L’arte del viaggio

Fra architettura, editoria e fotografia. Incontro con Giovanna Silva

Milano, 7 dicembre 2014. Sera.

Torno in Italia da qualche giorno passato a Oslo, Norvegia. Ho appuntamento a cena con Giovanna Silva. «Ti va bene giapponese?» Si va a mangiare giapponese. E rido tra me e me. Mai entrato in un ristorante del genere prima di quella settimana e mi trovo a entrarci già per la seconda volta – la prima naturalmente a Oslo, durante i miei giorni lì, sempre su idea altrui, e sempre una lei a chiedere.

Sul posto, in attesa, due amiche di Giovanna, con noi a tavola.

Si entra, e non posso non menzionare la cosa, e quindi la mia inettitudine alle bacchette. «Forchette?» “La zona Cesarini” allora è davvero una categoria democratica, mi dico. «Forchette.» E va bene così, sorridono tutti (e però no, non sembrava quel grande film dell’attore genovese).

 Ora, lo “straniamento” in una situazione del genere non è poi malaccio se uno si deve “calare” nella parte dell’intervistatore. Concede un po’ di tempo minimo per pe(n)sare – o magari ripensare – qualche domanda, e farsi le proprie, di domande (sull’impostare i temi, tenere il discorso, far qualcosa alla fine di informale: cose così). Il tempo scorre, e verso la fine si decide di registrare. Cioè propongo io. Però ho l’ultimo lampo mentale prima di premere il bottone “start”. Giovanna Silva: chi è? Come associare i suoi campi di formazione e interesse che so essere l’architettura, l’editoria e la fotografia? Come provare a farle il ritratto tramite intervista?

Di primo acchito, mi verrebbe da pensare all’architettura come sfondo, alla fotografia come piano particolare di questo sfondo, e all’editoria come modo di “estendere” tale piano.

Magari è così. Ma anche no.

Intanto il registratore era già acceso da un pezzo…

Fotoritratto di Giovanna Silva

 

 

Gianluca Pulsoni – Raccontami un po’ della tua formazione. Come sei arrivata a fare le tue attività principali, l’editoria e la fotografia.

Giovanna Silva – Allora, da quando ho cinque anni – e non sto scherzando – io ridisegnavo, ossessivamente, la mia camera. Ho sempre voluto fare l’architetto. Forse però avevo una idea un po’ diversa di quello che poi è, realmente, essere architetto in Italia. Pensavo che l’architetto costruisse, viaggiasse – mi è sempre piaciuto viaggiare, fin da piccola, con i miei genitori – e quindi: ossessione. Io sono una persona molto ossessiva, e se mi metto in testa una cosa la devo portare a termine. E quindi mi iscrivo a Architettura, al Politecnico di Milano, ma al secondo anno… capisco di aver sbagliato tutto. Al secondo anno vado in Erasmus in Portogallo, Lisbona, e li capisco cos’è la vera architettura. A Lisbona c’è una tradizione architettonica del costruire ancora molto forte, cosa che invece in Italia non c’è più. Alla fine ho capito che fare il mestiere dell’architetto significa stare davanti a un computer e disegnare particolari esecutivi, mentre la dimensione del viaggio è assolutamente assente.

Per cui: torno in Italia, mi laureo – sempre perché quando mi prefiggo una cosa, la cerco di portare a termine – e nel frattempo inizio a lavorare da Francesco Jodice, che ai tempi aveva pubblicato un libro insieme a Stefano Boeri e altre persone sulla città e l’urbanistica. Lui aveva uno studio fotografico e io facevo l’assistente. Io di fotografia non ne sapevo niente – nel senso: facevo fotografia in modo amatoriale, non avevo mai usato il banco ottico (siamo nel 2002, quando ancora il digitale non era presente o comunque non dominante) – e quindi mi ha insegnato tutto. Ho lavorato con lui per tre anni e con lui ho capito che fare fotografia, applicare la fotografia al viaggio e allo studio delle città, è una cosa che mi interessava molto. Dopo tre anni di esperienza mi ero creata un piccolo pubblico di gente che era interessata alle mie foto, e quindi ho iniziato a lavorare a cavallo tra architettura e fotografia da «Domus». Ai tempi il direttore era Stefano Boeri. E alla fine ho iniziato a capire che potevo vivere di fotografia. Paradossalmente, mi sarebbe sembrato più facile vivere con l’architettura, e invece mi sono trovata – quasi casualmente – a lavorare come fotografa di architettura. Poi, oltre a fare fotografie di architettura c’era già la dimensione del viaggio. Cioè, ai tempi – erano anche altri tempi, c’erano molti più soldi – viaggiavo per fare dei servizi fotografici sulle città. Poi trovavamo uno scrittore, associavamo il testo alle immagini.

