Gli incendi di questi mesi dimostrano lo stallo politico dell’Australia sulla questione climatica.
Dopo il clamore delle scorse settimane in Italia destato dalla devastazione degli incendi in Australia, si è smesso di parlare di quanto accade down under, nonostante gli incendi siano ancora in corso. Pertanto è il momento giusto per riproporre l’argomento, con una prospettiva politica ancora poco presente sui media nostrani.
Il mix di elevate temperature prolungate, precipitazioni scarse e forti venti ha rappresentato la causa principale degli incendi di questi mesi, che hanno solcato l’Australia da est a ovest, da Perth alla Tasmania, con intensità, distribuzione e frequenze senza precedenti. Il cambiamento climatico è uno dei fattori principali nel causare la crescente intensità e frequenza di molte delle condizioni ambientali alla base di eventi del genere. Uno scenario senza precedenti che anche l’opinione pubblica australiana, abituata ai frequenti incendi primaverili ed estivi – comunque essenziali per mantenere e rinnovare gli ecosistemi e la biodiversità- ha considerato apocalittico.
In Italia sono circolate le notizie tragiche della morte di abitanti e volontari e della perdita incalcolabile di biodiversità. Siamo stati assuefatti, in maniera frammentata e tutt’altro che informativa, dalle immagini di Sydney avvolta dai fumi, persone disperate tra abitazioni e paesi distrutti, personale di soccorso stremato, koala assetati, canguri in fuga dalle fiamme, dromedari e cammelli uccisi per evitare ulteriori consumi di acqua scarseggiante. Immagini che, oltre a generare compassione e stupore, hanno peró detto poco circa le cause di lungo termine e il contesto politico e sociale in cui gli incendi si sono sviluppati.
Sono state pubblicate e condivise foto e immagini decontestualizzanti, come quella di un canguro che abbraccia una volontaria per averlo salvato, rivelatasi poi non collegata agli incendi, o una mappatura asincrona in 3D degli incendi spacciata per immagine satellitare. Non sono mancati inoltre tentativi di disinformazione da parte degli organi di stampa del magnate Murdoch, inclusa la notizia falsa di oltre 180 incendiari arrestati, propagandata da bot e troll per distogliere l’attenzione dal collegamento tra gli incendi e il cambiamento climatico.
Poco si è detto però su quanto il governo australiano sia sostanzialmente fermo nella lotta al cambiamento climatico, nonostante proclami e strumenti legislativi. Gli incendi di questi mesi, infatti, dimostrano ancora una volta lo stallo politico dell’Australia sulla questione climatica, mettendo sul piatto la necessità di una valutazione politica del paese ancora poco presente alle nostre latitudini.
L’Australia ha infatti un rapporto politicamente ambiguo con il cambiamento climatico. Nonostante i tanti disastri connessi a eventi climatici e l’elevata possibilità di simili episodi in futuro, l’Australia nel 2015 ha prodotto le 15 maggiori emissioni mondiali di gas serra, con un contributo pro capite circa tre volte superiore alla media globale. L’Australia è il secondo paese al mondo per esportazione di carbone e il primo per quella di gas naturale liquefatto. La sua rete elettrica rimane ancora fortemente dipendente dal carbone, sebbene siano aumentate le percentuali di approvvigionamento e consumo da fonti rinnovabili.
Inoltre, si è classificata penultima, al 56° posto, nel Climate Change Performance Index, indice che valuta la performance climatica di 57 paesi sulla base di vari indicatori su emissioni climalteranti, energia rinnovabile, uso energetico, e politiche climatiche. Lo scorso anno era terzultima.
Fin dagli anni ’90 il governo federale ha introdotto strumenti legislativi -piani, strategie, programmi- per mitigazione (riduzione delle emissioni climalteranti), adattamento e resilienza, senza menzionare quanto fatto dai singoli Stati (Western Australia, South Australia, Queensland, New South Wales, Victoria, Tasmania), i Territori (Australian Capital Territory, Northern Territory) e i governi locali (Local Governments Areas e City Councils). Strategie poco efficaci alle quali è sempre mancata una forte volontà politica di mettere in discussione il paradigma economico e produttivo.
Il tema del cambiamento climatico è sempre stato inoltre politicamente polarizzante. Ha influenzato campagne elettorali (come nel 2019) e portato alle dimissioni di vari primi ministri per il loro supporto o meno a politiche ambientali. Nel luglio 2012 il governo laburista di Rudd aveva introdotto una tassa (carbon tax) per i larghi produttori di emissioni climalteranti, ferocemente opposta dalla coalizione liberale spalleggiata dalle grandi compagnie minerarie ed energetiche. Con il passaggio al governo liberale nel 2013, l’allora primo ministro Tony Abbott ebbe come priorità proprio l’abrogazione di questa tassa, difatti puntualmente eliminata in pochi mesi. Abbott ha anche smantellato un preesistente dipartimento per il cambiamento climatico (già unito al dipartimento di industria e innovazione nel marzo 2013), accorpandolo nel dipartimento ambientale e minando ulteriormente la capacità politica di intervenire sul clima.
