Le rigenerazioni urbane italiane secondo il New York Times

Breve analisi di un fiasco giornalistico

La settimana scorsa il New York Times ha pubblicato un articolo su baracche e rigenerazione urbana a Messina. L’autrice, Emma Bubola, presenta il caso della città siciliana, teatro di una serie dispersa di estese baraccopoli (costituite da circa 86 siti, che contengono, secondo i dati divulgati dalla Prefettura lo scorso mese, circa 2.100 famiglie e 6.500 persone) che si ritrovano oggi al centro di una complessa partita politica con molti e trasversali attori: il sindaco Cateno De Luca innanzitutto; e poi le rappresentanze locali in parlamento di Forza Italia, del PD, Cinque Stelle (a cui si deve una legge con molti padri e madri, che stanzia ingenti fondi per lo sbaraccamento e la rigenerazione); la Prefetta Cosima Di Stani nel ruolo di commissario responsabile dell’esecuzione del progetto, e, infine, le rappresentanze “sociali”, costituite dall’Unione Inquilini e dai delegati delle baracche sedutisi sia in Commissione Ambiente della Camera dei Deputati sia al primo tavolo della neo-indetta struttura commissariale.

L’articolo del celebre quotidiano indugia nella descrizione fisica delle baracche, elogia gli attori locali a cui va il merito di avere riscoperto la questione – essenzialmente il sindaco e il presidente dell’Agenzia Comunale per il Risanamento e la Riqualificazione (Arisme) – e riporta lo scetticismo di alcuni abitanti storici delle baracche. Nel complesso l’impressione è quella di un testo che presenta molte inesattezze storiche, si ferma alla superficie del fenomeno, dipende dalle auto-narrazioni istituzionali, non coglie nessuno dei livelli profondi implicati dalla vicenda e, soprattutto, appare insinuarsi dentro quella campagna elettorale per la presidenza della Regione Siciliana che vede proprio nel sindaco Cateno De Luca uno dei principali concorrenti.

Entrando così più dettagliatamente nella critica, si può osservare che l’autrice fa discendere le baracche direttamente dal terremoto del 1908, contribuendo a rafforzare il luogo comune per cui quelle esistenti siano sostanzialmente le baracche del grande sisma. In realtà il nesso tra quel disastro e le baracche appare più di tipo “geografico” e politico che fisico. Non sono le baracche in senso proprio – quelle attualmente erette e abitate – a nascere col terremoto, ma le aree di esclusione sociale in cui molte di esse si collocano. Si tratta per l’appunto di assi e geografie dell’esclusione e del concentramento della povertà che hanno origine nella ricostruzione post-sismica e, successivamente, in quella post-bellica (i bombardamenti del 1943 furono infatti un secondo terremoto per gli effetti che ebbero sul patrimonio edilizio). In particolare è l’intersezione della questione post-sismica e degli usi strategici del welfare abitativo a opera, soprattutto ma non solamente, della Democrazia Cristiana, che ha generato l’odierna questione sociale messinese.

Gli attuali assi dell’esclusione, infatti, originano dall’esigenza, sorta a un certo punto della lentissima ricostruzione successiva al disastro di inizio Novecento, di ripulire quello che corrispondeva al centro urbano storico dalla miriade di casette in legno, frutto per buona parte di donazioni estere, che avevano preso a costituire il nuovo panorama urbano. Così, mentre cooperative di alto borghesi ripopolavano lo spazio del centro con  eleganti edifici in muratura, e gli enti pubblici ne ergevano di altri meno sfarzosi per i propri dipendenti in prossimità dei primi, la massa dei poveri e dei disoccupati veniva concentrata in aree remote, all’interno di case di edilizia ultra-popolare (casotti in muratura di un solo piano, senza fognature) o, per l’appunto, di legno. Pressoché nella loro interezza, queste sarebbero diventate nel corso della storia repubblicana aree di edilizia popolare, caratterizzate dal basso reddito, dal ricorso all’assistenza pubblica e, più tardi, anche da forme criminali di sussistenza.

Messina, da https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Messina_Strait.jpg CC 2.0

Da un punto di vista strettamente fisico, le baracche che sorgevano a questo punto della vicenda non avevano più nulla a che fare con quelle del terremoto, per quanto occupassero talvolta terreni contigui. Erano, piuttosto, un modo di intercettare un’assistenza pubblica capricciosa e insufficiente, che assegnava le case sulla base dell’anzianità del bisogno dei richiedenti e della  loro appartenenza politica. Queste nuove baracche, dunque, erano il prodotto di scelte politiche attuate in età repubblicana e, soprattutto, costituivano, così come accade ancora oggi, solo un capitolo di una questione sociale ben più ampia che non esclude i detentori di un tetto regolare (perlomeno se si considera che secondo un report comunale del 2018, Messina in cifre, e un altro studio prodotto da Michele Limosani nel 2021, Messina: un’istantanea sull’economia della città, un terzo dei messinesi dichiara di vivere con circa 800 euro al mese).

