L’eredità perduta. Università, editoria e sfera pubblica

Il testo che segue è a un estratto da “Momento Eureka”, un ebook di Michele Dantini pubblicato da Che-Fare in collaborazione con Doppiozero, dedicato al rapporto tra innovazione culturale e innovazione cognitiva.

“Il rischio è che si apra un solco sempre più ampio e profondo
fra i luoghi della formazione, che spesso i giovani continuano
a frequentare svogliatamente ma senza riconoscere ad essi più
alcuna funzione, e un ‘curriculum implicito’, basato sull’ideologia
dell’autoformazione in rete.”

Giovanni Solimine, Senza sapere, 2014

Dal punto di vista di una fiorente società della conoscenza i rapporti tra ricerca, “creatività” e consumo dovrebbero essere fluidi e reciproci. Ma così non è: in Italia esiste anzi un crescente scollamento tra istruzione formale da un lato e opinione pubblica dall’altro; o tra università, editoria e informazione.
A mio parere tale scollamento è dannoso nei due sensi. Provo a spiegare perché. Per mia collocazione professionale frequento scrittori, artisti, musicisti, designer, curatori della mia generazione, o più giovani. Mi colpisce l’atteggiamento che potrei definire scismatico. All’interno di comunità convenzionalmente descritte come “intellettuali” o “cognitive” (benché non accademiche) l’università gode di ben scarso credito. Meglio: ha smesso di interessare. La si frequenta distrattamente senza immaginarla come propria possibile destinazione professionale.[1]
È raro che, entro le stesse comunità, ricerche provenienti dal mondo universitario, per quanto originali e di largo respiro, siano segnalate per tempo o riconosciute importanti quanto un romanzo, un’opera d’arte o un film.
Perché? Possiamo valutare la circostanza come meglio riteniamo, dolercene (come ritengo sia giusto fare), insorgere o ignorare. È tuttavia indubitabile che sporadicità e disfunzionalità dei processi di reclutamento accademico abbiano creato nel tempo intralci formidabili alla libera circolazione del sapere.[2]
Se le istituzioni educative superiori espellono le giovani generazioni, queste infliggeranno una sorta di sanzione preventiva a tutto ciò che proviene da quelle stesse istituzioni. È inevitabile. La graduale fortificazione di enclosures diffidenti e esclusive, artificiosamente selezionate su base anagrafica in università, nell’editoria, nel web o nei media, ha trasformato l’ordinaria competizione tra generazioni in una contesa egemonica innaturalmente aspra.[3] Come sopravvive o si rigenera in tali condizioni l’eredità culturale?

La migliore cultura accademica scompare gradualmente dall’informazione, dall’arte o dalla letteratura e dal dibattito politico. Il danno è reciproco. La circolazione di competenze esperte tonifica una società democratica, e gli strumenti dell’indagine filologica si applicano anche all’inchiesta o al reportage.
Abbiamo bisogno, come cittadini, di punti di vista indipendenti. Una buona formazione aiuta a rifiutare luogo comune e pregiudizio, e sostiene nel tempo l’attività creativa. Al tempo stesso la discussione pubblica combatte i gerghi specialistici e pretende Concretezza e Vivacità.[4] La chiusura in se stessa non giova neppure all’università.
Allarmato dalla crescente distanza tra istruzione formale e opinione pubblica sono spinto a interrogarmi sulle difficoltà di comunicazione tra mondi divenuti innaturalmente antitetici. E trovo che un secondo problema, in aggiunta alla crisi del reclutamento universitario, sia la deriva commerciale dell’editoria “culturale”. Esemplifico con riferimento a situazioni-tipo che mi sono familiari.
In una sera di sabato di questo maggio ho visitato il grande punto RED appena inaugurato a Firenze. Sezione “arte”: sugli scaffali Flavio Caroli, Renato Barilli, Gillo Dorfles, Rudolph Arnheim. Chi non abbia conoscenze storico-artistiche di prima mano penserà che questi siano gli autori più innovativi.
Non immaginerà che i loro libri, ripubblicati postumi nel caso di Arnheim, comunque appartenenti a tutt’altra temperie culturale o al più classificabili sotto la categoria “varia”, datano decenni e dispiegano competenze opinabili o largamente deteriorate. È questo che intendiamo come ricerca, e che desideriamo proporre alle nuove generazioni? Trovo improvvisamente calzante l’acronimo digestivo.RED.[5]
Manuali, instant, bestseller. Fatte le debite eccezioni questo sembra interessare oggi all’editoria: il breve termine. Non è paradossale? “Per restare a galla nell’immediato [si è scelto] un rimedio peggiore del male”, commenta Martina Testa, editor e traduttrice. “Non ci sono le condizioni per costruire nuove autorevolezze”, mi ha confidato un editor tra i più qualificati.

