Pandemia e agricoltura a Cassibile fra nuove e vecchie vulnerabilità

Intervista a Padre Carlo d’Antoni

Foto di Maria Grazia Patania

L’ultima volta che avevo parlato con Padre Carlo d’Antoni era l’estate del 2019. All’epoca avevano sgomberato in pompa magna quanto rimaneva della baraccopoli che da marzo a giugno aveva ospitato ben oltre 300 braccianti agricoli nel comune di Cassibile, nel siracusano. Paradossalmente, la stagione della raccolta delle patate che impegna manodopera extracomunitaria per aggirare qualsiasi decenza umana era ormai terminata. Era rimasto solo chi non aveva una nuova destinazione per farsi sfruttare e non sapeva a chi rivolgersi. Un ragazzo – intervistato da una giornalista – alla domanda su dove sarebbe andato a dormire quella notte allungò il braccio destro e con l’indice indicò un punto lontano all’orizzonte: “Andrò lì. Con i cinghiali”. In sottofondo, le ruspe demolivano l’ammasso di scarti che gli avevano fatto da casa e le forze dell’ordine senza alcun imbarazzo celebravano il ritorno del decoro e della legalità a favore di telecamera.

A inizio febbraio 2021, arrivata nella parrocchia di Bosco Minniti a Siracusa, dove Padre Carlo d’Antoni opera, l’autospurgo risolve gratuitamente il fastidioso problema di vivere in una struttura pensata per poche persone che si trova ad accoglierne stabilmente almeno 25. Alcuni ragazzi selezionano plastica e cartoni da dividere nella differenziata e dopo una buona mezz’ora passata a scaricare le macchine piene di cibo, coperte e altri beni di prima necessità ci avviamo verso lo studio di Padre Carlo passando per il curatissimo giardino sul retro. “Queste sono foto di persone che sono state con noi. Voi non ci crederete ma di qui saranno passate almeno trentamila persone nel corso degli anni”, racconta orgoglioso mentre arriviamo davanti la porta del suo studio. “Un anno, la notte del 25 dicembre ci furono ben due nascite: due femmine” e nel frattempo indica una foto che ritrae due bambine minuscole avvolte in lenzuola bianche. Quella nera ha una montagna di riccioli e due occhi spalancati e sveglissimi, l’altra le dorme accanto pacifica. “Siamo arrivati ad ospitare fino a cento persone dentro la chiesa, praticamente c’era gente ovunque”, confida sorridendo.

Foto di Maria Grazia Patania

Dentro e fuori lo studio c’è un viavai continuo: sono tutte persone avanti con gli anni che costituiscono lo zoccolo duro della rete di sostegno che ruota intorno a Padre Carlo da lungo tempo. Una signora e un ragazzo con penne e quaderno escono in giardino, altri prendono documenti nello studio e approfittano per fare una battuta e scambiarsi saluti. Con l’immancabile posacenere stracolmo di mozziconi e il pacchetto di MS rosse, iniziamo a fare il punto della situazione. Prima però ci mostra le foto di Silvio, due anni e mezzo, che in quel momento è all’asilo ma vive in parrocchia con la madre e “ha un migliore amico che si chiama Giuliano. Ogni volta che si devono separare le urla le sentono dalla strada”.

Cosa è cambiato dalla prima volta in cui ci siamo incontrati, nel giugno 2018, e dallo sgombero dell’estate 2019? In che modo la pandemia e il lockdown hanno influito sulla vita dei braccianti?

Niente. Non è cambiato proprio niente. Le persone hanno continuato a spostarsi per lavoro secondo il ritmo delle raccolte e ad essere sfruttati come d’abitudine. Negli ultimi 30 anni le cose sono rimaste identiche: ogni anno da gennaio a febbraio si parla di emergenza, si fa finta di occuparsi della questione, ma puntualmente quando inizia la raccolta e le campagne scoppiano, non è stato ancora fatto nulla di concreto e i ragazzi sono costretti a vivere in condizioni indecenti. Durante il cosiddetto lockdown erano ulteriormente presi di mira da parte di oscuri personaggi che aizzavano i cassibilesi con la scusa della tutela della salute e dell’emergenza sanitaria. Eppure, nessuno si è mai posto il problema di chi garantisse la salute di queste persone, il loro posto di lavoro e tutto il resto. Ipocrisia, ipocrisia da farabutti.

Campo, particolare. Foto di Maria Grazia Patania

Fra luglio 2019 e marzo 2020 cosa è successo ai braccianti agricoli?

Nulla di diverso dal solito. A luglio, finita da un mesetto la raccolta delle patate, erano andati via quasi tutti ormai. Lo schema si ripete: Campobello di Mazzara per le olive, Cassibile per le patate e le fragole, Puglia per il pomodoro. Il nocciolo del problema è che la questione agricola e gli aspetti lavorativi ad essa correlati vengono gestiti come un fatto privato fra caporali e braccianti, mentre l’aspetto politico-sociale è trattato come se fosse un’emergenza – paradossalmente ormai diventata perenne. Così non si trovano mai soluzioni concrete e sostenibili, e si continua ad agitare spettri che alimentano le paure. Ma ci servono, queste persone ci servono eccome ed è per questo che nessuno fa niente per mandarle via davvero. Dove lo trovano un italiano che va a lavorare la terra in quelle condizioni per 50€ al giorno senza diritti e pagando pure per farsi portare al lavoro? Lo Stato è assente su tutti i fronti, indifferente a quello che succede.

