Le “ragioni” dello Stato tra politica ed economia

Una recensione a “Machiavellismo e ragion di stato” di Michel Senellart (a cura di Lorenzo Coccoli, ombre corte 2014)

Fino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, sul tema della “ragion di Stato” ha regnato un paradigma interpretativo che vedeva in Machiavelli il primo teorico moderno di una concezione demoniaca e tirannica del potere. Tale paradigma interpretativo aveva come punto di riferimento il testo di Friedrich Meinecke, pubblicato nel 1924, dal titolo significativo Die Idee der Staatsräson in der neuren Geschichte, secondo il quale Machiavelli sarebbe stato il primo teorico ad aver fondato la politica di potenza dello Stato moderno sull’opposizione tra ethos e kratos, inaugurando così una lunga tradizione di pensiero nota appunto sotto il nome di ragion di Stato.

Non di questo avviso è il testo di Michel Senellart, Machiavellismo e ragion di Stato, ormai un piccolo “classico” della storia del pensiero politico (l’edizione francese è del 1989), che la casa editrice ombre corte di Verona ha recentemente proposto nella ritraduzione curata da Lorenzo Coccoli. Inserendosi all’interno di un filone di ricerca ormai consolidato, Michel Senellart persegue l’obiettivo di «sciogliere il rapporto di filiazione comunemente stabilito tra le tesi del segretario fiorentino e l’idea della ragion di Stato, al fine di riesaminare daccapo il ruolo giocato da quest’ultima nella formazione del pensiero politico moderno» (p. 11).

Cerchiamo di evidenziare quali sono i punti di forza di questo testo.

Le origini di un equivoco

Nel tentativo di realizzare una «storia dello storicismo», Meinecke aveva visto in Machiavelli il primo teorico ad aver concepito il problema dello Stato all’interno delle condizioni storiche dettate dagli imperativi e dalle necessità del “presente”. Pensando al Principe come al soggetto del comando politico che agisce nelle cangianti condizioni imposte dalla «fortuna», Machiavelli avrebbe introdotto la dimensione storica all’interno della vicenda dell’affermazione dello Stato moderno, offrendo una analitica del potere inteso come espressione della potenza capace di arginare i processi degenerativi che minacciano ogni ordine politico. Per rispondere a questa esigenza Machiavelli avrebbe descritto, secondo Meinecke, i connotati di un potere che si sottrae a ogni vincolo morale, poiché obbedisce all’unica regola da esso riconosciuta: l’espansione della potenza in vista della propria conservazione in quanto organismo politico. Come affermava Meinecke, «la ragion di Stato è la norma dell’azione politica, la legge motrice dello Stato. Essa dice all’uomo di governo ciò che egli deve fare per conservare lo Stato vigoroso e forte, e poiché questo è formazione organica, che mantiene tutta la sua forza soltanto se capace di crescere ancora in qualche maniera, la ragion di Stato indica pure di questo sviluppo le vie e la meta» (F. Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Firenze 1977, p.1). È così che il cortocircuito tra la dimensione politica della forza e quella morale della giustizia si sarebbe insinuato all’interno dello sviluppo dello Stato moderno come Stato di potenza. Alla «cattiva» ragion di Stato di Machiavelli, fondata sul presupposto che lo Stato possa usare ogni mezzo in vista della propria conservazione, Meinecke opponeva il tentativo di una «buona» ragion di Stato, con il compito di fornire al potere statale quei parametri morali di giustizia senza i quali sarebbe stato impossibile correggere la perpetua e costante eccedenza della forza sul diritto.

Meinecke poggiava la sua interpretazione su quello che è stato un equivoco di lungo corso, conseguenza dello scandalo imposto al pensiero politico medievale dall’evento-Machiavelli. Machiavelli è stato infatti a lungo il nome dato a un evento mostruoso che ha sciolto l’esercizio del potere politico da ogni laccio che lo vedeva subordinato alla dimensione religiosa e morale. Equivoco di lungo corso perché data il suo inizio a partire dall’accoglienza che al pensiero di Machiavelli riservarono i suoi contemporanei, divisi tra chi intendeva denunciarne lo scandalo (tra cui il cardinale cattolico inglese Reginald Pole, il quale non esitò ad affermare che Il Principe era stato scritto con il «dito di Satana») e chi invece vi vedeva svelato l’enigma del potere (si pensi al dibattito francese succeduto alla sanguinosa Notte di San Bartolomeo, che divise la Francia tra sostenitori e avversari del presunto “machiavellismo” di Caterina de’ Medici e del sovrano Carlo IX). A partire dalla morte del suo autore, Il Principe è diventato quindi l’archetipo di un potere politico che non conosce altre leggi da quelle immanenti al proprio esercizio: inganno, tirannia, violenza, vengono da quel momento in poi associati al nome del segretario fiorentino. Machiavelli diventa così sinonimo di ciò che di più impronunciabile risiede nell’esercizio potere, della sua più diabolica e feroce espressione. A partire da questo equivoco fondamentale, il contributo di Meinecke non faceva altro che congiungere i fili del pensiero machiavelliano con la riflessione teorica sulla ragion di Stato, che tanta influenza doveva avere nel soppiantare le dottrine del diritto naturale all’interno dello sviluppo di una “scienza dello Stato”.