Nel corso degli anni, i finanziamenti per le ricerche sul clima si sono enormemente ridotti. Nel maggio 2016, il governo australiano ha fatto pressione sull’UNESCO per rimuovere dalla lista di aree culturali e naturali minacciate dal cambiamento climatico inserita in un report alcuni siti australiani (come la grande barriera corallina o le foreste di Kakadu e della Tasmania), sostenendo che la loro presenza avrebbe avuto risvolti negativi per il turismo.
Nella campagna elettorale del 2019, l’attuale primo ministro della coalizione liberale Scott Morrison ha dichiarato che non avrebbe continuato a finanziare il Green Climate Fund dell’ONU, impegnato in investimenti per l’abbattimento delle emissioni. All’ultima COP25 a Madrid, Morrison è stato inoltre accusato di essere un imbroglione e di voler utilizzare alcune scappatoie collegate al protocollo di Kyoto per raggiungere l’obiettivo emissioni per il 2030 fissato agli accordi di Parigi del 2015. Recentemente, l’OECD ha definito “frammentario” l’approccio australiano alla riduzione di emissioni.
Sono stati anche ridotti fondi per i vigili del fuoco, in larga parte volontari, in New South Wales, uno degli Stati più colpiti dagli incendi. Nel frattempo, ad aprile 2019 è stata approvata l’apertura dell’ennesimo sito di estrazione mineraria in Queensland gestito dalla multinazionale Adani, verso la quale sono state mosse diverse critiche in relazione al suo contributo alle emissioni climalteranti e agli impatti sulla grande barriera corallina, già fortemente compromessa.
Scott Morrison e la sua coalizione hanno gestito l’emergenza in maniera scellerata. Hanno negato la gravità del cambiamento climatico, deresponsabilizzando il governo circa le soluzioni da trovare e delegandole ai livelli istituzionali più bassi o all’azione individuale. Hanno lanciato accuse di catastrofismo agli “ambientalisti” e ai “radical chic urbani” (sic!), ignorando le evidenze scientifiche sugli impatti del cambiamento climatico e ripetendo il mantra della priorità occupazionale sulla protezione ambientale. Basta tuttavia uno sguardo alle statistiche occupazionali per verificare come il settore estrattivo includa solo il 2% della forza lavoro totale australiana.
Hanno inoltre adottato una debole leadership politica nella gestione dell’emergenza, con scarsa capacità di coordinamento con gli Stati coinvolti e chi, tra le fiamme, rischiava la pelle. Morrison, per esempio, è partito per le vacanze alle Hawaii nel bel mezzo della crisi, delegando la gestione degli interventi agli Stati/Territori e ai vigili del fuoco. Una volta realizzata la necessità di un’azione diretta del governo e della sua presenza, ha provato a risollevare l’immagine della sua coalizione lasciando in anticipo il buen retiro e recandosi nelle aree più colpite, venendo in alcuni casi (come a Cobargo, New South Wales) letteralmente cacciato a male parole dai soccorritori e dagli abitanti che avevano perso case e terreni.
Nonostante le ferocissime critiche per la mancanza di leadership nella gestione dell’emergenza e della questione climatics, Morrison ha comunque dichiarato che il governo non avrebbe modificato le sue politiche climatiche. Il settore estrattivo e l’esportazione di carbone restano infatti industrie chiave per l’Australia: il paese non diminuirà la produzione di emissioni climalteranti e non metterà a rischio migliaia di posti di lavoro. Le azioni di contrasto al cambiamento climatico, insomma, non sono una priorità.
È in questo contesto politico fortemente ambiguo che gli incendi diventano la cartina di tornasole dell’impasse politico e istituzionale sui temi del cambiamento climatico in atto da anni in Australia. Se un mix di cause umane e naturali ha causato gli incendi, la responsabilità politica sia di breve che lungo periodo è da ricercarsi nella sostanziale inazione dei governi alternatisi in questi decenni (senza dimenticare ovviamente le colpe globali).
Uno spunto iniaziale di riflessione come questo consente uno sguardo altro sull’Australia, paese troppo spesso mistificato con stereotipi e generalizzazioni da riviste d’aereo: spiagge paradisiache, alti indici di vivibilità urbani, immancabili musetti simpatici di koala e canguri. Paese, invece, che dal mito coloniale creato a tavolino, passando dalla banditesca gestione dei richiedenti asilo,e giungendo fino agli impatti del cambiamento climatico, è costruito su fondamenta politiche d’argilla che nascondono la realtà.