Questo per «Domus»

Sì, per «Domus». Poi quando è finito il suo periodo di direttore, Boeri è passato a «Abitare» – altra rivista importante – e io l’ho seguito anche lì. Ora, quando sei giovane, sei entusiasta di tutto, ma poi man mano le cose cambiano (come tutto), e dopo cinque anni che facevo fotografia, per me era diventato “lavoro”. Quindi, in fondo, mi sentivo spedita in questi Paesi, per tre o quattro giorni – i tempi di permanenza erano quelli – e sentivo che mi mancava tutto un apparato un po’ teorico, che invece avrei voluto approfondire. Se appunto vai in Giappone o in Norvegia è bello fare le foto. Però anche sapere qualcosa. E quindi ho avuto questa balzana idea di riscrivermi all’Università, e ho studiato Antropologia Culturale a Ca’ Foscari. Ho studiato e mi manca la tesi, cosa che non farò mai…

Ma hai comunque una idea…

Mi piacerebbe su Alexander von Humboldt. E qui si ricollega il nome della casa editrice…

Comunque… mentre Architettura l’ho fatta col vecchio ordinamento, in questo caso ero passata al nuovo. Quindi mi avevano abbonato il triennio, e ho fatto quello che si dice “il più due”. Avevo preso la specialistica in Geografia e Storia delle Esplorazioni. E avevo dato esami più o meno monografici su tutta una serie di Paesi o zone: “Storia del Medio Oriente” e cose simili. E mi piacevano un sacco. Ora, Architettura è una bellissima Facoltà, che ti permette di fare qualsiasi cosa, ma molto pratica, e quindi Antropologia mi ha fatto riavvicinare un po’ allo studio e alla lettura. Quando poi a un certo punto, dopo otto anni di lavoro in riviste di architettura, ho pensato che forse m’ero un po’ stancata. Più quello era un momento in cui, indipendentemente da me, Stefano era stanco di fare riviste, anche perché si stava dedicando alla politica, e in più, anagraficamente, mi avvicinavo ai trent’anni. Ho pensato che se volevo fare qualcosa di mio dovevo agire. E allora ho capito che la cosa che a me piaceva di più fare era fare dei viaggi con degli scrittori e diciamo in qualche modo vedere il Paese di riferimento attraverso due sguardi diversi. Il mio di fotografa e quello dello scrittore. Due sguardi che ovviamente raccontano in maniera diversa. E quindi, ecco, avendo conosciuto per altre strade la casa editrice Quodlibet, ho proposto loro di curare una collana di libri di viaggio. Si tratta di un tema che c’è sempre stato in Italia (poi, anche per questioni economiche, la cosa si è un po’ fermata).

A ogni modo a loro interessava questa idea di collana di libri di viaggio in cui coinvolgere uno scrittore e un fotografo per proporre a entrambi un viaggio insieme. Poi, per motivi vari, questa collana è diventata una casa editrice, il cui nome è un omaggio, logicamente, a von Humboldt…

Fotografia tratta da “Tutta la solitudine che meritate” di Claudio Giunta e Giovanna Silva (Humboldt, 2014)

 

Posso chiederti, nello specifico, che tipo di motivi?

Diciamo così: io avrei dovuto curare una collana e, anche economicamente, investire tutta me stessa in questa operazione. E quindi volevo che fosse qualcosa di più mio. Una collana di Quodlibet sarebbe sempre rimasta una collana di Quodlibet. E quindi con un socio che si chiama Alberto Saibene abbiamo fondato una casa editrice e però abbiamo deciso di fare libri in co-edizione con Quodlibet. Questi, specifici, di viaggio.

Parlami un po’ di questi libri.

