La donna, gli altri e la trasgressione

Una lettura di Veronica, i gaspi e Monsignore di Marcello Barlocco

Veronica, i gaspi e Monsignore. A leggere un titolo del genere è difficile pensare cosa aspettarsi, al di là del fatto che si ha a che fare con un racconto e quindi, giocoforza, con una certa idea di letteratura. Ecco: di che tipo di letteratura si tratta? Per chi già conosce ciò di cui si parla, dare una risposta a una domanda del genere non sembra facile. Forse, per cominciare, si potrebbe tentare la via autobiografica.

L’autore in questione è Marcello Barlocco (1910-1969), un “personaggio” caduto nel dimenticatoio rispetto ai canoni delle lettere italiane, vista la minima attenzione editoriale ricevuta in vita e anche dopo, fino alla riscoperta recente dovuta all’editore Giometti&Antonello, grazie a cui oggi quest’opera è tornata in circolazione. Veronica, i gaspi e Monsignore ha, nel tipo sociale che ricopre la funzione di personaggio principale, un legame che potrebbe rimandare all’autore, visto che abbiamo a che fare con un farmacista dalle molte inquietudini, elementi in linea con il vissuto dello scrittore (laurea in farmacia; una vita a dir poco travagliata).

Sintetizzando, si potrebbe dire che tutto il racconto sia anche un ritratto psicologico del suo protagonista, un farmacista perso fra i suoi pensieri in un qualche borgo sperduto della penisola, e che lì incontrerà pateticamente il suo destino. In tutto questo c’è da aggiungere una nota relativa alla sua caratterizzazione. Rispetto a certi scrittori e scrittrici in cui la psicologia si sviluppa attraverso un uso sapiente del non-detto come tecnica narrativa, Barlocco tende invece verso un approccio in cui, alla fine, tutti i pensieri del personaggio vengono esplicitati, incluse le idee più turpi.

Ma allora: come si fa a rapportarsi con gli altri quando si è perso il senso della realtà? Questo libro sembra soprattutto svilupparsi come una surreale, grottesca e a tratti brutale risposta a questa domanda. Nella mente psicotica del protagonista, infatti, il significato delle sue interazioni con gli altri viene sistematicamente sminuzzato, dilatato, deformato fino a perdere ogni consistenza realistica, ogni possibilità d’interpretazione attendibile. Quando nella prima scena del romanzo la misteriosa Signora riconosce immediatamente il protagonista come il farmacista del borgo («lei certamente è il nostro farmacista»), egli interpreta questo scambio non solo come un affronto personale, ma soprattutto come dimostrazione del suo fallimento esistenziale e presagio del suo imminente decadimento:

farmacista, faccia da farmacista! Ora che ne hai acquistato anche la faccia dovrai farlo tutta la vita […] finché col passar degli anni, a causa della mancanza di moto fisico e spirituale, questa tua faccia di farmacista al primo stadio entrerà nella sua definitiva evoluzione […] Nel contempo evaporeranno i tuoi dubbi, i desideri di grandi cose, per non desiderare più che quelle piccole o in subordine quelle medie e sarai il farmacista perfetto…(10)

Come in questo caso, il discorso indiretto si inserisce costantemente nella narrazione per riportare l’esplosione cancerogena dei pensieri del protagonista, che gran parte delle volte finiscono per paralizzarlo e renderlo incapace di agire e comunicare. Eppure, l’inettitudine relazionale del farmacista sembra estendersi al di fuori della sua esperienza paranoide e contagiare gran parte dei bislacchi personaggi del romanzo, diventando così condizione generale, dettaglio ambientale. Forse, dunque, la genialità del romanzo di Barlocco non sta tanto nella descrizione di questo tipo umano psicotico, quanto nella capacità di far svanire il confine tra sano e malato, tra normalità e pazzia e insinuare il dubbio che tutti, in fondo in fondo, siano affetti dalla stessa paralisi sociale, dalla stessa inadeguatezza alla vita.

