Politica e mafia vent’anni dopo Tangentopoli

Le organizzazioni mafiose italiane sono classificabili (anche) come agenzie politiche che producono effetti sull’economia e sulla società. Le relazioni corruttive rappresentano lo strumento principe attraverso cui le mafie entrano in contatto con i poteri dello Stato, centrali e locali.

Gli autori anticipano uno studio di prossima pubblicazione.

In Italia la permeabilità dell’azione politica alla criminalità episodica e organizzata ha maturato livelli preoccupanti. I dati diffusi dall’ultimo rapporto di Transparency International, oltre a mostrare l’altissima percezione che nel nostro Paese si ha dei fenomeni corruttivi, lasciano intendere che il problema vada affrontato su un piano culturale, oltre che legislativo.[1] L’opinione pubblica italiana appare sempre più rassegnata alle dinamiche corruttive e alla presenza delle mafie. E non mostra più sconcerto per un Paese il cui debole sviluppo economico sembra determinato da manovre illecite e criminali più che da azioni politiche.

Vent’anni fa, le indagini del pool di magistrati milanesi misero a nudo il formidabile sistema tangentizio che legava partiti politici e imprese. La stampa raffigurava l’Italia come una Tangentopoli la cui macchina pubblica non partiva se l’impresa non versava una tangente. La generalità delle azioni illecite e criminali, la cui regia era diretta dai più importanti partiti politici, aveva portato Bettino Craxi, il 3 luglio 1992, a pronunciare il famoso discorso in Parlamento. Quello in cui l’ex presidente del consiglio descriveva un sistema di finanziamento politico pervaso da irregolarità e pratiche illecite. In quel discorso, lo statista chiese ai suoi colleghi di alzarsi e giurare di non aver mai ricevuto risorse in forma irregolare o illegale per finanziare le attività dei partiti. Ovviamente nessuno si alzò o protestò per quelle affermazioni.[2]

Nello stesso anno in cui il “mariuolo” Mario Chiesa iniziava a parlare della Tangentopoli italiana, la mafia siciliana aveva ricevuto il più grande colpo giudiziario della sua storia, con le condanne definitive del maxiprocesso di Palermo, arrivate nel gennaio del 1992. Due mesi dopo venne ucciso Salvo Lima: i vertici di Cosa nostra lanciavano l’offensiva al maggior partito di governo, con cui da tempo intratteneva rapporti di reciproca utilità.

La mafia siciliana iniziava così la sua fase stragista rispondendo allo Stato repressore con due colpi che produssero un’eco maggiore dei processi: le morti dei giudici Falcone, Borsellino e delle loro scorte. Quell’anno, l’anno della magistratura, dei partiti corrotti, delle morti eccellenti, della società civile intorpidita dai consumi che si riscopriva attiva, quel 1992 ha inesorabilmente avvicinato due fenomeni paralleli, distinti ma non sempre così distanti: le organizzazioni criminali e i fenomeni corruttivi. La Repubblica aveva l’obbligo di cambiare nella forma e nella sostanza un sistema politico che rischiava di implodere. Le mafie pure, fermando l’ondata di violenza voluta dai capi di Cosa nostra che dopo l’arresto (o la consegna?) del boss Riina, avevano deciso di cambiare rotta.

Le stragi di mafia proseguite fino al 1993 e le cronache sulle inchieste di Tangentopoli, procurarono diversi effetti. Da un lato avevano influenzato scelte politiche imminenti, confermando l’atteggiamento altalenante (e schizofrenico) di uno Stato che, nei confronti delle radicate aree di illegalità, ondeggiava tra momenti di dura repressione e periodi di ampia tolleranza. D’altro canto, quei fatti così cruenti avevano unito ampi strati della società italiana verso obiettivi comuni. Per la prima volta cittadini, magistratura e classe politica sembravano camminare nella stessa direzione, per liberare il Paese dalle mafie e dal peso della corruzione politico-economica.

La nascita della seconda (?) Repubblica, coincidendo con la fine del periodo stragista, ha solo messo sotto il tappeto i due fenomeni. La presenza delle mafie nella vita del Paese e della corruzione nei gangli della vita pubblica non sono feticci che appartengono al passato. I due problemi hanno cambiato pelle, hanno seguito logiche nuove, soprattutto dopo il ricambio dei partiti politici travolti dalle inchieste. Mafie e potere politico non hanno mai smesso di parlarsi. Hanno solo cambiato codici linguistici.

A nostro avviso è lecito chiedersi come sia cambiata l’azione delle mafie a più di vent’anni dall’attacco frontale allo Stato. È noto che dal 1994 la politica di Cosa nostra siciliana chiude la breve fase “eversiva” per riprendere la consolidata “strategia della sommersione”.[3] Le famiglie mafiose frenano di colpo le attività terroristiche. Lo stesso sembrano fare le camorre campane, decimate dagli arresti e sfiancate dagli omicidi incrociati. Nello scenario mafioso, solo le ‘ndrine calabresi restano decisamente più aggressive.

Tendenzialmente le mafie cercano di mantenere un basso profilo, limitando le azioni eclatanti fin dove è possibile, per evitare sovraesposizioni mediatiche. Così, il grado di violenza esercitato dalle organizzazioni criminali italiane nella seconda Repubblica diminuisce notevolmente, ma di certo non scompare. La violenza resta uno degli aspetti centrali delle mafie, ma limita gli attacchi frontali allo Stato. D’altronde è fin troppo chiaro che le azioni eclatanti provocano dure reazioni dei governi e della società civile.

