Una conversazione con Marina Forti, autrice di “Malaterra”.
Un viaggio nella storia ambientale italiana, tra aree a rischio e deindustrializzazione.
Soprattutto in questi giorni di rinnovato attivismo per spingere le istituzioni ad affrontare la crisi climatica, il libro di Marina Forti Malaterra. Come hanno avvelenato l’Italia (Laterza, 2018) è un libro necessario. Malaterra è una sintesi di storia industriale e storia delle lotte ambientali in Italia. Ed è un libro breve, una sorta di bignami dei disastri italiani, alcuni evitabili, altri sempre più complessi (e costosi). Il libro scaturisce da alcuni reportage commissionati da Internazionale, e altri che si sono aggiunti. Al centro ci sono racconti dalle zone che più sono a rischio ambientale in Italia, storie di deindustrializzazione o inquinamento come l’Ilva di Taranto, il polo petrolifero e petrolchimico di Priolo Gargallo e Melilli nel siracusano, il complesso siderurgico ormai dismesso di Bagnoli (Napoli), l’ex Alcoa di Portovesme che ha avvelenato con il piombo Portoscuso in Sardegna, l’inquinamento prodotto dall’azienda chimica Caffaro e dalle discariche nel bresciano, il petrolchimico di Porto Marghera, Seveso, la valle del Sacco nel basso Lazio avvelenata dalla concentrazione di aziende chimiche, farmaceutiche e meccaniche.
Quando Marina Forti risponde alle mie domande per il lavoro culturale, per me è una mattina d’inverno, mentre per lei è tardo pomeriggio. E in questa discronia di fusi orari non ho il suo libro con me, perciò nella prima domanda cito a memoria.
Mariaenrica Giannuzzi: Bisognerebbe chiedere ai pianificatori di allora perché un paese senza risorse petrolifere abbia puntato tutto sull’industria petrolchimica… scrivi, se ricordo bene, nel capitolo del libro dedicato all’Ilva di Taranto. A chi andrebbe fatta questa domanda?
Marina Forti: Beh la responsabilità politica di questa scelta deriva dai governi di allora. Dal Dopoguerra, cioè dalla ricostruzione, l’Italia ha puntato tutto sullo sviluppo del petrolchimico, mentre l’inizio dell’industrializzazione era stato basato sull’idroelettrico e sul carbone. Ma dagli anni Cinquanta c’è un cambiamento del paradigma energetico. L’Agip, l’Eni, i governi di allora, questi identificavano petrolio ed energia. L’Italia non aveva risorse petrolifere. Aveva certo avviato prospezioni, ricerche che si erano rivelate deludenti; l’Eni però aveva fatto accordi con paesi produttori, soprattutto in Africa, Iran e Algeria. Il petrolchimico in Sicilia, a metà del 1948, era stato messo lì proprio perché sulla rotta che dal canale di Suez attraversava il Mediterraneo. Il primo caso italiano di rapida industrializzazione, infatti, è Augusta Priolo dove la popolazione cresce di 50.000 unità nell’arco di pochi anni. Si pensava che il petrolio fosse l’energia del secolo. Inoltre, c’era l’idea di poter pianificare lo sviluppo industriale. Ad esempio era nel Piano Nazionale per l’acciaio e la siderurgia la scelta di potenziare Bagnoli e fare Taranto. Il territorio veniva dato in uso all’industria senza vincolo, come una risorsa gratuita a disposizione illimitata. Mentre il “costo ambientale” era semplicemente un male inevitabile del miracolo economico.
L’inquinamento era il prezzo da pagare per avere il lavoro, e i sindacati difendevano il lavoro. Solo negli anni Settanta, dopo vent’anni di sviluppo industriale, si è cominciato a parlare della nocività, dei rischi per la salute. Più volte durante le ricerche per il libro mi son sentita dire: finché c’era il lavoro non sentivamo l’inquinamento. Adesso il lavoro non c’è più, resta l’inquinamento, ma non abbiamo più neppure gli agrumeti o il mare pulito che c’erano prima.
Per decenni si è pensato che acqua e terra fossero risorse per lo sviluppo industriale senza limite e senza vincolo. Senza contare il costo umano. Insomma: i costi dell’industria sono emersi dopo. È stato un processo lungo; ci sono stati shock come l’incidente di Seveso, nel 1976, che ha messo sul tavolo la questione dell’impatto delle fabbriche sul territorio circostante: la legislazione ambientale in Italia è nata dopo quel disastro. Ma in generale solo quando il lavoro si è perso, con la deindustrializzazione, è diventato patrimonio comune il fatto che l’inquinamento dell’industria ha provocato danni irreversibili che vedremo anche in futuro. E che ci costeranno tantissimo.

