«Noi rifiutiamo di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore». Inizia così l’appello perché il bando italiano alla maternità surrogata sia esteso al resto d’Europa, promosso da SeNonOraQuando – Libere.
Buon per loro: ognuna ha il diritto di avere le proprie opinioni, fondate o meno. Quello che risulta un po’ meno chiaro è per quale motivo le promotrici (e i promotori) dell’appello ritengano di potere arrogare per sé la posizione di chi decide del corpo e delle capacità riproduttive altrui. E peraltro sulla base di una serie di opinioni la cui fondatezza è tutta da dimostrare – nonostante il tono perentorio con cui vengono proclamate –, e la cui coerenza fa acqua da tutte le parti. Ma andiamo con ordine e proviamo ad analizzare queste opinioni e contraddizioni una per una.
Le argomentazioni dell’appello sono tutto fuorché lineari. Il testo inizia con un attacco alla maternità surrogata tout court per poi procedere a parlare di merci e mercato. Ma merci e mercato cosa c’entrano con la maternità surrogata a titolo gratuito? Non si tratta di due esperienze fondamentalmente diverse? A quanto pare, no. Si prendano come esempio queste frasi: «I bambini non sono cose da vendere o da “donare”. Se vengono programmaticamente scissi dalla storia che li ha portati alla luce e che comunque è la loro, i bambini diventano merce».
La resistenza alla mercificazione del corpo della donna e del bambino viene qui del tutto confusa, addirittura identificata, con la proclamazione di un supposto legame inscindibile tra madre biologica e bambino. Separato dal ventre che lo ha partorito e dalla sua biografia, il bambino non può essere un dono: è solo, sempre e comunque merce. L’appello sguazza nell’ambiguità delle motivazioni e delle argomentazioni in modo da poter accogliere e mettere insieme prospettive che in realtà sono in tensione, se non in aperta contraddizione l’una con l’altra, come, ad esempio, quella di Cristina Gramolini, favorevole – come Arci Lesbica – alla maternità surrogata a titolo gratuito, ma contraria a quella a titolo commerciale. E la prospettiva di chi, invece, è contraria alla maternità surrogata tout court, in nome della sacralità dell’esperienza della gravidanza e del legame tra madre biologica e bambino. L’esito politico è, però, dei più nefasti: l’appello finisce, infatti, per confondere i piani, nascondere la complessità della realtà e promuovere al contempo come verità incontrovertibile una specifica visione di cosa sia una gravidanza e cosa significhi, psicologicamente, moralmente e socialmente.
L’assunto fondamentale dell’appello è che la maternità surrogata trasformi la donna in oggetto e mezzo. Il presupposto di questo assunto mi pare essere che – qualunque sia il contratto che presiede a ogni specifico percorso di maternità surrogata, commerciale o basato su un principio di gratuità – la donna che agisce come madre surrogata in realtà non agisce affatto: forse pensa di stare compiendo una scelta, ma in realtà non lo è, non esercita nessun controllo sul proprio corpo e sulle proprie capacità riproduttive, ed è perciò ridotta a mero contenitore passivo strumentalizzato in nome dell’altrui “desiderio di figli” che diventa “un diritto da affermare a ogni costo”.
Ora, pure ammettendo per un momento che questa diagnosi della situazione abbia un qualche fondamento, ed escludendo i casi di coercizione e schiavitù sessuale e riproduttiva, la logica secondo la quale la soluzione debba essere rappresentata da un intervento proibizionista dello Stato è quantomeno contraddittoria. Non si capisce, infatti, in che modo il fatto che sia lo Stato a decidere cosa possano o non possano fare le donne con il proprio corpo dia loro maggiore libertà. Al paternalismo del mercato e del patriarcato si vuole sostituire quello dello Stato? Sembrerebbe di sì, a leggere l’intervento di Luisa Muraro sul «Corriere della Sera»: «Ci sono limiti anche alla scelta di donne che si sentono onnipotenti nell’atto di mettere a disposizione il loro utero». Peccato che un simile ragionamento possa applicarsi anche all’aborto.
Se poi ci spostiamo dal mondo delle fantasie e delle universalizzazioni delle proprie percezioni soggettive a quello della realtà, il presupposto per cui le donne in questione non stiano operando una scelta e siano solo oggetti passivi e vittime è quantomeno problematico. Per poter escludere così perentoriamente che ogni elemento di decisionalità, libertà e autonomia sia assente nello scambio tra madre surrogata e genitori committenti bisognerebbe, come minimo, iniziare con l’ascoltare le voci delle madri surrogate. Diversi studi basati su interviste a madri surrogate in Gran Bretagna e USA mostrano, in effetti, tutto il contrario di quanto implicitamente sostenuto dall’appello. Questi studi mostrano che le donne intervistate hanno agito e agiscono da soggetti consapevoli, che non esiste alcuna evidenza di conseguenze psicologiche (né per la madre surrogata né per il bambino) e che la stragrande maggioranza delle donne intervistate ha una valutazione positiva dell’esperienza fatta e non considera il bambino partorito come il proprio figlio. Mostrano, inoltre, che l’idea che la maternità surrogata comporti un’inevitabile totale separazione tra madre surrogata e bambino è poco più di una fantasia, dal momento che nella maggior parte dei casi presi in esami (79%) gli accordi presi comportano anche il mantenimento di rapporti, la cui frequenza è variabile. La complessità di questa realtà scompare nella notte in cui tutte le vacche sono grigie. In questa notte l’appello vorrebbe farci piombare.