Sono libri che partono sempre dallo scrittore. È lo scrittore a proporre un Paese. Poi, a seconda del Paese, scegliamo un fotografo che possa avere un occhio adatto. Saibene si occupa della parte relativa alla scrittura, mentre io di quella fotografica. In più vado in viaggio.

Il primo libro è stato sull’Etiopia. In questo caso, Vincenzo Latronico – lo scrittore – voleva andare in Etiopia perché lì era nata la madre, come molti italiani. Poi nel ’74, con la rivoluzione del Derg era tornata in Italia, e lui è nato e cresciuto con questo mito dell’Etiopia ma non c’era mai stato. Come fotografo ho pensato che fosse adatto Armin Linke, sia sul paesaggio sia sull’architettura di Addis Abeba. Uno sguardo molto razionalistico e interessante. E quindi siamo partiti insieme. Però ovviamente, tutto il viaggio, viene organizzato da noi. Certo, lo scrittore ha delle suggestioni ma sono io, dal punto di vista pratico, a curare tutti i libri. In più c’è tutta una parte editoriale che curiamo con la casa editrice, cioè la parte che è di approfondimento sul Paese. E quindi mi è utile andare in viaggio. Oltre al fatto che mi piace. Faccio questa cosa anche per viaggiare e non, diciamo così, “in stile vacanza”. Cioè viaggio con uno scopo preciso. Quindi, ecco, c’è questo primo libro che è sull’Etiopia, mentre il secondo è sulla Grecia. Qui lo scrittore è Dino Baldi, un grecista che ha pubblicato due libri con Quodlibet – Morte favolosa degli antichi e poi la traduzione dell’ Anabasi di Senofonte che, tra l’altro, è il libro di viaggio per eccellenza – mentre la fotografa è Marina Ballo Charmet, in questo caso scelta perché mi sembrava avesse un occhio più di ricerca piuttosto che di spettacolarizzazione di quello che può essere la “grecità”. E poi il terzo libro che è sull’Islanda, perché nel frattempo avevo letto di Claudio Giunta Il paese più stupido del mondo – il suo reportage di viaggio dal Giappone – e mi era piaciuto, e lui per vari motivi ha passato lungo tempo in Islanda, perché insegnava Dante all’Università di Reykjavik (Giunta è un dantista). Sai poi, ho conosciuto un sacco di islandesi lì che parlavano perfettamente italiano, ma come se fossero usciti dall’epoca di Dante! Inoltre, come in questo caso, andare nel Paese con uno scrittore che già conosce i posti e ha dei contatti è un’altra cosa. Spesso mi viene contestato – ed è giusto – che questi libri di viaggio si risolvono in una permanenza che, bene o male, può durare un mese. In un mese non conosci il Paese. Però se ci sei stato più volte puoi integrare le tue conoscenze.

Ora, l’Islanda è un Paese che mi ha sempre affascinato e siccome non c’ero mai stata, be’… alla domanda su chi potesse essere il fotografo o la fotografa ideale non ho potuto che rispondere: c’est moi! Siamo perciò partiti, io e lui, per il classico giro dell’isola (c’è solo una autostrada, la numero 1, che fa il girotondo, e te puoi solo decidere se farla in senso orario o antiorario).

Copertina Islanda

Mi interessa ora capire della tua fotografia, facendo magari riferimento all’inserto visivo di questo libro sull’Islanda. Come hai lavorato nella scelta tematica e com’è stato il tuo approccio? Di conseguenza: qual’è la tua idea di fotografia? In relazione anche ai tuoi gusti, le tue passioni.

Guarda, per me la fotografia è un mezzo narrativo – nel senso che dico una cosa che magari contraddico fra un anno – ma non riesco a vedere la mia fotografia con una singola immagine. Faccio degli esempi. Armin Linke e Francesco Jodice producono delle bellissime foto che poi stampano e appendono alla parete. Senza banalizzare il loro lavoro, è chiaro, ma per rendere l’idea. A me, in realtà, non viene da agire così. Penso sempre alla fotografia come a un modo per raccontare una storia e quindi, per me, è la sequenza delle fotografie a funzionare, non la singola immagine. Io, al di là della casa editrice, ho lavorato a dei libri di fotografia, e la fotografia per me è sempre funzionale a raccontare una storia. Per cui il lavoro principale non è al momento dello scatto, ma nell’editing, tanto più in un’epoca in cui mi capita spessissimo di lavorare in digitale, e per cui torni a casa e hai mille foto e a quel punto, di queste mille foto ne devi scegliere sessanta e…

Scusa se ti interrompo. Ma si può dire quindi che c’è alla base del tuo lavoro fotografico l’idea di montaggio, giusto?