Il senso dell’affermazione è chiaro, per quanto spiacevole. Non pubblicheremo più saggistica di ricerca: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Sorprende che tale risolutezza economico-commerciale promani dagli austeri uffici di una casa editrice “culturale” di longeva reputazione. La stessa che pubblica autori legittimamente preoccupati del peso crescente delle “oligarchie”.
Si percepisce la molteplice circolarità del punto di vista? “Dovremmo fare politiche di scouting per scoprire e promuovere giovani studiosi”, ammette Walter Barberis, storico e editor, presidente della casa editrice Einaudi. “Invece confidiamo nei prodotti internazionali, che troviamo alle grandi fiere del libro. La passività è una tendenza consolidata”.[6] Le strade di editoria e ricerca si vanno facendo distanti come mai in passato. L’abitudine all’import può distruggere le scintille locali e nazionali di buona ricerca?

“Pubblichiamo solo pamphlet di attualità o blockbuster”, conferma un editore attivo da lungo tempo nella pubblicazione di cataloghi e libri d’arte finanziati da banche e fondazioni. Monumentali volumi monografici a cura di questa o quella vecchia gloria fanno bella mostra alle sue spalle assieme a qualche retrivo libello antimodernista. Decisamente: la sfida editoriale è altrove.[7]
Esistono ricerche specialistiche recenti che, sia pure maturate in ambiti accademici, incontrano un apprezzabile successo editoriale? Due “storie di successo” rinviano alle scienze umane e sociali: esse rivelano che sì, la riluttanza del grande pubblico può essere sconfitta, ma a condizioni spesso improprie, tali da piegare l’indagine scientifica alle ragioni del mito.
Primo esempio. L’attuale popolarità del discorso storico-artistico è a mio avviso connessa a un’istanza di semplificazione portata a buon termine. Da più di un decennio l’offensiva liberista contro le professioni della tutela spinge gli storici dell’arte a interrogarsi in modo semplice e diretto sull’utilità pubblica del proprio ruolo. Il processo di semplificazione nasconde però un’insidia: possiamo scegliere di sacrificare il pensiero critico al consenso di platee nostalgiche.
Richiami larici e appelli alla “comunità” sostituiscono allora il riferimento alla sfera pubblica, e lo fanno in modi corporativi e demagogici. Che c’entrano gli “avi”, “i padri costituenti”, le “pietre” con il dibattito scientifico, che non conosce autorità precostituite? La discussione sulle politiche di tutela diviene occasione di adesioni (o rifiuti) a tratti plebiscitari.[8]
Secondo esempio. Nella discussione su “capitalismo” e “digitale” il punto di vista sociologico tende per lo più a trascurare l’importanza dei contesti istituzionali di innovazione sociale, quali appunto le università, per privilegiare comunità o imprese. La scelta è rivelativa: l’università non è percepita come “innovativa” né in senso giuridico (prefigurazione di nuovi diritti) né in senso sociale (elaborazione di nuove solidarietà). Ma davvero crediamo di poterne fare a meno? Il progetto di “libere università” formulato (tra gli altri) da Sergio Bologna corrisponde a una diffusa indignazione per lo statu quo accademico.
Manca però di indagare le concrete condizioni di sostenibilità economica, radicamento sociale e territoriale e longevità istituzionale cui sono vincolati i processi di trasmissione del sapere.[9] Connessioni diramate e costanti tra ricerca e attivismo sono a mio parere benefiche tanto per l’una quanto per l’altro.[10]
Forse è vero che l’interesse di classe non è onnipotente. Per combattere esclusione e pregiudizio è tuttavia indispensabile un’infrastruttura culturale progressista, tale da includere università, enti di ricerca, testate giornalistiche e case editrici indipendenti, musei, fondazioni pubbliche e private,
biblioteche.[11]

A mio avviso forme di immaturità argomentativa sono diffuse nel discorso culturale, nel giornalismo, ovviamente nel dibattito politico. Questa crisi è registrata in tutto l’Occidente: in Italia il problema è tuttavia più grave per la scarsità dei ricercatori sul totale della popolazione e un disinvestimento senza pari nelle istituzioni educative.[12] Appelli all’“emozione” prevalgono sulla discussione razionale anche nel contesto di argomentazioni che si pretendono scientifiche. Che accade se un paese rinuncia alla cultura dell’evidenza?
E dove, se non in università, possiamo maturare un’ostinata attitudine alla concatenazione e alla verifica?[13]
Dissuase dall’impegnarsi in durevoli progetti di ricerca, intere generazioni disertano o progettano di disertare l’università il più rapidamente possibile.
È inevitabile che le angustie di una formazione mutila e breve si riflettano poi nella sterile rissosità della discussione pubblica. Ridotte opportunità di studio dequalificano la classe dirigente di un paese e impongono costi sociali elevati. Basterà, per pagarli, levare convenzionali compianti sulle “generazioni perdute”?

