L’Africa e l’Europa hanno un destino comune

Pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Leila El Houssi, L’Africa ci sta di fronte. Una storia italiana: dal colonialismo al terzomondismo (Carocci 2021).  

Lois Mailou Jones: “Africa”, 1935

Era proprio nella dimensione culturale che Senghor individuava il perno per la costruzione del dialogo tra popoli, che derivava dal presupposto che per porsi nella condizione di un rapporto dinamico e costruttivo con un’altra cultura, occorre innanzitutto essere consapevoli dei valori e dei limiti della propria ed essere capaci, senza rinunciare naturalmente all’originaria fondamentale radice, di operare una specie di completo svuotamento, una messa tra parentesi di ogni pregiudizio. L’idea era quindi di inoltrarsi fino al fondamento originario che congiunge, che può far circolare le varie prospettive di cultura attraverso un triplice impegno: la valorizzazione selettiva della propria cultura, l’assunzione consapevole del proprio limite e la ricognizione approfondita per cogliere simultaneamente gli intimi intrecci tra le varie culture percepite, per quanto possibile, in una rosa di significati più profonda e dunque non deformata dalle contingenze del contemporaneo. Un’operazione di questo tipo avrebbe consentito di compiere un percorso d’intesa tra le diverse culture, contribuendo a mantenerne intatta e inalterata la loro originalità.

La dimensione culturale, come dichiarava nella sua prolusione al Campidoglio, è anche ‘comprensione totale del mondo’, e mentre agli europei e ai ‘Latini’ riconosceva l’apporto fornito ‘à nous africains’ con la ‘raison discursive’, asseriva che ‘nous vous apportons la raison intuitive, par quoi se définit la négritude’. L’interdipendenza tra le culture era dunque per Senghor indispensabile, e l’interscambio tra la cultura europea e quella africana, già storicamente consolidato, doveva proseguire per la crescita reciproca. Senza rimuovere gli effetti negativi del colonialismo e l’alienazione che ne era derivata, Senghor sosteneva la cooperazione culturale affermando che:

La Négritude participe à l’edification de la civilisation de l’Universel. Elle y participe depuis le début du siècle, par l’art nègre et le jazz, le surréalisme, et la réhabilitation de la raison intuitive. Depuis le début du siècle on ne sculpte ni ne peint, on ne chante ni ne danse, on ne sent ni ne pense plus de la mème façon. On ne marche plus, on ne rit, plus comme auparavant.

Senghor era quindi persuaso della necessità di un ‘dialogue interpersonnel entre des êtres complémentaires’ in cui entrambe le parti potessero reciprocamente conoscersi per riconciliarsi e sostenere il percorso di costruzione di una civiltà universale. La forza del dialogo era un elemento essenziale per il presidente senegalese, che nella sua elaborazione teorica sosteneva che ‘la vera cultura è mettere radici e sradicarsi, mettere radici nel più profondo della terra natia nella sua eredità spirituale, ma anche sradicarsi e cioé aprirsi alla pioggia, al sole, ai fecondi apporti delle civiltà straniere’.

Senghot. Foto di Silvanus Olympio, 1960

Il viaggio di Senghor in Italia proseguì verso Firenze. Come già detto in una lettera del 16 luglio 1962 indirizzata al sindaco di Firenze La Pira preannunciandogli il viaggio ufficiale in Italia di ottobre, il presidente senegalese prevedeva ‘un soggiorno di ventiquattr’ore’ nella città toscana. Pochi giorni dopo, La Pira rispose al messaggio dichiarando che la visita avrebbe avuto ‘risonanze tanto felici in Italia, in Europa in Affrica ed ovunque’ e lo invitò a partecipare il 4 ottobre ‘alla Festa di San Francesco […] grande manifestazione (religiosa e civile: in Cattedrale ed in Palazzo Vecchio) relativa al Concilio Ecumenico’. Qualche giorno più tardi, l’11 ottobre, si sarebbe, infatti, aperta la più grande assise che la cristianità abbia mai conosciuto, il Vaticano II, il ventunesimo concilio della storia della Chiesa, al quale parteciparono quasi 3.000 vescovi (2.090 da Europa e continente americano, 408 dall’Asia, 351 dall’Africa e 74 dall’Oceania) riuniti in San Pietro per dialogare con la modernità.

