Spazzolare la storia attraverso i film non fatti

“La tela strappata” (Frontiere oltre il cinema) di Alessio Scarlato.

Attorno ai film non fatti esiste un’ampia bibliografia, perlopiù legata alle biografie dei registi che non sono riusciti a portare a termine alcuni dei loro progetti e alle vicende produttive di questi ultimi, che La tela strappata cita e riprende. Ma la particolarità del libro di Scarlato sta nella capacità di andare alla ricerca delle tracce lasciate da questi film, dei brandelli di pellicola e del materiale preparatorio per portare alla luce una storia sommersa del cinema.

Quella redatta da Scarlato è forse una contro-storia del cinema interessata alle capacità creative di registi sempre alla ricerca di vicende e di immagini, la cui visionarietà travalica i confini del mondo che vorrebbero rappresentare e si infrange contro le difficoltà economiche, politiche, produttive, e  sensibile alle possibilità immaginative dello spettatore che accetta la sfida di provare a montare i frammenti di un’opera aperta.

Come scrive l’estetologo Pietro Montani nella sua prefazione al libro «Non si tratta solo […] di una storia dei film non fatti, ma anche – e forse soprattutto – della Storia nei film non fatti» (p. V). Nelle vicende che hanno portato al fallimento di un film si cela dunque l’attrazione del cinema nei confronti delle vicende storiche e al contempo le regole e i limiti del dispositivo cinematografico.

Non è un caso se il libro prende le mosse dal Don Chisciotte di Orson Welles e in particolare da una sequenza girata negli anni Cinquanta e poi dimenticata dal montaggio che Jesús Franco ha realizzato per l’Exposición Universal di Siviglia nel 1992. Come molti dei progetti di Wells anche il Don Chisciotte è accompagnato da aneddoti, litigi produttivi, indebitamenti e migliaia di metri di pellicola.

La scena è muta, dura cinque minuti ed è in bianco e nero. L’ambientazione è quella di una sala teatrale. I personaggi: una ragazzina con le trecce bionde, un contadino e un cavaliere dal volto smunto, lo sguardo abbacinato e fisso sulla tela dove scorrono le immagini. Dulcinea e Sancho Panza sono seduti uno di fianco all’altro. Don Chisciotte si solleva dalla sedia per colpire le immagini della battaglia che scorrono. Partecipa alla battaglia e con il suo fare furioso e maldestro svela l’artificio, il «retro del cinema» (p. 12) per poi voltarsi e rivolgere il suo sguardo a Dulcinea e forse al di là della sala e dei suoi spettatori. Welles e con lui Don Chisciotte, interpretato da Francisco Reiguera, attraverso questo gioco di sguardi, di campi e controcampi che fanno a pezzi le regole del cinema e della sua fruizione indicano una chiave per rileggere e spazzolare contropelo – per riprendere il metodo benjaminiano – la storia dei e nei film non fatti: «capire ciò che resta della rappresentazione, quali sono i suoi residui ed eventualmente come utilizzarli» (Cfr. M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere 2008, p. 17).

Un’introduzione dedicata a Welles e quattro capitoli ciascuno dei quali, come sottolinea l’autore, segnato da una data e da alcune immagini che hanno provato a rendere visibili gli eventi della storia e i soggetti che ne hanno preso parte o che l’hanno subita: la Rivoluzione francese, quella dell’Ottobre 1917, la morte di Cristo, la Shoah.

Il primo capitolo è dedicato all’immenso progetto intrapreso e mai portato a compimento da Stanley Kubrick sulla figura di Napoleone. In questo caso i materiali preparatori, le lettere, le interviste, la sceneggiatura sopperiscono alla mancanza di immagini. Come per ogni suo film, anche nel caso di Napoleone Kubrick si dimostra un meticoloso archivista, capace di accumulare una mole immensa di documenti e immagini con i quali provare a immaginare una vita intera. La sceneggiatura conclusa nel 1969 copre l’ascesa e il declino del generale, dalla Rivoluzione all’esilio a Sant’Elena fino alla morte.

Come per il successivo Barry Lyndon (1975) anche per il film su Napoleone Kubrick affianca al protagonista una voce narrante. Questa scelta, assieme al rispetto dell’orizzonte cronologico degli eventi, permette ad un regista che ha sempre esercitato il massimo controllo produttivo sulle sue opere di delineare il ritratto di del cittadino illuminista la cui volontà di potenza si traduce nel «tentativo prometeico di ribellarsi all’antico ordine europeo per affermare la sovranità di colui che cerca la legittimazione al potere» (p. 32).