[E’ possibile scaricare l’ebook direttamente da qui.]

Note

[1] Per dirla con Sennett: l’università è considerata un luogo dove c’è “carestia di riconoscimento” (Rispetto, il Mulino, Bologna 2004 (2003), p. 21).
[2] Stefano Paleari, presidente della CRUI, la Conferenza dei Rettori delle università italiane, ha scritto recentemente una lettera ai rettori per invitarli a scoraggiare localismo e nepotismo. Con quale efficacia non saprei. Per la lettera, sul cui merito non si può che essere d’accordo, vd. qui.
[3] Gustavo Zagrebelsky, Chi ha tradito l’antico patto tra padri e figli, in: la Repubblica, 24.5.2014, p. 44. Concordo con la tesi generale dell’articolo – il requisito generazionale è vuoto. Difficile però seguire Zagrebelsky sul sentiero dell’egotismo e dell’autocommiserazione. “Oggi le idee retrocedono e avanza la generazione. Chi viene dal passato s’adegui o almeno taccia! Se non lo si mangia o lo si cosparge di miele per darlo in pasto alle termiti, come in certe tribù delle civiltà precolombiane, lo si mummifica in qualche accademia”. L’affermazione tradisce l’incapacità di considerare lo sconforto della mummia dal punto di vista del ricercatore a tempo determinato o del giornalista a contratto. Una beffarda arroganza seniorile, non saprei dire se preterintenzionale, sembra costituire la regola più che l’eccezione. In un’intervista apparsa di recente sul Corriere della Sera Romano Luperini tratteggia la figura del critico e scrittore trenta- quarantenne in termini schiettamente (e sorprendentemente) etnografici. “I nuovi lavoratori della conoscenza”, afferma, “sono degli outsider, dei dilettanti sprovvisti di autorità, che hanno reazioni istintive rispetto alla realtà” (Paolo Di Stefano, Addio postmoderno, la narrativa è realista, 20.8.2014, p. 30). Cfr. anche qui e qui.
[4] Ne hanno discusso recentemente Giulio Ferroni e Michele Mari su La Lettura, supplemento domenicale del Corriere della sera, 16.2.2014, p. 5. In precedenza era apparso un acuto intervento di Valerio Magrelli, La solitudine del lettore, in: la Repubblica, 12.1.2014, pp. 50-51. Cfr. anche Paolo Di Stefano, Le classifiche dei libri discriminano la qualità, in: Corriere della sera,13.5.2014, p. 37; Franco Cordelli, La palude degli scrittori, in: La Lettura, 25.5.2014, p. 10; Emanuele Trevi, Il nuotatore di Kafka non sapeva nuotare, ibid., 1.6.2014, p. 12: “a dispetto dell’apparente varietà di trame e personaggi è innegabile la sensazione che tutti i libri di successo si assomiglino profondamente. Considerato come artigiano del plot, il tipo oggi dominante di scrittore deve procedere ricorrendo sempre più all’elemento ‘impersonale’… [rintracciabile] negli stolidi precetti che si impartiscono nelle cosiddette scuole di scrittura”. La progressiva scomparsa del saggio critico è insieme premessa e conseguenza della normalizzazione editoriale cui accenna Trevi. Sul punto cfr. Stefano Bartezzaghi, La fabbrica dei guru, in: la Repubblica, 25.5.2014, pp. 48-49: “la doppia platea dei maîtres à pender era costituita dal cerchio stretto degli studenti e da quello più ampio della parte colta della società: lettori di riviste culturali, frequentatori di librerie e biblioteche. Questo secondo cerchio risulta oggi schiacciato da quello, esterno e immenso, della cultura di massa, che applica codici di ricezione completamente diversi e privilegia l’intrattenimento sulla profondità, lo storytelling sull’originalità, l’emozione sull’analisi”.
[5] RED sta per “Read, Eat and Dream” (leggi, mangia e sogna).
[6] Walter Barberis in Simonetta Fiori, J’accuse degli storici. “Gli editori pensano soltanto al mercato”, in: la Repubblica, 16.12.2014, p. 51.
[7] Cfr. Carla Benedetti, Disumane lettere, Laterza, Roma|Bari 2011, p. 189: “così, per uno strano paradosso, quella cosa che chiamiamo ‘cultura’ rischia oggi di diventare, nei suoi circuiti di maggiore visibilità e diffusione, il luogo in cui si compie una ‘strage delle illusioni’ ancor più radicale di quella descritta da Leopardi”.
[8] I richiami alla “comunità” e all’“appartenenza” segnano, per Sennett, il fallimento dell’ideologia
