Cesena. Il Terzo Reich, di Romeo Castellucci. La mattina dopo, la Biblioteca Malatestiana.
Al momento di entrare al Teatro Comandini di Cesena – quartier generale della Socìetas Raffaello Sanzio sin dai primi anni Novanta – la gentilissima signora all’ingresso ci augura «buon spettac…ehm…buona installazione». Un innocuo lapsus che contiene in sé tutta la liminarità de Il Terzo Reich.
Lo spettacolo-installazione inizia con un breve momento in cui la coreografa e performer Gloria Dorliguzzo compie un breve ma intenso rituale d’innesco. Oggetti di scena: una candela, un paio di orecchini e una colonna vertebrale, che l’attrice spezza con un gesto che ricorda quello, con un ramo, del pretendente deluso dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, dipinto per la chiesa di San Francesco a Città di Castello, da dove lo portarono via i soldati di Napoleone (ora è alla Pinacoteca di Brera).
E parte improvvisa la proiezione: uno dopo l’altro, tutti i sostantivi del dizionario italiano. Prima lenti, poi sempre più veloci, fino a una velocità supersonica. Font bianco e lineare su sfondo bianco, nessun fronzolo grafico. Tutti i sostantivi.
Le parole vengono sparate una dopo l’altra, in ordine sparso, spinte dalla fortissima pulsazione del fedele e sempre entusiasmante Scott Gibbons, il musicista e sonorizzatore che accompagna da praticamente sempre i lavori di Castellucci.
La velocità è vorticosa. Si ha giusto il tempo di cogliere le parole, che scorrono velocissime e che, leggiamo nella presentazione dell’opera, «rappresentano potenzialmente tutti gli oggetti della realtà dotati di un nome». Conta la quantità e la velocità, e non il “cosa” di quelle parole, che rimangono sulla retina, impresse sulla corteccia visiva, per un ventesimo di secondo.
I sostantivi continuano a succedersi a ritmo epilettico nella sala buia e vibrante dai colpi profondi e frenetici della musica di Gibbons, che in certi momenti pare dilatarsi sottilmente insieme alla dilatazione delle parole, la cui lunghezza aumenta e diminuisce insieme alle frequenze della musica.
Da una parte, la sequenza frenetica pare non lasciare allo spettatore la possibilità di scelta, di valutazione né di benché minima riflessione su quelle parole. Dall’altra, però, una delle sorprese è che, in quei colpi di mitragliatrice di sostantivi, paiono rimanere intrappolate nella percezione dello spettatore soprattutto le parole più direttamente legate alla sua esperienza, ai suoi pensieri del momento, alle sue preoccupazioni, a qualcosa di profondo che pare far da rete a strascico in cui rimangono impigliati i sostantivi di cui la sua interiorità pare aver bisogno per dirsi, forse per sfogarsi.
Ma Il Terzo Reich non è un esperimento cognitivo-neuronale, né un’esperienza scientifico-ludica offerta allo spettatore. È una riflessione incarnata – incarnata nelle vibrazioni delle pareti della sala e delle ossa degli spettatori, nel vortice sensoriale di quelle parole – sulla militarizzazione del linguaggio. Scrive Romeo Castellucci nel programma di sala: «Ogni pausa è abolita, occupata. La pausa, cioè l’assenza delle parole, diventa il campo di battaglia per l’aggressione militare delle parole, e i nomi del vocabolario, così proiettati, sono le bandiere piantate in una terra di conquista».
Ecco, a prima vista quell’affermazione sulla militarizzazione del linguaggio appare come un’iperbole legata al comprensibile bisogno di raccontare qual è l’intento profondo dell’installazione. Eppure, è la mattina dopo che quella dimensione militare del linguaggio acquista tutta la sua rilevanza, in maniera inaspettata e ben al di là di un semplice registro metaforico.
La notte dopo lo spettacolo-installazione, accompagnate dal leggero sibilo dei timpani, a cui si è chiesto qualche sforzo supplementare, le parole tornano piano piano al loro posto, come fossero le pecore dei greggi approvvigionati da Novello Malatesta per produrre le pergamene necessarie per i tanti manoscritti commissionati per la sua Biblioteca Malatestiana. Che è proprio dove, visitata l’indomani dell’esperienza de Il Terzo Reich, quella dimensione militare delle parole emerge come qualcosa di tutt’altro che metaforico.
Si cammina giusto tre o quattro minuti per andare dal Teatro Comandini della Socíetas Raffaello Sanzio fino all’ingresso della Biblioteca Malatestiana, nel centro di Cesena.
Secondo alcuni, è possibile considerare la Biblioteca Malatestiana, inaugurata nel 1454 nel convento dei Frati francescani, come la prima biblioteca civica d’Italia. La collezione di manoscritti e altri volumi preziosi è impressionante: 356 codici, oltre 300 incunaboli, e così via. Sopra la porta della sala principale – la Sala Nuti, dal nome del suo architetto: Matteo Nuti, di Fano – scolpito nella pietra c’è l’elefante, lo stemma dei Malatesta, e il loro motto: Elephas indus culices non timet, “L’elefante indiano non teme le zanzare”. L’elefante indiano sarebbero i Malatesta, le zanzare i loro nemici: nella biblioteca, dunque, si entra passando sotto un motto di carattere bellico.
La guida infila le due grandi chiavi di ferro nelle due serrature, e la porta si apre lentamente sul silenzio della biblioteca. Lì dentro, la luce sembra quella dei minuti precedenti l’alba.