Dall’affresco napoleonico alle gesta degli uomini e delle donne che si fanno artefici della rivoluzione: il secondo capitolo si concentra su Dziga Vertrov e Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, due grandi registi sovietici per certi versi antagonisti. Agli occhi prestati alla Rivoluzione – parafrasando la raccolta degli scritti di Vertrov pubblicata qualche anno fa da Mimesis – fa da contraltare una visione “rinascimentale” dell’artista che secondo Scarlato ben riassume il metodo creativo di Ėjzenštejn.

Per quest’ultimo «lo spettatore deve rivoluzionare il suo modo di far esperienza, ma sulla base di un percorso che disegna il regista» (p. 89) e che sarà ostacolato dalle complesse negoziazioni con le istanze produttive implicate nel film incompiuto Que Viva Mexico! (1930-1932) o dalla censura staliniana per Il prato di Bežin (1935-1937).

Nel caso Vertov, invece, il progetto Kinoglaz (1924) è intrinsecamente incompiuto o meglio interminabile. La logica intermediale sottesa al Kinoglaz vuole trasformare gli spettatori della rivoluzione in testimoni e prosumer rivoluzionari, capaci non solo di farsi coinvolgere dalle immagini e dal loro progetto propagandistico ma soprattutto di essere in grado di creare film capaci di produrre altri film.

Nel terzo capitolo del libro Scarlato tralascia le grandi e spettacolari produzioni holliwoodiane per analizzare alcuni casi incompiuti del cinema europeo a tema cristologico. «L’immagine di Cristo è l’asse, la croce, a cui l’Occidente sempre ritorna. La sua nascita, la sua passione, il suo ritorno sono le figure di un dispositivo sacrificale che organizza ancora la nostra comprensione e il nostro fare» (p. 166).

Nel film non fatto di Carl Dreyer sulla vita di Gesù emergono le aporie tra il credere e la ricostruzione storico-filologica di questa biografia, tra sguardo teologico e sguardo storico. Con il Vangelo secondo Matteo (1964) Pasolini risolverà l’impasse di Dreyer, scegliendo di raccontare il mito di Gesù così come questo si è formato attraverso il tempo e grazie all’accumulo dei testi.

È attorno alla Passione, nella tensione tra martirio e resurrezione, e alle difficoltà di segnare il limite tra la catastrofe umana e la salvezza divina che si arresta il progetto pasolinano di Porno-Teo-kolossal (1966-1975), così come Agonia di Luis Buñuel (sceneggiatura ultimata nel 1975) e il Viaggio di G. Mastorna, inseguito da Federico Fellini dal 1965 fino al 1992.

L’immagine dei campi di concentramento, quell’immagine che secondo Jean-Luc Godard è mancata al cinema, chiude La tela strappata. Già all’inizio degli anni Sessanta Godard dichiara in alcune interviste di voler realizzare un film intollerabile, incentrato sulla vita degli aguzzini nazisti, sulle tecnologie dello stermino, sulle dattilografe che redigono i documenti della distruzione.

Su questo progetto, al vuoto che richiama attorno a sé e che al contempo è capace di “centrifugare” tutte le immagini della storia del cinema si fonda quell’opera-mondo che sono le Historie(s) du Cinéma (1988-1998). Dietro ai montaggi realizzati per le Historie(s), a partire dai film compiuti e incompiuti, Godard «cerca continuamente di vedere quell’immagine invisibile, quella della dattilografa e […] il messo al bando. L’ebreo e il campo di concentramento. Affrontando la questione “contropelo”» (p. 256).

Sobbalzare dalla sedia, oltrepassare lo schermo per svelare il retro del cinema e rompere la sua illusione. Oppure ricambiare il gioco di sguardi tra Dulcinea e Don Chisciotte per alimentare le contaminazioni tra documentazione e racconto, per oltrepassare il confine che separa lo schermo dalla sala. In fin dei conti questi due atteggiamenti non sono contrastanti: essi costituiscono i poli di una relazione dialettica che ogni spettatore riattiva con il suo sguardo critico. Ogni film costruisce un mondo e ne definisce le condizioni di rappresentabilità.

I film non fatti puntellano la storia del cinema e ne perlustrano le possibilità teoriche, politiche, immaginative. Cosa può una sceneggiatura? Cosa può un montaggio? Perché mancano delle immagini per raccontare un evento che ha scosso in profondità la nostra coscienza?

Torneremo a parlare dei vuoti e dei frammenti, di questa contro-storia del cinema domani alle 11.30, presso il Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali dell’Università degli Studi di Siena, assieme al prof. Luca Venzi e ad Alessio Scarlato.

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