Siria Moschella ha recensito la raccolta di saggi curata da Vincenzo Cuomo ed Enrico Schirò “Decentrare l’umano. Perché la Object-Oriented Ontology” (Kaiak, 2021).
Nel suo saggio An Essay in Esthetics by Way of a Preface (1914), prefazione alla raccolta poetica El pasajero di José Moreno Villa, il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset scrive che «there is the same difference between a pain that someone tells me about and a pain that I feel as there is between the red that I see and the being red of this leather box. Being red is for it what hurting is for me. […] Everything, from a point of view within itself, is an I». Qualche decennio dopo, questo breve passaggio sarebbe divenuto di importanza cruciale per Graham Harman, il principale teorico della “object-oriented philosophy”, datata sul finire degli anni Novanta e ufficialmente rinominata da Levi Bryant nel 2009 Object-Oriented Ontology (OOO). “Tutto è un Io”, nell’interpretazione di Harman, vuol dire che ogni cosa è un oggetto che non può essere esaurito da alcuna descrizione (anti-mining), sia essa introspettiva o in terza persona, che faccia riferimento ai suoi componenti (undermining) o ai suoi effetti e relazioni (overmining). La “posizione zero”, capace di cogliere un oggetto nella sua integrità, semplicemente non sussiste.
Gli oggetti della OOO sono sostanze individuali che si ritirano (withdrawal), non soltanto allo sguardo umano, ma anche l’uno rispetto all’altro. Di questa specifica non dovremmo più aver bisogno: nell’ontologia piatta orientata all’oggetto, anche l’uomo si configura come tale e, come ogni altro oggetto, non accede agli altri se non attraverso mediazione, traduzione, “causazione vicaria”. È forse proprio questo decentramento – dell’uomo e del suo sguardo, del mondo-per-noi – che conferisce alla OOO il suo potere scompaginante, l’abilità di mescolare le carte, trasformare gli “sfondi” in figure di primo piano. Ed è esattamente la forza decentrante della OOO il filo conduttore della raccolta di saggi a cura di Vincenzo Cuomo ed Enrico Schirò Decentrare l’umano. Perché la Object-Oriented Ontology, pubblicata nel 2021 da Kaiak Edizioni, il progetto editoriale che amplia l’attività della rivista Kaiak. A Philosophical Journey. Con l’accostamento di testi d’autore e saggi sul tema, la raccolta offre una panoramica esaustiva del programma di ricerca della OOO e si inserisce nella collana Theoretica, curata da Cuomo e Schirò e aperta a proposte filosofiche innovative e radicali, di respiro internazionale.
Come sottolinea Enrico Schirò nell’introduzione al volume, l’ontologia orientata all’oggetto non si configura come una filosofia univoca: è piuttosto un programma di ricerca declinato variamente, a partire da una comune base ontologica. La stessa OOO si inserisce nel contesto del più generale Realismo Speculativo e, ancor più in generale, dei “nuovi realismi”1 che si sono affacciati nel panorama filosofico negli ultimi vent’anni. La comune pars destruens consiste in una messa in discussione del “correlazionismo”, termine ombrello coniato da Quentin Meillassoux per indicare le filosofie che conferiscono centralità epistemologica agli schemi concettuali umani. Tanto che Felice Cimatti, nel saggio Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia parla di un realismo paradossale, che si sforza di accedere ad un esterno irraggiungibile per definizione e, pertanto, si trasforma in mistica: l’eccedenza inesauribile degli oggetti non sarebbe altro che il sublime, l’assoluto, un non-umano fuori controllo al quale si finirebbe per avvicinarsi abbracciando vie estetiche e religiose. Eppure, la OOO non intende sbarazzarsi degli schemi concettuali umani; piuttosto, decentrarli. Come chiarisce puntualmente Cuomo ne L’enigma della bellezza, i filosofi della OOO «non si oppongono al correlazionismo, considerato invalicabile, ma solo alla sua versione antropocentrica. Adottando un’ontologia piatta, tutti gli oggetti […] possono relazionarsi (ciascuno a suo modo) solo all’apparenza sensuale degli altri oggetti»(p. 240). Questa conclusione è il frutto di una rilettura del concetto heideggeriano di “utilizzabilità”: l’oggetto pronto-alla-mano è strumento ubbidiente alla prassi, mentre quello che si rompe se ne sottrae, divenendo “presente”; in entrambe le circostanze, l’oggetto si sottrae ad una descrizione che cerca di possederlo, rispettivamente a quella teorica e a quella pratica. Il sapere-che della conoscenza teorica è tanto parziale quanto il sapere-come di quella procedurale. Tale insufficienza è centrale nella OOO che, per scongiurare ogni rischio di riduzionismo degli oggetti alle loro parti o relazioni (quello che Harman chiama “letteralismo”), ne affida le interazioni ad un “vicario” sensuale.