Anche lo Stato opera un significativo, seppur lento, processo di cambiamento. Dalla metà degli anni Novanta la pubblica amministrazione avvia una serie di riforme in senso federale. Gli enti locali iniziano a godere di maggiore potere decisionale e vedono diversificate competenze e funzioni proprie. Le regioni acquisiscono più ampio potere legislativo e di spesa, i comuni un maggiore potere esecutivo dei sindaci e amministrativo dei dirigenti. Così una quota maggiore dell’economia pubblica si sposta dal livello centrale dello Stato a quello territoriale delle regioni e dei comuni. Il sistema sanitario, la formazione professionale, le politiche del lavoro e quelle ambientali, gli interventi e i servizi sociali diventano funzioni regolate in via esclusiva dalle regioni. A guardarla bene, la corruzione non ha bisogno delle mafie per esistere: non è detto che dove c’è corruzione ci sia anche mafia. Ma di certo tra le modalità di relazione che le mafie instaurano con il mondo politico ed economico, l’azione corruttiva è lo strumento privilegiato. D’altronde l’amministrazione della cosa pubblica rappresenta uno dei canali più permeabili al potere mafioso.

Per comprendere le dinamiche economiche mafiose nei confronti del potere politico, nella moltitudine di dati a disposizione dei ricercatori sociali, appare di fondamentale importanza il piano amministrativo. Come ha già evidenziato qualche anno fa Vittorio Mete, i decreti di scioglimento sono una interessante fonte per osservare i rapporti tra amministrazioni pubbliche e organizzazioni mafiose.[4]
Non c’è dubbio che le mafie radichino i loro interessi nelle economie locali, prima di proiettarli verso i mercati globali. Nella formazione di capitale sociale i rapporti faccia a faccia sono essenziali, come lo sono i territori su cui si esprime potere e controllo: al Nord o al Sud del Paese. Le norme, le procedure, le articolazioni della pubblica amministrazione sono dati indispensabili per comprendere le dinamiche mafiose.

In questo senso i decreti di scioglimento per infiltrazione mafiosa degli enti locali offrono un’importante fonte di informazioni per i ricercatori, almeno per tre ordini di motivi:

1. Osservando la quantità e la distribuzione geografica degli scioglimenti nel Paese si scopre ciò che mai è stato scontato e occorre ancora oggi ribadire. Le mafie non sono un problema esclusivo del Sud. Dal 1991 a oggi 253 enti locali sono stati sciolti per infiltrazione mafiosa (senza contare i provvedimenti di proroga). E non è un caso se le ultime richieste di accesso sui comuni sospettati di infiltrazione sono state avanzate dalle Prefetture di Milano e Roma.

2. La mole di dati contenuti nei decreti (e soprattutto negli allegati) rappresentano una base fondamentale per comprendere l’evoluzione dei rapporti tra amministratori pubblici, mafie e imprese. Le modalità in cui si esprimono le connivenze, le forme assunte dalla corruzione a livello locale fanno emergere le tendenze comuni e le differenze tra le mafie italiane, prima e dopo la seconda Repubblica.

3. Gli ambiti e i settori economici oggetto di infiltrazione mafiosa aiutano a comprendere come cambiano nel tempo gli interessi delle organizzazioni criminali. Dopo le inchieste di Mani pulite, lo Stato ha modificato la sua macchina organizzativa. E le mafie non sono certo state a guardare. I settori economici che gli enti locali amministrano in via esclusiva sono mutati negli ultimi due decenni. Sanità, assistenza, servizi ambientali, formazione professionale sono settori sui quali gli interessi delle mafie si sono consolidati, superando altri ambiti tradizionali come l’edilizia.

In linea generale, osservando la totalità degli scioglimenti in ottica longitudinale, è facilmente osservabile un atteggiamento meno conflittuale delle mafie a livello locale. Nell’ultimo decennio sono notevolmente diminuiti gli atti intimidatori e violenti contro amministratori locali, mentre sono aumentati rapporti di collusione e di frequentazione. Lo strumento corruttivo sembra aver decisamente superato quello violento con l’avvento della seconda Repubblica.

La crisi politica italiana della metà degli anni Novanta ha provocato l’indebolimento di legittimità dei partiti ma anche sulla lunga catena degli stakeholders. Dopo una battuta d’arresto provocata dalle numerose inchieste, nel terzo millennio i fenomeni corruttivi sembrano essere diminuiti in quantità ma non per qualità. L’allarmante denuncia del procuratore della corte dei conti Giampaolino, del 2012, testimonia quanto sia necessario ancora oggi intervenire sul fenomeno corruttivo in maniera preventiva oltre che repressiva.[5]

La ricerca sociale può evidenziare le variabili utili alla comprensione di fenomeni così vasti e complessi. La dimensione locale dell’economia pubblica può aiutare a rendere più nitide le aree grigie dove classe politica, classe imprenditoriale e poteri mafiosi convergono nelle dinamiche illecite e criminali.

Note

[1] In questo senso si esprimeva già nel 2008 il rapporto sull’Italia adottato dal Gruppo di Stati contro la Corruzione (GRECO), Cfr. pag. 30.

[2] Per la versione integrale del testo cui ci riferiamo: Fondazione Craxi.

[3] Tra i tanti vedi La Spina Antonio (2005), Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna.

[4] Mete Vittorio (2009), Fuori dal Comune, Bonanno, Acireale.

[5] Ci riferiamo alla Relazione orale del Presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012 e alla Relazione sull’attività svolta nell’anno 2011, consultabili qui.

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