Sì, assolutamente. Tra l’altro questa cosa, se vuoi, puoi associarla a uno scritto molto bello di Didi-Huberman su Harun Farocki [lo scritto a cui Giovanna Silva fa riferimento è probabilmente “Rendere un’immagine”, che si può leggere nella traduzione italiana in «Aut Aut», n. 348], che spiega bene la priorità – in modi diversi – del montaggio. E quindi per me si, il montaggio delle immagini è più importante della singola fotografia. E infatti nell’editing mi capita spesso di scartare delle foto che sono magari più belle ma che però all’interno della sequenza narrativa non raccontano qualcosa…

Quindi si può dire che tu pensi “per montaggio”, non per immagine?

Sì, assolutamente. All’inizio separavo le fasi scatto e editing. Adesso invece già scatto con in mente l’immagine prima e quindi cerco l’immagine dopo. Cioè, so già cosa ho in mente e cosa devo andare a ricercare. Poi, nel caso specifico dell’Islanda, c’è da dire che qualsiasi persona dotata di un minimo di occhio può fare delle foto splendide. Perché la natura è talmente bella e quindi è più facile fare delle belle foto. E ovvio però poi che mi sono subito scontrata col problema che la bella foto, in Islanda, fa subito cartolina. E non volevo che diventasse una sequenza di belle cartoline, perché avevo paura che fosse un po’ riduttivo. Perciò ho cercato di creare questa “storia del paesaggio” per come quello che, per me, è l’Islanda: un enorme parco-giochi della natura. Tu ti svegli un giorno, in Islanda, e sei magari su un ghiacciaio, e dopo due ore sei invece in mezzo a un deserto rosso…

[Arriva un amico comune.

La conversazione s’interrompe, poi riprende…]

[…] questa sequenza di immagini – in tutti i libri c’è questo trentaduesimo di foto a colori – e quindi devi avere delle immagini, e ogni fotografo decide come fare l’editing. Per esempio – per citare il libro sull’Etiopia – Armin Linke scelse di optare per un ordine cronologico delle foto (da Gibuti ad Addis Abeba, lungo una linea retta che era la ferrovia).

Fotografia tratta da “Tutta la solitudine che meritate” di Claudio Giunta e Giovanna Silva (Humboldt,, 2014)

 

Vorrei fare ora una piccola digressione, per integrare il discorso. Mi parli dei tuoi libri da fotografa? Una rapida “carrellata” se vuoi: come sono nati, e magari se c’è qualcuno di questi a cui, oggi, sei più affezionata (e se sì, perché).

I miei primi due libri, Orantes e Desertionssono frutto di una collaborazione con Amedeo Martegani, artista ed editore. È stato lui il primo a spingermi a fare qualcosa di mio. Sono dei libri a cui sono affezionata anche se molto diversi, perché già in questi si coglie un aspetto credo importante del mio lavoro, il montaggio. Orantes è concepito come una serie di ritratti alle persone còlte durante il momento della preghiera, le fotografie sono montate a cavallo tra una pagina e l’altra, costringendo il lettore a rincorrere la fotografia intera. Desertions è la cronaca di un mio viaggio nei deserti americani con il designer Enzo Mari. Doveva risultare come un montaggio di immagini di un film mai girato. Non c’è stato editing.

Ora invece quello che mi impegna di più è una serie di libri sui Paesi “in guerra” che sto realizzando con la casa editrice Mousse. Ognuno è concepito però come un progetto a sé. Il primo, su Baghdad e il suo antecedente storico Babilonia, è stampato in rotativa. Le immagini che abbiamo di quei Paesi sono spesso legate ai giornali. Il secondo è sulla Libia. Ho fatto un viaggio da Bengasi a Tripoli documentando tutti i palazzi e i monumenti di Gheddafi andati distrutti. Ogni foto è intervallata da una piccola cronistoria, e il libro, in inglese e arabo, è palindromo, può essere letto in entrambi i versi. Nel 2015 uscirà il prossimo su Cipro, sulla divisione tra parte greca e parte turca.