Nell’articolo del quotidiano statunitense, una donna di 66 anni residente in baracca racconta di come i suoi nonni, subito dopo il terremoto del 1908, avessero ricevuto la promessa di una casa che sarebbe stata data loro nell’arco di un paio di giorni. “I due giorni sono diventati un’eternità”, osserva la testimone. Dovrebbe tuttavia risultare evidente che la baracca in cui abita la donna oggi abbia pochissime possibilità di avere qualcosa a che fare con quella dei nonni (di baracche in legno dei tempi del terremoto ne sono censite infatti giusto un paio; e sono disabitate). È chiaro, perciò, che il tugurio in cui risiede la donna appartiene a un altro segmento della storia locale. Un segmento di cui non vi è traccia nella ricostruzione del quotidiano e che, pure, avrebbe un ruolo fondamentale per discutere del ruolo “produttivo” delle catastrofi. Su come, cioè, questi eventi generano accelerazioni di fenomeni allo stato nascente e appropriazioni “interessate”, da cui alcuni traggono enormi vantaggi a nocumento dei più.

A dirla tutta, l’impressione è che sia lo stesso articolo a dare sostanza a questo principio generale. In particolare quando il problema delle baracche viene connesso alla pandemia e ai temi della salute. Infatti la tesi sostenuta nel servizio, in accordo con le dichiarazioni del sindaco e del presidente di Arisme, è che nelle baraccopoli, già prima della corrente crisi virale, si muoia sette volte di più che nel resto della città per asbestosi, malattie respiratorie e tumori. Lo stesso De Luca, all’inizio di questa partita politica, nel 2018, racconta di avere contratto la leishmaniosi nel corso di una sua visita alle aree da smantellare (una patologia rara tra gli umani, che non risulta essere comune tra i residenti delle baracche, così come ci si dovrebbe invece aspettare se una sola visita del primo cittadino fosse bastata a contrarla). Non a caso, a più riprese, il sindaco definisce le aree che ospitano le baracche “lebbrosari”. In aggiunta, le infezioni da Covid-19 avrebbero generato nei luoghi al centro del processo di rigenerazione dei terribili focolai.

Alcune baracche a Messina nel 2019. Insieme alla foto di copertina, per gentile concessione di Domenica Farinella.

Questa rappresentazioni sono in effetti dubbie, come hanno mostrato le polemiche tra agenzie sanitarie e sindaco a ridosso delle esternazioni del politico. E come suggerisce, d’altronde, la cronica mancanza di documentazione atta ad attestare l’entità di questa supposta crisi. Per quanto riguarda l’asbestosi risulta infatti registrato solo un caso sul totale della popolazione delle baracche, che è arduamente imputabile al sito di residenza. Inoltre l’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP)  ha affermato che non sono stati censiti eccessi di malattie respiratorie, mentre l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente (ARPA) ha potuto realizzare indagini limitate a un sola zona e, per di più, senza che esistessero le condizioni tecniche e ambientali per un’indagine soddisfacente.

E quanto all’eccesso di morti per patologie respiratorie nelle aree considerate, si tratta di una affermazione ripresa dalle conclusioni generali, non riferite alla popolazione delle baracche di Messina, dellAnalisi del contesto demografico e profilo di salute della popolazione siciliana del Dicembre 2019 curato dall’Assessorato Regionale della Salute. Il dato riportato misura solo una differenza nella longevità, comune al territorio siciliano, con riferimento ai gruppi svantaggiati. E se pure si provasse, con mille forzature, di riferirlo per estensione alle baracche, lo stesso dato ci direbbe solo che è lì che si concentrano la povertà assoluta, il mancato accesso alle cure e alla prevenzione. Ma considerato che le baracche – come si è già osservato – sono solo la punta visibile di una questione sociale diffusa, che investe anche la popolazione residente in abitazioni regolari, si potrebbe notare che gli abitanti delle case popolari al centro di un mio libro sulla questione abitativa a Messina (intitolato Prendere le case) presentavano esattamente le stesse malattie polmonari e vivevano in condizioni ambientali  non dissimili da chi abita in baracca (muffa, umidità etc.).