Il machiavellismo dopo Machiavelli

Tra i meriti principali del libro di Michel Senellart c’è senza dubbio quello di chiudere i conti con questa lunga tradizione interpretativa. Secondo Senellart, infatti, è stato il machiavellismo a generare il mito di Machiavelli come teorico della tirannia e della violenza che sempre accompagna l’esercizio del potere. Figlio illegittimo di un padre orfano, il machiavellismo si instaura infatti, secondo Senellart, all’interno di una incomprensione fondamentale del pensiero machiavelliano. Incomprensione che accompagnerà la ricezione di Machiavelli lungo tutto il corso della storia moderna (fino ad arrivare a Rousseau, il quale, constatando le aporie presenti tra i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e Il Principe, interpreterà quest’ultimo come il «libro dei repubblicani»). Per sciogliere il legame di filiazione tra Machiavelli e il machiavellismo, Senellart ci offre una breve ma significativa disamina riguardante quello che è il punto centrale della tematica del Principe. Se è vero infatti che il testo fonda la propria argomentazione sulla rottura con l’idea dell’esistenza di un ordine normativo trascendente, al quale l’agire del principe dovrebbe – secondo la tradizione teologica medievale – conformarsi, è tuttavia altrettanto vero che questa rottura si colloca sul crinale del problema politico fondamentale che il segretario fiorentino trova dinnanzi a sé: la fondazione di uno Stato unitario in un Italia divisa e che rischia la perpetua occupazione da parte degli Stati confinanti. La «rigenerazione dell’antica virtù repubblicana del popolo italiano» (p. 61) è infatti lo scopo al quale deve piegarsi l’azione dinamica del principe.

È nell’oblio di questa massima fondamentale, che sorregge l’impianto del pensiero di Machiavelli, che il discorso del machiavellismo andrà a collocarsi. L’ambizione del Principe, infatti, non si risolve nel mero desiderio di regnare in base al proprio capriccio, ma nel saper collocare il proprio agire nella contingenza, per conseguire l’obiettivo di creare un «principato nuovo». La «necessità», come ci fa giustamente notare l’autore, è uno dei concetti cardine del pensiero di Machiavelli: l’azione del principe deve costantemente fare i conti con la natura mutevole delle cose e degli accadimenti, con una dinamica politica perennemente esposta agli imprevisti delle passioni e dei comportamenti degli individui. Di fronte a questa situazione – e contro l’interpretazione che invece ne daranno gli avversari del machiavellismo – la politica di Machiavelli integra il problema dell’innovazione nel campo dell’azione del principe (Cfr. G. Borrelli, Non far novità: alle radici della cultura italiana della conservazione politica, Napoli, Bibliopolis, 2000). Se la guerra dev’essere, infatti, come ricorda Senellart, l’«unico pensiero del Principe», se il compito del Principe è quello di «decifrare i segni di una guerra perpetua nel silenzio della quiete pubblica» (p. 55), è perché la guerra svolge nel pensiero di Machiavelli la funzione fondamentale di contrastare la corruzione delle virtù civiche, che sole possono sorreggere l’immane sforzo del rinnovamento costante dello Stato politico. Tra innovazioni e conflitti, il pensiero machiavelliano si nutre quindi della tensione positiva e costituente del politico, di cui egli rivendica con forza l’autonomia.

Date queste premesse, risulta chiaro quindi che, come afferma Senellart, «il pensiero di Machiavelli non può essere ridotto al machiavellismo» e che «quest’ultimo è un’invenzione dei suoi avversari, un mito forgiato nel XVI secolo non tanto per attaccare l’autore del Principe quanto per combattere, attraverso di lui, una certa pericolosa figura del potere – quella del nemico, ugonotto o cattolico che fosse» (p. 49). È stata quindi la reazione a Machiavelli a generare il machiavellismo come sinonimo di tirannia. In questo senso, le origini dell’idea di ragion di Stato devono essere ricercate riannodando i fili dispersi della reazione al machiavellismo.