E le tue mostre, e il lavoro per la Biennale Architettura? Me ne parli?

Non sono interessata a fare delle mostre. Non so perché, a meno che non implichino un lavoro di ricerca. Mi rendo conto che il formato finale che ho in mente è sempre il libro. Quest’anno sono stata invitata alla Biennale di Architettura di Venezia e mi hanno chiesto un lavoro fotografico sulle discoteche italiane. In realtà è stata più una ricerca d’archivio, ho intervistato architetti, dj, clubber, per documentare la scena italiana dagli anni Sessanta a oggi. Il risultato è contenuto in 30.000 freepress che i visitatori potevano prendere e portarsi a casa.

Vorrei tornare ora al discorso sull’Islanda, quando hai parlato del “rischio” dell’effetto cartolina. Qual è stata la strategia mentale/tecnica per evitare di cascarci?

In realtà credo di non averlo evitato a trecentosessanta gradi. Ho pensato a questa idea di “parco-giochi”, cioè quello che per me rappresenta l’Islanda. Ai suoi paesaggi quindi, che sono bellissimi ma anche più violenti di quanto si possa immaginare. La cartolina non corrisponde alla reale immagine che hai.

Spiegati meglio.

In realtà l’Islanda è un Paese, diciamo… non “pericolosissimo” – la parola mi sembra eccessiva – ma comunque con una natura violenta. Sai, spesso si legge che le uniche morti accidentali in Islanda sono perché una persona si perde, e tu lì puoi non incontrare nessuno per tre giorni, e sei magari su un ghiacciaio o comunque in mezzo al nulla. Quindi: pericolosa per questo. Ha quest’aria bellissima e travolgente però può succedere di avere un attimo di leggerezza, di allontanarsi troppo da un itinerario sicuro e… niente. A quel punto la natura è la natura. È come quando nuoti e vai al largo, sovrappensiero. Dici: ma che bello. Ma poi non riesci a tornare indietro, perché c’è la corrente.

Tornando al lavoro fotografico sull’Islanda, posso dirti che è stato un lavoro basato su una struttura a dittico, dove anche se il paesaggio cambia le forme comunque si ripetono. Mentre altri lavori fotografici che ho realizzato sono più sulla storia – quello della Libia è per esempio semplicemente un viaggio che racconta la storia dell’ascesa e caduta di Gheddafi – nel caso dell’Islanda il tutto è stato una composizione molto più formale. Cosa che per certi versi non mi appartiene. Ma lì, ecco, ci stava.

Dici così perché…

Perché altrimenti sarebbe stato difficile. A un certo punto, cioè all’inizio, pensavo di fare un lavoro più sul ruolo che aveva avuto l’Islanda nella Storia. Passione per Bobby Fischer a parte, è anche – per esempio – il luogo dell’incontro tra Reagan e Gorbaciov. Però, questo punto di vista è difficile sostenerlo appena esci da Reykjavik. Dopo la capitale, non c’è più niente. Cioè, se fai un lavoro su Reykjavik, puoi fare queste cose, altrimenti è dura. Quindi il mio tentativo è stato quello di focalizzare l’attenzione sul paesaggio. L’Islanda è paesaggio.

Fotografia tratta da “Tutta la solitudine che meritate” di Claudio Giunta e Giovanna Silva (Humboldt, 2014)

 

Hai comunque un tuo archivio di immagini scattate e non considerate per il libro, no?

Sì, alcune sono comunque anche infra-testo. La casa dove si incontrarono Reagan e Gorbaciov, per dirne una. C’è nelle immagini (ma qui non ho voluto mettere di proposito didascalie, e quindi se uno non lo sa pensa che sia una normale casa islandese). La tomba di Bobby Fischer, invece, che siamo andati a cercare fuori Reykjavik, rientra nel testo – e sai, il libro funziona che c’è una parte fotografica a colori che è indipendente dal testo, e poi ci sono delle immagini in bianco e nero che sono invece didascaliche al testo. E siccome a un certo punto Claudio Giunta parla di Fischer, ecco che abbiamo pensato di inserire l’immagine della tomba.

