Il saggio di Siegbert S. Prawer torna in libreria per i tipi di Bordeaux edizioni.
Marx non ci ha lasciato un’estetica. E a dire il vero, ci ha lasciato ben poco di accademicamente preciso: non una teoria del diritto, nonostante la sua formazione giuridica; non un sistema filosofico compiuto, a dispetto dell’immediato rilievo filosofico della sua opera; e anche riguardo all’economia politica, da un lato poggia pesantemente i suoi studi sull’economia classica inglese (Smith, Malthus, Ricardo); dall’altro, ogni sua opera ne costituisce una critica, ovvero un’accusa alle sue fondamenta scientifiche, costitutivamente alienate e perciò incapaci di giungere alla realtà dei rapporti di produzione. Una lunga tradizione di studi marxiani ha cercato di elaborare una teoria dell’arte sulla scorta di quel che scrissero Marx e Engels, ma anche in questo caso le tracce lasciate dai due padri del “socialismo scientifico” sono state profondamente integrate tanto da quanto venne detto prima (in primo luogo da Hegel e dalla sua Estetica, che poi “sua” era fino a un certo punto, costituendo questa una compilazione di lezioni universitarie scritta dai suoi studenti), quanto dopo (pensiamo soltanto al ruolo di Lukács per ciò che riguarda l’estetica marxista nel Novecento).
Siegbert S. Prawer, attraverso questo Karl Marx e la letteratura mondiale, si mantiene rigorosamente distante da qualsivoglia tentativo di edificare una “teoria marxiana della letteratura” (come afferma esplicitamente in sede di presentazione), dedicandosi più modestamente, ma anche più scrupolosamente, a rintracciare le occorrenze, i rimandi espliciti e impliciti, le riflessioni abbozzate e quelle – poche – compiute, del rapporto di Marx con la letteratura. «L’autore si propone», si legge nell’abbrivio dell’opera, «di spiegare, nei limiti consentiti dai suoi orientamenti, ciò che Marx ha detto della letteratura in vari momenti della sua vita, quale uso egli fece di tutti i romanzi, le poesie e le opere teatrali che lesse per diletto o per istruzione» (p. 9).
Alla fine ne esce fuori un lavoro strano, complesso, in alcuni passaggi noioso ma utile. Intanto, è doveroso ricordare che il libro di Prawer è del 1976, epoca in cui lo studioso anglo-tedesco insegnava a Oxford. Poi, che il libro fu tradotto abbastanza velocemente in italiano, edito nel 1978 per Garzanti. Di qui un rapido oblio, forse comprensibile. Prawer non è stato (è scomparso nel 2012) un marxista, e il suo lavoro è quanto di più distante dalla discussione marxista degli anni Settanta. Una ricerca molto tecnica, che scandaglia con ostentata accuratezza tutto ciò che Marx (e in parte anche Engels) scrisse nella sua vita, affidandosi soprattutto alle opere complete edite in Germania negli anni Trenta e negli anni Sessanta, (la Mega e la Mew), sommate a relativamente pochi innesti bibliografici, soprattutto l’ampiamente saccheggiato lavoro di H.M. Enzensberger, Colloqui con Marx e Engels, del 1970 e tradotto in italiano l’anno successivo. Dunque un lavoro che si pone al confine di più materie e interessi disciplinari (la filologia, la letteratura comparata, ma anche la filosofia, la storia delle idee e della cultura), tutti però distanti dall’impegno marxista del decennio Settanta. Tutti alieni ad un approccio politico-ideologico. Al militante un libro simile serve a poco. Allo studioso si presenta invece come strumento di lavoro di un certo valore: Prawer fa mostra di aver letto “tutto” Marx, e ne ricava uno sviluppo cronologico del suo pensiero, a cominciare dai primi componimenti giovanili e all’uso della letteratura classica che informa la sua tesi di laurea, dedicata alle differenze nella filosofia della natura in Democrito e Epicuro. E a proposito della sua precoce vena poetica, va segnalato il recente volume tradotto e introdotto da Paolo Barbieri, La principessa del sogno (La Vita Felice, 2021), un’antologia di componimenti poetici a tema amoroso che Marx scrisse tra il 1836 e il 1837, dedicati alla sua futura moglie Jenny.
Il carattere “strano” del libro è avvertibile sin dalle prime pagine: non essendoci un rapporto diretto tra il protagonista e l’oggetto specifico d’indagine (la letteratura in, e per, Marx), uno studio che vorrebbe strettamente attenersi al tema richiederebbe poco spazio, pur denso di rimandi. E invece il libro di Prawer, nella recente edizione Bordeaux, consta di più di 400 pagine, dovute al lavoro di ricognizione e di ricostruzione di ogni scritto marxiano, tracimando inevitabilmente dal rapporto tra Marx e la letteratura al profilo più complessivo del suo pensiero, la sua evoluzione, i riferimenti ideologici e filosofici, le polemiche politiche e così via. Ne viene fuori un ritratto complessivo, anche se non pienamente compiuto data la parzialità del punto di partenza adottato: quanto basta, allo studioso, per servirsene con profitto.