Ora, tutto questo prenderebbe forma attraverso la struttura del racconto, ovvero la serie di incontri che il farmacista ha con gli abitanti del borgo, e soprattutto con la Signora, l’altra figura che domina la scena. Il rapporto tra i due lo si potrebbe definire come un elemento essenziale per capire, di riflesso, quel che passa nella testa dell’uomo, perché può rappresentare una lente per osservare meglio come i suoi soli “slanci” verso l’altro siano, sostanzialmente, verso il genere femminile, con tutto quello che ne consegue. Il suo rapporto con tutti gli “altri” – esemplificabile nelle sue sortite in osteria – ha un tono che invece suona decisamente diverso:

Sì, sì, ci verrò perché́ qui troverò protezione non solo contro la paura delle sere ma anche contro i pericolosi pensieri che potrebbero nascermi il giorno alla luce del sole. Qui tutto s’addormenta e muore. Questa gente che per me è solo gente in quanto non è solitudine, l’odore del vino e quello di qualche peto, il fuoco che crepita, i salami e le bandierine italiane hanno il potere di far morire il presente, il passato e l’avvenire. Ci verrò, ci verrò proprio tutte le sere!». (52)

Senza pensiero, senza tempo: sarebbero queste le condizioni ideali per il farmacista? Se sì, Barlocco però ce le presenta dentro una trama in cui, comunque, quel personaggio si muove, interagisce. Di qui, allora, le contraddizioni tra quel che dice e quel che fa, e più in generale l’incrinatura progressiva del realismo. Fino all’emergere di visioni tanto allucinate quanto strampalate, come quella finale che spiega il titolo del libro, in cui la vita animale diventa soprannaturale e poi, allegramente, tenta di “fare i conti” col nostro uomo.

Che quella sia stata solo una allucinazione poco importa: conta, invece, che quel mix di provincia e surrealismo dia una impressione di comicità e violenza.

Tuttavia, quest’impressione emerge già nella relazione tra i due sessi: il medico condotto supera ostacoli incredibili per riuscire a sposarsi e poi abbandona la sua amata sull’altare; il farmacista assicura di non essersi mai innamorato di una donna, ma solo «della situazione di cui lei faceva parte» (103), e aggredisce verbalmente tutte le clienti di sesso femminile della farmacia; gli invitati della Signora sono o disinteressati alle donne o molestatori. Nel mondo allucinato di Barlocco, il rapporto uomo-donna è l’impossibile. Per questo la maggior parte dei contatti tra i sessi si risolvono in tentativi di stupro. Non stupri veri, solo stupri pensati, agognati, pregustati, ma alla fine irrealizzabili. Lo scrittore fa dello stupro un desiderio maniacale la cui ripugnanza viene in qualche modo temperata sia dal sistematico non-accadere degli stupri, sia dal contegno immancabilmente grottesco degli aspiranti stupratori.

A conti fatti si potrebbe dire che la relazione tra la Signora e il farmacista si configura paradossalmente come l’unico rapporto funzionale del romanzo – nonostante lei voglia convincerlo a sposarla per nascondere la sua omosessualità; nonostante lui sia ossessionato dalla protégée di lei. Ma la promessa di felicità del loro rapporto, suggerita dalla chiusa del romanzo, si basa sulla ferrea confusione dei ruoli sessuali dei due personaggi. Il farmacista è definito fin dal primo capitolo come «un mezzo uomo» (11), mentre la Signora rifiuta apertamente qualsiasi mansione, comportamento, caratteristica femminili, e di sé stessa dice «avrei potuto esser donna al trenta per cento ma rinunciai anche a quella percentuale» (162).

«D’ora innanzi non sarei neppur più stato in grado di soffrire», dice il farmacista riguardo alla prospettiva di sposare la Signora e trasferirsi con lei in Australia. Ma questa salvifica, liberatoria atarassia può nascere da un rapporto umano solo per via della sua assoluta eccezionalità: solo nel loro non-essere uomo o donna il farmacista e la Signora possono trasgredire la legge che sancisce l’impossibile contatto tra i sessi. Allo stesso tempo, però, riconfermandola inevitabilmente.

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