Però, sì, all’inizio pensavo di fare un lavoro su Bobby Fischer e di quello che l’Islanda ha rappresentato come territorio “neutro” per l’incontro tra Reagan e Gorbaciov. Ma non reggeva. Sarei stata troppo estrema nel mio tentativo di non fare delle cartoline ma l’Islanda, come detto, non è quello.

È la natura. Qualcosa di applicabile anche a altri Paesi nordici, se vuoi.

Sì. Aggiungo anche una cosa, e si fa per chiacchierare. Quando mi sono trovata a fare questo lavoro, siamo andati anche alle Isole Westman, dove Chris Marker ha girato una parte di Sans Soleil (1983). Volevo ricollegarmi al film.

Parli della sequenza dei tre bambini…

 Sì, esatto. Il film è sul Giappone e l’Africa. Ma lui, Marker, alla notizia di una eruzione vulcanica sul posto, ci passò, si fermò e filmò quello che ora vediamo nel film. Le Isole Westman sono incredibili perché rappresentano bene – secondo me – la mentalità dell’islandese. Un’isola fu completamente cancellata dalle ceneri, il territorio fu quindi evacuato ma appena la situazione tornò alla normalità, loro – gli abitanti locali – ritornarono alla loro terra. C’è quindi un radicamento al territorio molto forte. Però anche in questo caso, se ci pensi, sarebbe stato un qualcosa di troppo parziale. Voglio dire: fare un lavoro fotografico sulle Westman con tutti i riferimenti filmici, rispetto al progetto di un libro di viaggio sull’Islanda.

Ora mi viene da chiederti una curiosità. Ci sono fotografi che ti piacciono particolarmente?

I gusti cambiano. Quando avevo vent’anni e ho iniziato a fare fotografia le fotografie che mi interessavano erano quelle di Francesco Jodice, o Armin Linke. Insomma, chi crea la singola immagine. Adesso mi interessa di più un discorso come quello di un Wolfgang Tillmans, anche se magari non è la fotografia che fa per me, perché lui fa questi grossi libri in cui mette insieme delle foto ed è proprio l’unione delle foto a creare una storia. Però, ecco, se devo dire alla fine qual è il fotografo a cui in questo momento vorrei assomigliare direi che è Wolfgang Tillmans.

Ultima domanda. La tua esperienza in Islanda ti ha fatto venire fuori una curiosità verso il Nord, a livello astratto o concreto, oppure è da considerarsi come un qualcosa di finito col viaggio e il soggiorno nell’isola?

Sì, mi ha aperto degli interessi. E guarda, ti dirò: io ero felice in Islanda. Magari è poco precisa l’associazione col termine “violenza”, perché è vista in qualche modo in maniera negativa… ma, ecco, è così. Io ho studiato architettura, e per molti anni della mia vita mi sono occupata di città con più di dieci milioni di abitanti. Per noi architetti – avendo studiato architettura, mi considero tale – città come Tokyo o Bangkok piacciono, ma sono città che ti provano fisicamente. Mentre la bellezza e la desolazione – quest’ultimo termine lo intendo, qui, in senso positivo – di cui ho fatto esperienza in Islanda sono un qualcosa che mi è piaciuto moltissimo. E anche se ho in merito poca esperienza, credo anche altri Paesi nordici debbano avere la forza di darti queste sensazioni. Grandissimi paesaggi. Vuoti. E questo vuoto mi è molto piaciuto. Mi interessa. Direi di sì.

Fotografia tratta da “Tutta la solitudine che meritate” di Claudio Giunta e Giovanna Silva (Humboldt, 2014)

P. S. A poco più di un mese di distanza, rileggendo il pezzo, l’intervistatore si accorge che le sue domande, qui, hanno coperto quasi tutti gli aspetti del lavoro dell’intervistata (quasi tutti fra quelli a lui noti). Forse ne mancano due: lo si dice per correttezza di informazione.
Non si è domandato nulla, in effetti, su San Rocco, che è un giornale di architettura di qualità dove l’intervistata figura nel board editoriale.
Idem per Peninsula Hotel, che è un progetto molto particolare sul Made in Italy.
Poco male comunque, magari di entrambi se ne parlerà in futuro, o magari no (certi vuoti sono belli, si sa).

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