Ovviamente, ogni pagina di Prawer vuole dimostrare della straordinaria cultura letteraria di Marx (altrimenti, perché perdere tempo a ricostruirne la figura?). E tale era effettivamente, sebbene fosse cosa nota e in qualche modo scontata. I ceti benestanti e acculturati dell’Ottocento europeo erano abituati ad un rapporto con la cultura classica decisamente diverso da quello odierno. Il greco e il latino erano lingue “vive”, e la conoscenza diretta dell’epica, del teatro tragico, della lirica latina, e poi dei poemi cavallereschi o del teatro shakespeariano, erano territori frequentati con assiduità, con amore classicheggiante, e poi romantico. Il confronto coi classici era diretto e continuo, almeno, ripetiamo, per la ristretta elite culturale di cui Marx faceva parte. Eppure bisogna rilevare della particolare curiosità e passione marxiana per la cultura letteraria: Omero e Eschilo, Dante, Cervantes, Shakespeare o Goethe, non costituivano per lui l’inevitabile pegno da pagare ad una formazione culturale matura e solida, ma l’esempio dei più vasti traguardi raggiunti dall’umanità, da impegnare direttamente nella battaglia politico-filosofica. Come affermerà precocemente (siamo tra il 1842 e il ’43), «la verità è generale: non è mia, è di tutti; è lei a possedere me, non io lei» (p. 41). Come la verità, anche l’arte.
Ogni scritto di Marx, da questo punto di vista, è profondamente venato da manifesta letterarietà. Il “saggismo” è quanto di più distante dalla prosa marxiana, tutta al contrario volta a prendere posizione, a ingaggiare polemiche filosofiche, ideologiche anche nei lavori di più distaccata pretesa scientifica (e che non furono mai, pertanto, “distaccati”). In altre parole, ogni scritto marxiano è volto all’impegno politico. Anche per ciò che riguarda l’uso che Marx fa della letteratura, «l’interesse è pratico, e nulla vi è di più pratico nel mondo che abbattere i propri nemici. “Chi odia una cosa e non la distrugge volentieri?” già ci insegna Shylock» (p. 57). Anche per questa ragione è impossibile definire Marx uno “scienziato” (filosofo, storico, economista eccetera): quella che Marx edifica è una visione del mondo, un punto di vista, scientificamente sviluppato – certo – ma prioritariamente volto alla prassi, all’azione politica e sociale. Una sintesi, forse mai più raggiunta, di scienza e ideologia. Marx non intende fondare una nuova scienza, ma servirsi dello sviluppo scientifico del suo tempo (giustamente giudicato clamoroso e in quanto tale accolto) per giungere a delle conclusioni considerate necessarie. Per tale ragione gli scritti di Marx sono giudicati dei capolavori di scrittura posti al confine tra saggistica, oratoria politica, narrativa e giornalismo. Si veda, in tal senso, l’analisi letteraria del Manifesto fatta da Umberto Eco e riportata in sede di postfazione (pp. 460-462). E nello sviluppo delle sue capacità espositive tanta parte è data dalla letteratura classica, antica e moderna. Prawer ci segnala tutte le inevitabili occorrenze. Dalla strabordante presenza di Cervantes, Shakespeare, Goethe o Heine, al più raffinato e centellinato uso di Eschilo, Dante, Diderot o Voltaire. Soprattutto in Dante, al di là della distanza “filosofica” che poteva darsi tra i due autori, l’affinità non è solo artistica e letteraria, ma umana e addirittura politica. Marx riconosceva il Dante in esilio come un combattente, e con particolare enfasi (ad esempio in un articolo polemico del 1853, pubblicato sul «New York Daily Tribune»), ricordava il celebre passo del paradiso in cui Cacciaguida evoca al Poeta il suo destino:
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e com’è duro calle
lo scendere e il salir per l’altrui scale.
Pur rimanendo distante da qualsivoglia “teoria”, il lavoro di Prawer lascia ai lettori due indicazioni sostanziali (e, se vogliamo, teoriche), ambedue fin troppo conosciute ma che è utile ribadire in questa sede, a coronamento di ogni possibile discorso sopra il rapporto tra Marx e l’arte (non solo letteraria). Intanto, dell’accortezza che siamo tenuti ad avere quando usiamo i termini di struttura e sovrastruttura in senso rigido, ovvero di diretta e immediata dipendenza dei fattori culturali dai rapporti di produzione. In tal senso conviene riportare il celebre passo di Engels, ampiamente citato nel libro:
Secondo la concezione materialistica della storia la produzione e la riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quella affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. […] Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga, siamo in parte responsabili Marx e io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c’era il tempo, il luogo e l’occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell’azione reciproca (p. 467).