Accolto da un festoso saluto, Senghor giunse all’aeroporto di San Giusto a Pisa il 4 ottobre, per recarsi a Firenze dall’amico La Pira. Nel saluto iniziale della cerimonia che celebrava la festa di San Francesco, a Palazzo Vecchio, il sindaco di Firenze pose l’accento sull’importanza di coinvolgere nel dialogo, oltre ai paesi della sponda sud del Mediterraneo, anche i paesi Dell’Africa subsahariana. A tal proposito rivelò l’intuizione di ‘quando pensammo che i Colloqui Mediterranei includevano nel loro spazio storico ed ideale l’intero continente africano’.

In questo era dominante l’ecumenismo del sindaco di Firenze, che riteneva di primaria importanza la collaborazione dei popoli per l’edificazione della pace nel mondo, unica via per una ‘rinascenza’. Rivolgendosi a Senghor, La Pira, nell’esporre il fine della négritude dichiarava che il fulcro del concetto elaborato dal presidente senegalese era la partecipazione congiunta di tutti i popoli ‘per l’edificazione di quella “civiltà planetaria”, di quella “civiltà universale” di quella civiltà socializzata a destinazione planetaria verso la quale irresistibilmente ed irreversibilmente avviata la storia presente e futura nel mondo’ attraverso ‘quel socialismo democratico che va sino ad integrare i valori spirituali.

La Pira definiva l’amico Senghor profeta del suo Continente e, nella suggestiva cornice del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, ribadiva la testimonianza del presidente senegalese sul fatto che ‘i popoli africani hanno intuito e colto l’appuntamento che la storia ha dato ad essi’. Senghor, dal canto suo, rimarcava, nella sua prolusione, la profonda importanza del dialogo come alternativa alla violenza e alle guerre prodotte in ‘un’epoca in cui l’ideologia ha trionfato sull’idea e l’affrontarsi, nella sua violenza si è sostituito al confrontarsi’. Il presidente senegalese riprendeva nella sua elaborazione teorica la visione teleologica della storia del gesuita Teilhard de Chardin, con tre cerchi corrispondenti alle civiltà giudaico-cristiana, arabo-musulmana e nero-africana destinati ad incontrarsi in una sintesi feconda per la liberazione dell’umanità senza oppressi e oppressori.[i]

La vocazione dell’Africa è una vocazione di pace che si erge contro le opposizioni irriducibili, contro lo spirito di antagonismo, contro i dogmatismi in favore del dialogo. Questa vocazione ha le sue radici nella storia, nella geografia. Rappresenta il limo che depone sulle rive la confluenza delle alluvioni della negrité e dell’arabismo. È una vocazione di sintesi che schiude il dialogo. Non per caso che la palabra è africana; vera scuola di democrazia, la palabra è il contrario dell’affrontarsi. L’Africa è aperta a ogni soffio del mondo, a tutte le forme di elaborazione di un avvenire di vita comune, i cui fondamenti saranno la pace e la fraternità […]. L’Africa, per vocazione, è spiritualista. Ciò che vuol far capire agli altri continenti è che il permanere dei valori spirituali, lungi dall’essere un freno al progresso, gli conferisce potenza dinamica […]. La principale preoccupazione di noi Africani resta quella di dare all’uomo una maggiore umanità, di preservarlo dai tentativi di disumanizzazione.

Giorgio La Pira riconosceva nel cantore della negritudine, nell’uomo politico e padre della patria senegalese la soggettività dei nuovi popoli africani e l’importanza del loro possibile contributo alla pace nel mondo. Con Senghor aprì un dialogo, il dialogo della negritudine – come memoria storica, come cuore, come spiritualità soprattutto – delle nazioni africane con l’Europa riva sud e riva nord. Perché Senghor diceva che l’Africa e l’Europa hanno un destino comune: o insieme vanno, o insieme cadono.

[i] Calchi Novati, Valsecchi, Africa, la storia ritrovata, p. 280.

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