Il contributo[*] che segue, scritto da Marie-José Mondzain, rientra in una sequenza aperta di riflessioni dedicate alle questioni che emergono attraverso la lettura di ciò che è accaduto nella notte del 13 novembre, avviata sul nostro sito a partire da sabato 28 novembre.
È difficile prendere la parola dopo i massacri del 13 novembre, per due ragioni opposte: la prima è la necessità di rimanere in silenzio per lasciare alla sofferenza e al pensiero il loro tempo e il loro ritmo; la seconda è dovuta all’abbondanza di commenti che hanno immediatamente invaso la stampa e i media. Questi commenti, spesso legittimi e alcuni dei quali degni di nota, hanno offerto un grande numero di risorse per comprendere le cause di tale avvenimento. Tra le diverse prese di parola e i diversi testi, alcuni ci aiutano ad attraversare questa prova collettiva illuminando e smascherando le responsabilità storiche, sociali e politiche che hanno condotto a questo disastro. Alcuni gettano luce sulla storia religiosa, coloniale, economica e militare; altri mettono l’accento sulla sofferenza sociale, l’irresponsabilità delle istituzioni, il cinismo dei capi; altri ancora insistono sulla crudeltà dei fanatici, la fascinazione del potere, la barbarie planetaria e le miserie locali…, Leggendo questi testi, sembra chiaro che non c’è un campo di vittime massacrate di fronte a un campo di aguzzini massacratori. Ci sono vittime da entrambe le parti, e siamo chiamati a trovare insieme le risorse per una resistenza di fronte a tutti i carnefici. È necessario cioè che si prenda in considerazione non una guerra, come ci si vuole far intendere, ma una lotta squisitamente politica all’interno degli spazi e dei tempi collettivi. Una cosa è comprendere gli eventi per inscriverli nella memoria intelligibile e per sviare gli effetti paralizzanti della paura, un’altra cosa è mettere in atto una risposta attiva con la ferma volontà di porre fine alla catastrofe e a coloro che l’hanno provocata. Io credo che non potremo cambiare niente se continuiamo a parlare di coloro che ci aggrediscono senza aver mai parlato con loro. Si tratta di un reale problema riguardante la nostra attitudine.
Che cosa possiamo fare, noi che rifiutiamo lo stato di guerra? All’interno del nostro territorio, un’intera gioventù è presa da un’ideologia assassina e fascisteggiante, fanatica e disperata. Dobbiamo rivolgerci verso quella, concedergli del tempo, ascoltare il suo lamento e aiutarla a rompere con il furore nichilista ispirato da un ideale fantasmatico. Per questo motivo, io non cerco di fare né di più né meglio di altri in termini di analisi delle cause e delle responsabilità. Vorrei invece interrogarmi sulla destinazione dei nostri testi e delle nostre analisi. Come passare all’azione non per ribattere ma per rispondere? Come fare in modo che un dialogo si instauri tra i ribelli criminali e il mondo che dicono di non sopportare più e che vogliono annientare uccidendoci? Come fargli intendere che non è uccidendo ciecamente dei semplici cittadini che cambieranno il mondo, ma che al contrario rafforzeranno gli odi e i cinismi organizzati dal sistema neoliberale e dalla sua politica internazionale? Così facendo ne divengono i peggiori agenti.
Più uccidono, più il terrore che instaurano diminuisce le nostre libertà. Più gli attentati alla nostra libertà si aggravano, più la forza poliziesca e la violenza militare rinforzano il sistema che credono di denunciare. Regnare per mezzo della paura è instaurare una fobocrazia che porta a autorizzare ognuno ad armarsi, a sparare in nome della legittima difesa, a uccidere ciecamente a suo turno tutto ciò che non si tollera o che fa paura. Quelli che vogliono la guerra preparano la guerra civile mescolando inestricabilmente il terreno internazionale dei conflitti d’interesse e la scena nazionale delle contraddizioni economiche e delle ingiustizie scandalose che ne conseguono all’interno del campo sociale.
Come condividere le nostre analisi? Come stabilire un rapporto fatto di parole, conflitti formulati, reclami ascoltati, soluzioni trovate insieme nello spazio pubblico, nelle scuole, nelle riunioni e nei quartieri, con tutte quelle e tutti quelli che si precipitano in passaggi all’atto nei quali perdono la loro anima credendo di salvarla, dove diventano dei becchini della propria gioia di vivere preferendo morire? Lo stato d’urgenza si appresta inevitabilmente a organizzare il terrore interiorizzato, l’autocensura, la diffidenza generalizzata. Si apre un’era di sospetto in cui ognuno è il nemico potenziale di un altro e di tutti. Niente più ospitalità, con i rischi che implica ogni forma di accoglienza. Dunque, come far sentire la nostra voce?
Per sentire bisogna ascoltare, e per questo occorre fare silenzio. Colpisce il fatto che quelli che uccidono abbiano bisogno di urlare; le loro immagini sono saturate di parole e incantesimi. La risposta è a sua volta rumorosa. Le industrie della comunicazione vogliono orchestrare le immagini e le parole che pretendono di informare e risolvere. Il silenzio è impossibile e il regime delle esplosioni è assordante. Come ricomporre, dunque, un spazio e un tempo per l’ascolto?
Dove troveremo l’energia collettiva per non confondere il rifiuto del peggio con l’odio della parola e della libertà? Spetta a ognuno di noi di andare avanti con la mano tesa, per ascoltare gli eccessi di coloro che ci minacciano. Ne avremo il coraggio?
Contro la distruzione non c’è che una risposta, la creazione. È solo nelle azioni coraggiose e innovative di coloro che inventano assumendo i rischi che impone ogni strappo alla fatalità e alla necessità che trarremo la forza per invertire l’ordine della catastrofe. Senza la potenza della cultura e il lavoro degli artisti, senza l’energia poetica che abita ogni rivoluzione, non faremo che tremare di più e piangere i nostri morti. Bisogna che quelle e quelli che sono morti non siano morti per niente. Bisogna che il dolore ci ispiri, che nutra la rivolta e ci dia la potenza d’inventare, di fare nascere un altro mondo. Si tratta di un vero lavoro che non può compiersi nell’urgenza. Il tempo rivoluzionario è una temporalità creatrice che non ha niente a che vedere con chi cerca l’urgenza a tutti i costi. Bisognerà, al contrario, prendere tempo e, soprattutto, dare tempo.
[*] Apparso su l’Humanitè. Traduzione a cura di Francesco Zucconi con la collaborazione di Lorenzo Alunni.