Cosa ha significato per la parrocchia la pandemia? Quanta gente è arrivata, quanti siete? Stiamo scoprendo una nuova dimensione della povertà?

Per ora (inizio febbraio 2021) siamo 25 e nelle condizioni attuali non credo di poter fare di più qui da me anche perché costano, crescono e hanno fame. Il mio stipendio serve praticamente a coprire le bollette e alcune necessità, il resto viene coperto dalle donazioni senza cui non potremmo andare avanti. Il fatto è che questi hanno il vizio di bere come cammelli e mangiare come elefanti, poco fa sono andato a riempire le taniche di acqua potabile perché hanno sempre sete. La pandemia ha inasprito le problematiche sociali e sta emergendo una nuova povertà. Le cosiddette vulnerabilità ormai sono diventate casi disperati, mentre moltissimi che avevano una vita normale adesso stanno perdendo tutto. C’è una nuova e preoccupante povertà che dilaga fra giovani adulti di età compresa fra i 30 e i 45 anni. Questa povertà non risparmia nessuno, non ha colore della pelle o nazionalità. Colpisce tutti indistintamente. Inoltre, anche il volontariato ha subito una grossa batosta: mancano i giovani. Sono praticamente assenti e io posso contare solo sugli anziani. Gente grande, poca ma salda nel suo impegno ad aiutare. Questo indica un malessere diffuso che serpeggia nella nostra società.

Cosa vuol dire la pandemia per chi vive in una baracca? C’è mai stato un vero lockdown nelle campagne o la vita degli invisibili è rimasta identica per consentire alla grande distribuzione di non fermarsi mai?

Vivere la pandemia in una baracca significa moltiplicare al massimo l’attenzione per non ammalarsi e usare le poche risorse che si hanno. Quando vado a trovarli indossano sempre la mascherina, fanno del loro meglio col poco a disposizione. Nelle campagne non è esistito il lockdown, le baracche scoppiavano come sempre e sono sicuro che entro un mese sarà di nuovo così. Ma ormai ne riparleremo fra un anno, perché altrimenti non potremmo comprare ai prezzi bassi a cui siamo abituati e crollerebbe tutto. Siamo stati fortunati finora perché né qui in parrocchia né fra i braccianti che abbiamo ospitato si sono rilevati contagi. Sarebbe stato un disastro. Anche se francamente non è il virus a preoccuparmi, bensì la costante erosione dei diritti umani.

Come si arriva da Padre Carlo? Come funziona?

Ormai sono diventato famoso fra i poveri disgraziati che sanno di poter mandare qui chi ha bisogno e le persone arrivano in qualunque momento, a qualsiasi ora. Semplicemente si presentano qui e dicono di avere bisogno, in faccia hanno stampata la fiducia di chi sa che riceverà aiuto. Quasi se lo aspettano dopo tutto quello che hanno passato. Finora ho dovuto dire solo due no, ma ho paura che dovrò dirne altri perché siamo già ben oltre il limite.

Foto di Maria Grazia Patania

Cosa è successo da marzo a inizio luglio 2021?

Concretamente ben poco. In termini di propaganda politica, invece, moltissimo. Hanno sponsorizzato la tardiva realizzazione di un campo ufficiale che ospitasse i braccianti in condizioni dignitose e hanno tentato un ennesimo, grossolano rattoppo. Una struttura in grado di ospitare circa ottanta persone a fronte delle 300-400 che normalmente lavorano stagionalmente è insufficiente. E le altre? Dove sono le altre? Già a febbraio, qui da me in parrocchia, erano arrivati alla spicciolata i primi ragazzi cui avevamo portato cibo e coperte. Con uno sgombero le persone sono state fatte disperdere, privandole anche dei pochi beni che avevamo loro donato e che sono finiti nella spazzatura. Hanno murato porte e finestre del casolare dove trovavano riparo e così molti sono andati via o non sono nemmeno venuti a lavorare viste le premesse. Altri lavoratori si sono letteralmente nascosti come fuggiaschi per tutta la stagione. Nel periodo di aprile, la parrocchia è arrivata a ospitare fino a 80-100 persone. Ora siamo tornati ai soliti numeri e confidiamo nei buoni risultati ottenuti grazie alla collaborazione con NO CAP che ha coinvolto circa trenta ragazzi assunti con regolari contratti e sottratti al trasporto obbligatorio e all’obolo imposto dai caporali.

La questione fondamentale che emerge parlando con Padre Carlo e con chiunque si occupi dei braccianti o dei migranti in generale è che nessun provvedimento viene mai preso nell’interesse superiore di queste persone. Nulla viene veramente fatto a loro beneficio e con l’intento di farle emancipare dal giogo cui le costringiamo. Devono sempre rimanere più o meno sottomesse e grate per le concessioni che elargiamo, sempre vincolate alla nostra ipocrita benevolenza. Inoltre, saremmo già alla guerra civile se non ci fossero le pezze messe sulle voragini lasciate dalla politica e dalla Pubblica Amministrazione. Senza le donazioni e l’impegno della società civile ci sarebbero le barricate fra gli sfruttati di un sistema perverso che si alimenta solo privando fette crescenti di popolazione dei propri diritti. Tuttavia, il volontariato – per quanto linfa vitale di una comunità umana sana – è pur sempre volontariato e presenta limiti invalicabili. Non si può infatti demandare al singolo cittadino la responsabilità di curare le fratture causate da politiche scellerate e scelte economiche criminali come quelle della grande distribuzione organizzata. Servirebbe una reale volontà politica che manca e continuerà a mancare ancora per molto tempo.

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