È impossibile, in sostanza, per gli oggetti reali, relazionarsi direttamente, comprendersi esaustivamente; ciascuno non si relaziona che alla controparte sensuale degli altri, traducendoli. Noah Roderick paragona questa mediazione alla ripetizione deleuziana, sempre foriera di differenza: le interazioni tra oggetti reali si configurano come traduzioni ripetute dell’oggetto intenzionato in quello intenzionante e progressivi adeguamenti del secondo al primo; così che, quel che è invariante dell’oggetto intenzionato viene sempre ripetuto «con un’intensità differenziante»(p. 134). Pertanto, gli esseri umani non hanno alcun primato gnoseologico rispetto ad un albero o ad una biglia: umani e non umani si traducono tra loro e vicendevolmente, senza priorità di sorta. «Noi applaudiamo la musica, balliamo la musica, facciamo musica di musica, scriviamo la musica: ma tutte queste cose non sono la musica rispetto a cui le facciamo»; così come «l’architettura “architetta” le relazioni umane. E i cani annusano qualcosa riguardo agli alberi. Le matite matitano riguardo ai temperamatite»2, senza mai completamente esaurire relazioni umane, alberi e temperamatite. A scriverlo è, nel suo saggio sugli Iperoggetti, Timothy Morton, altra figura di primo piano nel panorama dell’Ontologia Orientata all’Oggetto.
La categoria centrale della sua filosofia è quella di “iperoggetto”, un oggetto che è iper rispetto ad altre entità. Del riscaldamento globale, ad esempio, non possiamo avvertire che tracce: le gocce di pioggia che sentiamo picchiettare sulle nostre teste sono indici localizzati di un iperoggetto distribuito nello spazio e nel tempo, molto al di là dei vincoli dei nostri strumenti di misurazione, della fisicità, della memoria (“non-località”). Il cambiamento climatico ci si è appiccicato sulla pelle, non passa attimo senza che interferisca con le nostre vite e rispetto ad esso non esiste alcun Altrove (“viscosità”). Le sue tracce sono “arcifossili”, testimoni di un tempo ancestrale antecedente alla nostra specie (“ondulazione temporale”) e ci appaiono come istantanee, fasi di un processo, stadi di un sistema di cui possiamo vedere solo un certo numero di pezzi alla volta (“phasing”). Fare esperienza degli iperoggetti scompagina il nostro orizzonte, annientando il mito antropocentrico del mondo chiuso e funzionante, autosufficiente e prevedibile. Lo stesso concetto heideggeriano di “mondo” non regge, laddove il pensiero umano non è più una modalità di accesso privilegiata; è per questo «che gli umani non possono essere le uniche entità negli affari di mondeggiamento (in the worldling business)»(p. 73). Questa estensione indiscriminata della Als-Struktur ha visto attribuire alla OOO una visione panpsichista, o meglio, come ne scrive Marco Mattei in Psicologia speculativa, “endopsichista”: per Harman, la disponibilità a relazionarsi di tutti gli oggetti è sufficiente a garantire loro capacità rappresentativa e, dal momento che ogni relazione costituisce un nuovo oggetto, avere esperienze fenomenologiche «significa esistere all’interno di un oggetto più grande»(p. 104).
Nell’oggetto-relazione, le qualità sensuali dell’oggetto reale intenzionato sono il tramite della mediazione e, suggerendo la visibilità nascosta del reale, seducono (alluring) l’oggetto intenzionante. È quest’ultimo, infine, l’unica entità reale in gioco: grazie all’allure delle qualità sensuali, l’osservatore esperisce, in sé, la fusione di queste all’oggetto reale. È attraverso l’esperienza estetica dell’allure, o metafora, che il reale ammicca al suo spettatore, incoraggiandolo alla “teatralità”, alla mimesi diretta. L’incontro con questo visibile “ritirato”, o meglio, la sua mimesi interiore non ha nulla di contemplativo, perché l’osservatore è completamente assorbito dall’oggetto, vi si mescola e vi partecipa, instaurando una relazione totalizzante che Harman chiama “sincerità”. L’attivazione diretta, la chiamata in causa dello spettatore, può essere un’esperienza viscerale e disorientante, che mal si sposa con qualsivoglia tentativo di incastrarla entro un pattern determinato; è a questo proposito che Cuomo nota che l’ipostatizzazione della relazione metaforica effettuata da Harman normalizza e appiattisce «l’esperienza spaesante del fascino degli oggetti», facendo di una regola astorica quella «concezione dell’arte che, nascendo nel Rinascimento, è entrata in crisi definitivamente tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento»(p.246).
La bellezza del reale ha un fascino perturbante, che talvolta suscita un coinvolgimento simile all’empatia negativa di lippsiana memoria: l’oggetto chiede un’adesione mimetica che non suscita piacere, ma al contrario attrito e ripugnanza. È una “bellezza nauseante”, quella del reale, perché tocca corde profonde con un’estraneità assoluta; persino catastrofica, talvolta, come osserva Claudio Kulesko nel suo La nuova stirpe, il saggio conclusivo di Decentrare l’umano: l’incontro col non-umano ha il potere intrinseco della distruzione e tanto più ci inquieta quanto più ne percepiamo l’agentività, la possibilità di azione imprevedibile e sovversiva. La OOO si pone in ascolto della spettralità delle cose, che non hanno bordi a misura d’uomo, ma riverberano troppo vicine per scollarcele di dosso e troppo lontane per concepirle. Gli oggetti sono i fantasmi che infestano l’Antropocene.
[L’immagine di anteprima è un particolare della copertina del libro di Timothy Morton Iperoggetti].