La stessa caratterizzazione “impressionistica” sembrano averle le paure sui focolai del Covid. In un articolo dello scorso aprile l’ASP, stretta dalle infinite polemiche deluchiane sulla gestione della crisi, torna indietro sui propri passi e, per bocca del suo direttore facente funzioni, definisce serie le condizioni ambientali delle baracche. Aggiungendo però che: “abbiamo fatto campagne di screening con tamponi per verificare la diffusione del virus all’interno di questa comunità. Quello che è emerso sono numeri piccoli anche perché la partecipazione è stata scarsa”

L’impiego sconsiderato da parte delle istituzioni locali di dati sostanzialmente inutilizzabili e conclusioni impressionistiche, ricavate da osservazioni asistematiche dell’ambiente fondate su una specie di senso comune sanitario, miravano ad agire sulle emozioni dell’opinione pubblica e hanno generato di riflesso effetti conseguenti su una classe politica poco avvezza ad adoperare valutazioni autenticamente scientifiche al fine di orientare la propria azione e, comunque, decisamente più sensibile ai condizionamenti imposti dai climi morali dominanti che ad altri elementi. Ciò che, alla fine, ha permesso la composizione di un fronte pluripartitico che è convenuta su un testo legislativo che considera emergenziale un fenomeno consolidato e che, concentrandosi sulla popolazione in baracca, limita l’estensione di una questione abitativa e sociale ben più diffusa.

Di questo dibattito esistono vistose tracce nell’Internet locale, oltre che nelle biblioteche. Colpisce dunque che il reportage di uno dei principali quotidiani mondiali non appaia accompagnato da una seria ricerca che restituisca la complessità della vicenda. Soprattutto, spostandoci questa volta su un piano meramente congetturale, si ha l’impressione che l’articolo costituisca una sorta di ingerenza nella vita politica dell’isola. Un’ingerenza, del resto, tutt’altro che inedita se si considerano altri articoli del medesimo quotidiano dedicato a ex presidenti o candidati alla guida della Regione (per esempio, Crocetta).

Cateno de Luca, sindaco di Messina, da https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Cateno_De_Luca_sindaco_di_Messina.jpg, CC4.0

A tal riguardo, già nel marzo 2020, nel corso del primo lockdown, avevo avuto modo di osservare che la campagna elettorale siciliana aveva avuto inizio con larghissimo anticipo e che la pandemia aveva una chiaro ruolo performativo che sarebbe servito a edificare l’immagine di un prossimo aspirante al titolo di Presidente: Cateno De Luca. Colui che già poco dopo dopo l’elezione a sindaco della città dello Stretto aveva dichiarato che avrebbe usato le baracche per mostrare al mondo che se poteva risolvere un problema secolare come questo, allora avrebbe potuto risolvere tutti i problemi della Sicilia. È da lì che inizia un percorso spettacolare fatto di dirette Facebook e colpi di scena, quasi sempre all’insegna del trash, che raggiungono il culmine, così come già ricordato, nel corso del lockdown, allorché il sindaco occupa i traghetti per fermare il traffico diretto in Sicilia, promette di lanciare droni che chiedono ai viandanti “dove cazzo vai” e promuove una infinità di altre iniziative mediatiche grottesche che lo rendono popolare nei circuiti televisivi nazionali di larghissimo ascolto. Quelle, insomma, dal carattere maggiormente “popolare”.

Questo carattere popolare della propria comunicazione è ciò che ha consentito a De Luca di realizzare video con milioni di visualizzazioni (quello dell’occupazione dei traghetti, per esempio) e di raccogliere in breve tempo quasi mezzo milione di follower su Facebook. L’impressione è che tanto l’articolo del New York Times quanto un altro, successivo di un giorno, pubblicato sul Venerdì di Repubblica, suggeriscano che sia in corso una campagna comunicativa volta alla riscrittura del personaggio, che si predispone a passare dal trash all’istituzionale. Un’operazione che richiede uffici stampa e mezzi economici, che, del resto, non mancano a un sindaco che è sì un politico di professione dalla carriera trentennale, ma è anche imprenditore. È stato, per esempio, il più ricco parlamentare regionale siciliano e, da quest’anno, anche il sindaco italiano più facoltoso, con una dichiarazione dei redditi pari a un milione di euro. La stessa ricchezza ostentata lo scorso martedì nei confronti di un cittadino critico del suo operato, che a una domanda su cosa avrebbe fatto il sindaco qualora avesse fallito nella sua corsa alla Regione, si è sentito rispondere che: “forte della mia posizione reddituale […] mi godo la pensione e piscerei in faccia agli stronzi come te”. Una frase chiusa con una crassa risata degna di Er Monnezza.

Quest’ultimo aneddoto suggerisce che i mezzi economici e i tentativi di re-branding si scontrano con la sostanza delle merci. E che ciò che appartiene al basso solo con molta difficoltà può essere nobilitato. In mezzo a tutto questo, spiace solo osservare che se l’ultima scena narrata ha luogo martedì, l’articolo del New York Times è del giovedì successivo. Certo possiamo immaginare che la giornalista fosse già con la mente altrove, che non le sia giunta l’eco, che non sia agevole bloccare processi editoriali che vengono stabiliti di solito con largo anticipo. Ma l’impressione generale è che la crisi del grande quotidiano americano – la cui reputazione è stata negli anni più volte intaccata da giornalisti inventori di notizie e da varie cadute di credibilità –  sia reale e che articoli come questi sono ciò che permette a un pubblico periferico come quello italiano di toccarlo con mano.

 

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