Ma facciamo finta per un momento che l’intento reale delle promotrici dell’appello sia la critica della mercificazione, in particolare in riferimento al fenomeno crescente della maternità surrogata a pagamento in paesi del sud del mondo, i cui committenti sono coppie provenienti da paesi ricchi. Ora, che la questione sollevi problemi etici e politici rilevanti è fuor di dubbio. Studi, documentari e inchieste negli ultimi anni hanno messo in luce le spaventose condizioni in cui la maternità surrogata ha luogo, ad esempio, in India: i rischi per la salute delle madri, gli abusi, le frodi, lo sfruttamento e le dinamiche razziste.
La domanda che ci si dovrebbe porre, tuttavia, è quali siano gli approcci e le soluzioni migliori a un problema le cui radici risiedono nei rapporti coloniali e di dipendenza tra paesi del nord e del sud del mondo. Anche in questo caso il presupposto dell’appello è che madri surrogate in India o in Tailandia non siano soggetti, ma solo e semplicemente delle vittime. È francamente stupefacente che un gruppo di donne italiane ritenga di avere il diritto di determinare se queste donne stiano compiendo una scelta o meno. Anche qui, leggere un po’ di letteratura sulla questione e di interviste a madri surrogate, ad esempio, in India non farebbe male. Hanno una voce, sanno parlare da sé, e non è poi così difficile leggerne le testimonianze: si trovano su Internet. La realtà che emerge da interviste, testimonianze, documentari e inchieste è composita: per alcune donne si tratta di una scelta razionale e vantaggiosa rispetto ad altre e di cui non si pentono, all’interno delle condizioni di povertà ed estremo sfruttamento in cui vivono, altre non hanno letteralmente altra scelta a disposizione, non sono realmente informate dei rischi a cui vanno incontro o sono vittime di frodi. Il problema, dunque, non è la scelta in sé, ma sono le condizioni in cui la si opera o le condizioni che la rendono, in molti casi, l’unica opzione a disposizione.
Se si ha davvero a cuore il benessere, l’autonomia e l’emancipazione di queste donne, si dovrebbe mettere a tema e criticare non la maternità surrogata in quanto tale, ma piuttosto le condizioni sociali ed economiche che la rendono una scelta economicamente e socialmente più vantaggiosa di altre o che la rendono una scelta di sopravvivenza obbligata. Magari a partire da una critica feroce del neoliberismo e neo-colonialismo che rappresentano il cuore oscuro di quel Partito Democratico al quale diverse delle promotrici dell’appello appartengono. Anziché impartire lezioni alle donne del sud del mondo su cosa siano in grado di decidere o meno, o su cosa debba rappresentare per loro l’esperienza della gravidanza, le promotrici dell’appello avrebbero fatto meglio a scagliarsi contro le politiche neocoloniali e liberiste di quelle stesse istituzioni europee a cui invece si rivolgono. Sarebbe stato certamente un atto di solidarietà più rilevante che proporre un bando che, nei fatti, non avrebbe come conseguenza alcun miglioramento della situazione. Come nel caso del sex work, infatti, il proibizionismo serve solo alla proliferazione degli abusi e dell’assenza di diritti. Se si vuole che gli Stati intervengano a legiferare, sarebbe decisamente più razionale mettere a tema – come decine di giuriste e giuristi stanno facendo a livello internazionale – la questione di una legislazione transnazionale che regolamenti le procedure e assicuri alle donne coinvolte servizi e diritti essenziali al loro benessere, alla loro sicurezza e alla loro autonomia decisionale.
L’eurocentrismo dell’appello appare del tutto evidente in uno dei peggiori scivoloni del testo: «Oggi, per la prima volta nella storia, la maternità incontra la libertà. Si può scegliere di essere o non essere madri». Davvero? E dove, precisamente? L’Europa occidentale a quanto pare rimane il centro e lo specchio del mondo. Sorge, quindi, il sospetto che questa sincera preoccupazione per le donne del sud del mondo sia poco più che una scusa. D’altronde, SeNonOraQuando–Libere non ha certo brillato negli anni passati per aver messo in discussione il carattere eurocentrico del femminismo liberale italiano. Né mi risulta esserci stato un significativo intervento in difesa dei diritti delle 8-900.000 donne migranti che lavorano in Italia come badanti, in molti casi in condizioni di semi-servitù. Dove sono gli appelli di SeNonOraQuando–Libere in nome del diritto alla maternità di queste donne? Dove sono le condanne di un sistema inumano di regolamentazione dei fenomeni migratori che comporta la costante separazione di queste donne dai loro figli? Dove sono le feroci critiche di un sistema di sfruttamento che lascia queste donne in balia di un mercato del lavoro che le vuole sempre disponibili? Non dovrebbe essere piuttosto questa una delle priorità del femminismo italiano, oggi?