Tra le molteplici espressioni ideologiche della società (dal diritto alla religione), la cultura sembra essere per Marx la più riottosa ad adattarsi pacificamente alla struttura economica dominante e alle conseguenti relazioni produttive. In altre parole, per Marx la cultura (quando è “vera” cultura) è di fatto patrimonio dell’uomo, scardinando ogni possibile meccanica relazione di dipendenza con le posizioni di classe. Privo di senso, per Marx, sarebbe chiedersi se Michelangelo, Dante o Goethe parlano a questa o a quella classe: parlano all’uomo, e possono persino essere usati come strumenti di liberazione. Di qui quell’umanesimo socialista tipico di Marx che ci ricorda Donatello Santarone nella sua postfazione e che riprende un celebre motivo interpretativo di Lukács. Se in sede politico-filosofica l’umanesimo marxiano è dibattuto e, in effetti, problematico (sebbene, in ultima istanza, impossibile da ridurre ad un anti-umanesimo), sicuramente sul piano della valutazione artistica Marx si pone in radicale continuità con il pensiero umanista.
L’altra indicazione è anch’essa di carattere decisamente teorico, e concerne il tipo di letteratura amata da Marx, e di conseguenza l’idea che Marx aveva della letteratura di valore. Da questo punto di vista è utile accennare al vero e proprio amore che sia Marx che Engels avevano per Balzac, ovvero per il realismo letterario come più alto punto d’incontro tra forma e contenuto. Da un punto di vista estetico, Marx era decisamente avverso a ogni formalismo, calcando la polemica culturale sovente contro il bellettrismo di matrice romantica o neoclassica. Ovviamente, l’eccessivo “contenutismo” è dovuto a molti fattori contingenti: dal non essere un letterato specialista all’utilizzo immediatamente politico-polemico che Marx faceva della letteratura, piegata alle esigenze della sua scrittura politica. Una impostazione che inciderà profondamente sul dibattito culturale marxista del Novecento. Non bisogna neanche ridurre il contenutismo marxiano alla semplice propaganda letteraria delle ragioni del socialismo o “degli ultimi”, come pure spesso si è equivocato. In tal senso giustamente Prawer si sofferma sulla Sacra famiglia e, in particolare dato l’oggetto del libro, sul capitolo che Marx dedica alla critica dei Misteri di Parigi di Eugéne Sue. Il vero e proprio «disgusto» suscitato in Marx dalla lettura del feuilleton intreccia l’analisi letteraria e politica, svelando il carattere irrealistico della società presentata da Sue, i suoi meccanismi travisati e forzati, in ultima istanza falsi, incapaci di descrivere – e quindi di narrare – obiettivamente le condizioni delle classi popolari francesi. Il socialismo umanitario che impregna le pagine dei Misteri si ferma al «banale», all’intuizione scollegata da un vero confronto con la realtà.
Qui si situa la differenza, che è al contempo letteraria e filosofica, tra il pietismo di Sue e il realismo balzachiano. Marx individuava nella grande letteratura realista quella capacità di prefigurazione di tensioni sociali covate sottotraccia, difficili da cogliere per lo storico ma rese visibili nella metafora narrativa d’impronta realistica. Il realismo inteso dunque come momento di congiunzione tra spietata messa in scena della vita sociale e via di emancipazione della società nel suo insieme. Resoconto degli orrori prodotti da un insieme di rapporti umani deteriorati (deteriorati, soprattutto, dal denaro, ed è qui un altro tema cardine dell’opera balzachiana), che dischiude alla prefigurazione di un necessario superamento di questi rapporti. Non è il rispecchiamento lukacsiano, di cui in Marx c’è poca traccia, ma è il solco entro cui si muoverà ogni tentativo di definizione dell’estetica marxista per larga parte del Novecento. Nonostante la mancata definizione di un discorso estetico compiuto in se stesso, Marx ha così impresso alla critica letteraria del Novecento il suo marchio indelebile. Un insieme di giudizi, di pregiudizi, di posizioni e di insofferenze che ha alimentato l’orizzonte culturale del comunismo tanto sovietico quanto europeo.
Ancora oggi, tramontata la grande stagione della critica politico-letteraria (col suo corollario di riviste, di ibridazioni politico-filosofiche, di polemiche meta-letterarie), tornati i letterati nel confortevole recinto dello specialismo, alcune tesi della teoria estetica marxista conservano un loro valore di fondo in grado di svelare socialmente ciò che la grande letteratura presenta sempre in forma enigmatica. Il testo di Prawer evoca dunque un mondo che non c’è più. Nel suo mantenersi distante dall’engagement, Prawer ci consegna un modo tutto anglosassone di approcciarsi al pensiero marxiano, un metodo poco frequentato in Italia, dove è stata sempre predominante un’interpretazione di Marx politicamente impegnata (qualsiasi sia stata la direzione di questo impegno). Se negli anni Settanta questa esegesi distaccata pagava l’inevitabile “freddezza” di fondo, oggi questa potrebbe funzionare per tornare a leggere Marx con occhi nuovi.