L’ambiente vede due file di panche in legno – i “plutei” – e un corridoio in mezzo, come fosse una chiesa. In fondo, una finestra tonda, una sorta di piccolo rosone lascia entrare un disco di luce che si poggia dalle parti del punto dove sono sepolte quelle che si pensava fossero le ossa del fondatore della Biblioteca, Novello Malatesta. Ma un’analisi più approfondita ha indicato che si tratta con tutta probabilità dei resti di qualcun altro. In ogni caso, fra quelle ossa ci dev’essere anche una spina dorsale uguale a quella schiantata dalla performance all’inizio de Il Terzo Reich.
Dicono che la Malatestiana sia la sola biblioteca umanistica rinascimentale rimasta intatta fino ai giorni nostri. Non sono in grado né di confermare né di smentire questa affermazione, ma sono nella posizione di testimoniare che, lì dentro, la militarizzazione del linguaggio suggerita dall’opera di Romeo Castellucci diventa qualcosa di molto concreto. Lo diventa per esempio quando ci accorgiamo che, lungo tutti i plutei ci sono manoscritti e libri vari legati a quei banchi di legno con delle catene di ferro. Quei libri antichi appaiono prigionieri di guerra, schiavi incatenati, sudditi costretti a remare per spingere le navi militari della flotta militare. Quelle parole sono incatenate.
Ed è proprio seguendo gli anelli di quelle catene si arriva a un altro elemento centrale. La genealogia militare di quella biblioteca. O forse la genealogia militare di tutto il linguaggio, di tutte le parole.
Novello Malatesta (1418-1465) era un agguerrito condottiero. In battaglia si fratturò tutte e due le gambe cadendo da cavallo. Rimase claudicante per tutta la vita. Ed ebbe seri problemi di varici e gotta. Il salasso – e il chirurgo greco – che doveva curarlo per poco non lo uccise. Di lui Enea Silvio Piccolomini scrisse: «È stato costretto dalla necessità a essere un po’ meno scellerato, e ciò perché, tormentato dai dolori dell’artrite, non poté sfogare come avrebbe voluto la sua innata malvagità. Egli tuttavia coltivò ogni genere di libidine e disprezzò la santa religione».
Quando si rese conto di non poter più dimostrare il suo valore sul campo di battaglia, e quando si rese conto di dover tenere fronte alle altre grandi famiglie rinascimentali in altro modo, cosa fece? Non di affidare il proprio esercito a qualcun altro, non d’investire su altre forme più direttamente belliche. No, decise di costruire una biblioteca. Si affidò alle parole. È dall’impossibilità della guerra che nacque la Biblioteca Malatestiana. Scrivono Paola Errani e Marino Mengozzi nel loro Malatesta Novello Malatesti. Signore di Cesena: «Cessa la carriera militare del Novello: con una scelta non meno ardita che coraggiosa smette le vesti del condottiero per assumere quelle dell’umanista, dando l’avvio a una vera e propria “conversione” culturale, probabilmente appaiate». È insomma grazie all’orgoglio ferito e alla frustrazione di un condottiero umiliato che ancora oggi possiamo mettere piede in quel luogo, ed è grazie alla tossicità e agli ormoni bacati della spinta guerrafondaia che una guida oggi può inserire quelle due chiavi nella porta e farci entrare fra quelle campate. È l’umiliazione ad averci dato quel posto.
La Biblioteca sembra essere nata per sfogare l’impossibilità, da parte di Novello Malatesta, di continuare a combattere, a far la guerra, a sentirsi valoroso. L’impossibilità di combattere era qualcosa che non poteva sopportare. Doveva cercare un modo per rimanere in ogni caso al livello delle altre grandi famiglie rinascimentali più potenti del tempo – i Medici, gli Este, e così via – e la trovò in uno sfoggio di prestigio culturale per il quale finì per indebitarsi pesantemente. Per costruire quella biblioteca e per realizzare tutti quei volumi preziosi, Novello Malatesta pagò tutto di tasca sua, per non falsi intralciare dalle lungaggini e dagli ostacoli del ricorso ai soldi pubblici e alle tasse dei cittadini cesenati.

E se tutto questo non bastasse, pensiamo allora a un altro inaspettato elemento genetico bellico della Biblioteca Malatestiana: nel 1798, venne requisita dai soldati di Napoleone – quelli che, dicevamo, portarono via da Città di Castello lo Sposalizio della Vergine, con quel ramo schiantato – per acquartierarsi proprio lì. Lo si può immaginare bene: fra un manoscritto e l’altro, fra un incunabolo o un codice e l’altro, sedeva un soldato con in mano la sua arma, a riposo prima che un qualche superiore lo chiamasse per andare a glorificare il nome della sua patria e del suo imperatore attraverso le armi. Ovvero a rendersi ridicolo e a rendere ancora un po’ più ridicola l’umanità tutta, e ad alimentare quel caos esplorato coraggiosamente da Il Terzo Reich: «Il nucleo del linguaggio ritorna al rumore bianco, che riporta al caos».
E allora, mentre nella nostra retina riverberano ancora le parole mitragliate nello spettacolo-installazione di Romeo Castellucci e le vibrazioni dei suoni di Scott Gibbons, si esce dalla Biblioteca Malatestiana con un dubbio, quello secondo cui l’inaspettata corrispondenza fra Il Terzo Reich e quella Biblioteca stia lì a suggerirci una constatazione: che, ben al di là di ogni coincidenza, le parole siano sempre e letteralmente armi, che il linguaggio sia sempre una guerra, che la comunicazione sia sempre una spinta alla distruzione, e la comunicabilità sia niente di più di un istinto di autodistruzione. Se simili ipotesi fossero percorribili, l’incomunicabilità sarebbe una buona notizia. Finalmente.