di tempo, le serate libere, le pause pranzo. Sempre (o quasi sempre) con estrema professionalità, nonostante lo scarso guadagno.
Il caso esemplare può essere il più noto professionista con cui ho avuto la fortuna di collaborare, Massimo Zamboni, chitarrista e co-fondatore dei CCCP e CSI. Mi scuserà se rendo pubblica una nostra conversazione privata, ma dopo aver ricevuto l’offerta economica per la sua colonna sonora, Massimo ha risposto con una battuta: «Quindi non hai previsto un budget per la musica». Ciononostante Zamboni ha lavorato per pochi soldi (che erano il 10% del mio budget complessivo) con estrema serietà, scrivendo e riscrivendo, interpretando e reinterpretando i pezzi che mi inviava, accogliendo le mie indicazioni, ma proponendo anche uno stile diverso da quello che avevo in mente all’origine, e che si è rivelato molto più adatto allo scopo.
Non solo Zamboni, ma anche montatori, operatori, fonici, grafici hanno dato un contributo significativo grazie alle loro idee e alla loro professionalità: è stata una bella sfida affidarsi alla loro esperienza, senza mai perdere di vista lo scopo del lavoro, la coerenza storica, il mio sguardo. Quasi tutti i miei collaboratori hanno lavorato con serietà, ma anche spesso con comprensibile lentezza. Ho dunque sperimentato la virtù della pazienza, dovendo attendere per ogni singolo passaggio lavorativo la disponibilità di tempo di professionisti esperti ma sottopagati.
La scarsezza dei mezzi ha anche influito su altri due problemi. Può sembrare una scusa a posteriori ma è fuori dubbi che se non fossimo stati costretti a muoverci in camper, dormendo in mezzo alle attrezzature e realizzando i backup precariamente durante gli spostamenti, avremmo avuto meno occasione di essere derubati e perdere una parte significativa del nostro lavoro. Lo stesso può dirsi dei numerosi problemi tecnici che abbiamo avuto. Non si tratta solo di un livello di qualità genericamente basso: girare con tre, quattro, anche cinque videocamere differenti, passare da un montatore all’altro, utilizzando software diversi, applicando stili e metodologie differenti… tutto ciò ha avuto l’effetto di produrre contrattempi e problematiche di cui si è persa l’origine e ai quali risulta poi sempre più difficile porre rimedio.
Diritti (e rovesci)
In tutto ciò, sono ovviamente stato costretto a passare attraverso il girone infernale della Siae, un’altra delle forche caudine delle produzioni filmiche. Al di là dell’assurda burocrazia e dell’obbligo di pagare un ente privato di cui non faccio parte, la cosa più incredibile della Siae è la totale arbitrarietà delle informazioni che si ricevono. Sulle pratiche necessarie, sul costo dei bollini, sull’utilizzo delle musiche, sulle proiezioni pubbliche ho ricevuto ogni volta risposte differenti, senza capire in definitiva come comportarmi.
Anche sulla questione dell’utilizzo dei materiali audio e video di repertorio sembra esserci totale arbitrio. Io ho avuto l’autorizzazione di utilizzo di tutte le musiche inserite nei due film, così come delle pellicole originali trovate a casa di un reduce. Tuttavia che fare dei dvd con altri filmati i cui originali risultano scomparsi? E come utilizzare gli spezzoni di vecchi film jugoslavi o di telegiornali balcanici facilmente scaricabili da Youtube? Io sinceramente ho ritenuto legittimo l’utilizzo a fini culturali di poche immagini, a fronte della quasi impossibile identificazione dei legittimi proprietari dei diritti. E tuttavia, come spesso succede in Italia, si vive anche questa scelta con ulteriore fatica e timore, non avendo alcuna certezza della legge e della pena prevista.
La mia esperienza da regista è relativamente limitata nel tempo e tuttavia credo di aver imparato qualcosa: fare documentari è l’impegno più anti-economico che abbia mai sostenuto. Scrivere un libro di storia non è esattamente un modo per fare soldi. Però lo posso fare con le mie sole forze, col tempo necessario, ma senza bisogno di finanziamenti particolari né di una tecnologia costosa. Un film richiede altrettanto tempo, strumenti tecnologici più sofisticati, l’apporto di professionisti che andrebbero pagati… di fatto un impiego di tempo e risorse molto maggiore. In definitiva il prodotto che hai in mano ha un valore economico equivalente a un libro, ma è più difficilmente vendibile e più facilmente copiabile.
La sensazione che mi resta è di grande impotenza: per fare un docu-film di un certo livello, che possa avere una diffusione ai festival o nei cinema o addirittura su qualche canale televisivo minore, è necessario un investimento economico a cui è difficilissimo accedere. In sostanza, come spesso accade, per fare qualcosa di valido, devi avere i soldi e gli agganci giusti; che ti consentono di ottenere altri soldi e altri agganci. Ma se in partenza non li hai? Non rimane che realizzare prodotti amatoriali per il solo gusto di farlo e senza alcuna prospettiva di guadagno. Ma questo non è un lavoro…
In queste settimane Partizani viene proiettato in diversi comuni piemontesi e a Belgrado.
Ecco l’elenco delle prossime date:
21 aprile BELGRADO
24 aprile OMEGNA e BAVENO (VCO)
26 aprile ALESSANDRIA e IVREA (TO)
27 aprile BORGOSESIA (VC)
28 aprile TRINO VERCELLESE (VC)
29 aprile BOBBIO PELLICE (TO)
2 maggio CUNEO (CN)
4 maggio TORINO
6 maggio ASTI
9 maggio CANDELO (BI)