radicale (The fall of public man, Norton, New York|London 1992 (1974), pp. 252-255). “L’arte diventerà un vero patrimonio nazionale”, prevede Mariana Mazzucato, economista, autrice del fortunato The entrepreneurial State (2013, Lo stato innovatore), “solo quando sarà posta al centro di una strategia di crescita che utilizza i poteri della rivoluzione informatica per diffonderla e divulgarla a livello internazionale” (Caro premier, ecco cosa può fare lo stato, in: la Repubblica, 9.8.2014, pp. 1, 27). Lo stato italiano potrebbe ben assumere il ruolo di “risk taker” invocato da Mazzucato, e procurare “capitale paziente” a chi scelga di investire.
Ma assai raramente è spinto a farlo. Coloro che con più slancio si mobilitano per la conservazione dispiegano competenze prevalentemente antiquarie e storico-giuridiche. Una minore attenzione è invece rivolta alle politiche sociali e del lavoro. Perché?
Nel ricostruire con ammirevole ampiezza documentaria e abilità narrativa il sacco di Roma del 1527, André Chastel ha avuto il merito di richiamare l’attenzione sui tratti storici e stilistici di una scena artistica in formazione e di mostrarne l’irreparabile dispersione (Il sacco di Roma, Torino, Einaudi 1983 (1983), p. 221 e ss.). Ma la lettura del Sacco, testo di storia politica e sociale, di antropologia culturale e teoria dell’arte non meno che di “storia dell’arte”, induce a riflettere su taluni limiti o ambivalenze della cultura italiana della conservazione.
Provvedimenti importanti a tutela dell’ingente patrimonio archeologico della città di Roma furono presi dal successore di Clemente vii, Pio iii, già nell’autunno del 1534, a distanza di pochi anni dal sacco. Si trattava certo di provvedimenti necessari, singolarmente smentiti, tuttavia, dalle estese demolizioni (anche di chiese) concepite in previsione della trionfale visita di Carlo v, nell’aprile del 1536. Più in generale, osserva Chastel, che rievoca anche i primi propositi di storia dell’arte italiana ad opera dell’umanista Paolo Giovio, l’enfasi storico-artistica si accompagnò al tempo all’esperienza dell’asservimento e al senso di un’intollerabile “vergogna” e disonore.
Venuti meno, con la catastrofe politico-militare che conduce all’occupazione della “città eterna” da parte di mercenari luterani e soldataglie italiane e spagnole lasciate senza capi, gli ambiziosi progetti politici coltivati da umanisti come Machiavelli o Guicciardini, i primi atti di tutela coincidono cronologicamente con la “fine della libertà italiana” e traggono dalle circostanze un’amareggiata nostalgia. Si cerca nel “patrimonio” un’improbabile compensazione al “senso di abbandono”. Assistiamo a una “precoce celebrazione delle glorie locali”, conclude lo storico, “e l’esigenza di risarcimento attraverso l’arte si rivela incontenibile.
Il generale ottimismo del Rinascimento è cosa del passato. Con il fallimento di un’egemonia ‘italiana’ si creano le condizioni più favorevoli perché la penisola rimanga ostaggio di celebrazioni immaginarie e vuote parate”.
[9] Sergio Bologna, I volontari della conoscenza, in: Il Manifesto, 10.3.2012, p. 10; Michele Dantini,
Patriarchi e vati, in Humanities e innovazione, Doppiozero, Milano 2012, pp. 2-3, 30-32, qui.
[10] Cfr. Axel Honneth, Etica del discorso e concetto implicito di giustizia (1986), in Riconoscimento
e conflitto di classe, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 129-138.
[11] Cfr. Paul Krugman, Le oligarchie e il denaro, in: il Mulino, 14.4.2014, qui.
[12] Troppe università, troppi laureati? Nel 2004 l’Italia occupava la quart’ultima posizione in Europa per percentuale di giovani laureati (25-34 anni) sul totale della popolazione: il 14% circa. Nel 2013 detiene saldamente l’ultima posizione. Anche così si distruggono opinione pubblica indipendente, platee di lettori colti e “mercati”. Sul tema cfr. Michele Dantini, Teaching- vs. research-universities, in: ROARS, 15.6.2014, qui.
[13] “In nessun paese al mondo”, ha osservato Umberto Eco in occasione del discorso inaugurale alle matricole tenuto all’università di Bologna nel 2009, “uno studente che ha fatto tre anni di università viene chiamato dottore. [Dobbiamo] imparare a cancellare dalla memoria ciò che non serve… Come costruirsi questa arte della discriminazione?”. Sul punto dell’opportunità di costruire un “antidoto alla cultura di Google” cfr. anche qui e soprattutto
qui.

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