Botero e la ragion di Stato

È solo dopo aver demolito l’equivoco, che vedeva in Machiavelli il primo teorico della ragion di Stato, che è possibile comprendere come questa idea, «lungi dal ridursi a una semplice massima di trasgressione del diritto», ha invece «costituito, nell’età classica, l’oggetto di un vasto discorso» (p. 11), in cui non era solo in questione il rapporto tra forza e diritto all’interno di una “situazione di emergenza” – che legittimerebbe il ricorso agli stratagemmi più atroci da parte del detentore del potere – ma anche, più in generale, il problema dello Stato in rapporto alla sua conservazione nelle condizioni dell’ordinario svolgimento delle sue funzioni. Assurta al rango di concetto nel pensiero di un anti-machiavelliano per eccellenza, il gesuita Giovanni Botero (Della ragion di Stato, 1589), in realtà come ci dimostra Senellart tale idea affonda le sue radici già all’interno del pensiero politico medievale, dove, a partire dal Policraticus (1159) di Giovanni di Salisbury, il problema dell’ “eccezione” comincia a essere pensato nella cornice di una ratio status da intendersi in modo completamente diverso da quella che sarà la ragion di Stato moderna. Per ratio status, infatti, il pensiero medievale intendeva la sottomissione del sovrano a un ordine etico sovrastante, che implicava l’applicazione della giustizia come criterio di conservazione del potere. Questa concezione veniva supportata da tutta una letteratura – gli specula principum – finalizzata a istruire il sovrano in merito al rispetto dei suoi doveri verso Dio e verso i sudditi. Solo in casi eccezionali il sovrano poteva trasgredire le leggi divine e naturali che gli imponevano il rispetto della giustizia nell’esercizio del suo potere. Era la necessitas – di derivazione romana – a consentire una sospensione del diritto in nome della conservazione del potere: «Consentendo al principe di dichiararsi legibus solutus, la necessitas spezza, senza però distruggerla, la rigorosa antitesi di re giusto e tiranno. Al posto del rigido confine tracciato della legge, essa apre tra i due uno spazio mobile in cui si fa tacere la legge in nome della salvezza comune. È all’interno di questo intervallo, in continua espansione, che metterà radici e crescerà l’idea di ragion di Stato» (p. 47).

Dopo Machiavelli e in antitesi al machiavellismo, il discorso della ragion di Stato seguirà una linea alternativa al paradigma “guerriero” che era stato fatto proprio dal machiavellismo. In questo senso, Botero sarà il primo autore anti-machiavelliano a spostare l’asse del discorso sulla ragion di Stato in direzione di una nuova razionalità non più guerriera, ma “economica”. Per Botero non si trattava infatti – come fa notare Senellart – di reagire sul piano morale allo scandalo del machiavellismo riportando il pensiero nel solco teologico degli specula principum, bensì di spostare l’asse intorno al quale ruotava la politica machiavelliana: al posto della guerra e di un «potere conquistatore», Botero pensa a una «politica conservatrice», che faccia perno sull’industria e sulla produzione di ricchezza come mezzi pacifici per scongiurare le insidie del politico come luogo del conflitto e della guerra permanente. Ha inizio così il discorso della ragion di Stato moderna, che in Botero si identifica con quel sapere e con quelle tecniche di governo di cui lo Stato necessita per conservare se stesso di fronte alle cause che possono generarne la corruzione. Nonostante la necessità di reagire all’evento-scandalo rappresentato da Machiavelli, le conclusioni di Botero non comportano alcun ritorno al passato. Il problema boteriano della conservazione dello Stato assume fino in fondo la rottura imposta da Machiavelli: lo Stato si conserva non in conseguenza dell’adesione a un ordine stabilito da Dio, che impone al sovrano il rispetto dei suoi doveri di giustizia. Proprio come in Machiavelli – ma con obiettivi assolutamente divergenti – il conatus sese conservandi dello Stato implica infatti per Botero una lotta costante contro le forze che tendono a distruggerlo. A differenza di Machiavelli e del machiavellismo, tuttavia, questa lotta non si nutrirà più di un “sapere di guerra”, ma di un “sapere economico” che punterà sull’accrescimento delle ricchezze, sulla promozione degli interessi e del ben-essere dei sudditi, come mezzo per governare lo Stato e vegliare sulla sua conservazione. Il sapere del Principe deve infatti comprendere la conoscenza dei modi migliori attraverso i quali promuovere la ricchezza e il benessere dei sudditi, poiché, come afferma Botero, se la ragion di Stato altro non è che «notitia de’ mezzi atti a fondare, conservare et ampliare un dominio», essa è anche e innanzitutto «ragion d’interesse», che promuove la stabilità politica tramite la presa in carico, da parte dell’arte di governo, delle occupazioni e delle attività degli individui.

Seguendo l’interpretazione di Michel Senellart, con Botero il pensiero politico entra nel solco di quella forma del potere che Michel Foucault ha definito come «governamentale». D’ora in poi, la ragion di Stato mercantilistica aprirà le scienze dello Stato a nuovi oggetti del sapere e a nuovi campi di applicazione del potere che vedranno nell’economico l’asse centrale del loro sviluppo. Destinata all’oblio dalla critica dell’arte di governo che sarà formulata dagli economisti del XVIII secolo, il tema della ragion di Stato continuerà tuttavia ad assillare la vicenda dello Stato moderno, anche nelle sue varianti democratiche e liberali, arrivando fino ai giorni nostri (nella continua riproposizione, sul piano globale, di politiche emergenziali) e dimostrando come l’indagine sulle sue origini possa contribuire a comprendere molti nodi irrisolti del presente.

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