M. G.: Vedi in questo momento una fase di costituzione politica intorno a partiti ambientalisti in Italia? Se penso ai Grünen in Germania, mi chiedo perché un esperimento analogo in Italia non abbia avuto la stessa durata.
M. F.: Difficile rispondere perché l’esperimento dei Verdi in Italia si è disperso. Certo è che diverse sigle della pur frammentata sinistra italiana hanno messo le questioni ambientali tra le loro priorità. Si tratta, d’altra parte, di avere una visione a lungo termine dei rapporti tra industria e ambiente, della mappa industriale del paese, delle politiche energetiche e di quelle agricole, delle scelte economiche da fare. Non credo che questo sia un fatto esclusivo di una forza politica ambientalista. Avere una visione a lungo termine dei rapporti tra industria e ambiente non è prerogativa di un partito ma di ogni forza che si definisca politica. Da ogni partito mi aspetto che sia in grado di avere una visione a lungo termine sulle politiche energetiche, ad esempio, o sulla mobilità. I Grünen, in effetti, hanno uno spazio diverso, ma io sarei più favorevole a una ricomposizione della sinistra intorno a una visione dello sviluppo sostenibile.
M. G.: Cosa ne pensi dell’intervento finanziario delle Nazioni Unite come possibilità di attuare gli accordi di Parigi [accordi firmati da 195 stati membri, negoziati nel 2016, che prevedono di contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei +2° rispetto all’età preindustriale]?
M. F.: Di strumenti finanziari si parla fin dal protocollo di Kyoto, il primo accordo internazionale che impegnava i paesi industrializzati a tagliare le emissioni di gas serra. Tutte le discussioni sul clima si sono svolte sul terreno della finanza, soprattutto sul principio dello “scambio di emissioni.” Ma c’è sempre un equivoco di fondo: i paesi si sono dati obiettivi da rispettare (l’EU afferma che ridurrà le emissioni di anidride carbonica del 40% rispetto al livello del 1990 entro il 2030), ma pensare che questo si possa fare semplicemente finanziando energie alternative e tecnologie “pulite” in paesi in via di sviluppo, semplicemente elude la necessità di fare cambiamenti strutturali qui, in tutti i nostri paesi. Questo può aiutare la contabilità delle aziende e la contabilità dei paesi, ma non cambia le regole con cui si organizzano i rapporti tra ambiente e industria. Ma così siamo passate dall’inquinamento al clima, che sono dimensioni attigue ma non la stessa cosa.
M. G.: Qual è il miglior complimento che ti abbiano mai fatto?
M. F.: Beh quello che mi hai fatto tu prima, che il libro è un lavoro di sintesi tra storia e lotte ambientali, questo mi sembra un bel complimento! In effetti, due riferimenti sono stati importanti per questo libro: da un lato, i lavori di Giorgio Nebbia sulla storia dell’industria italiana, i rapporti tra l’ambiente e le merci, la lente del marxismo, dall’altro, le storie ambientali del Novecento di alcuni storici contemporanei come Marino Ruzzenenti e altri, che del resto cito.
Per decenni, l’inquinamento è stato sottovalutato. E ho proprio cercato di far vedere il retroterra storico dell’industria. Le voci critiche sono state per molto tempo isolate. Così com’erano isolati casi di rivolta alle condizioni di nocività. Mi piace ricordare il piano regolatore di Venezia del 1962 che testualmente dice “[a] porto Marghera troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono fumo, polveri, ed esalazioni dannose alla vita umana.” Oggi questa cosa grida vendetta, ma allora era perfettamente legale e ovvia.
È vero, la coscienza ambientale si afferma a poco a poco e nei tardi anni Ottanta, quando il governo ha cominciato a riconoscere delle aree di “rischio ambientale”. Le denunce erano cominciate, però, molto prima, e in primo luogo nelle fabbriche tra le più nocive. Di nuovo a Porto Marghera a metà degli anni Sessanta uno strano operaio andava distribuendo volantini in forma di poesia. In un volantino del ’66, quello che si considerava uno stravagante, scriveva “Nel nostro reparto si lavora/ il cloruro [di vinile]/ abbiamo saputo di recente/ che è una sostanza/ cancerogena/ […] abbiamo parlato a lungo oggi di questo/ siamo stravolti/ duri brividi corrono ora sui finestroni del nostro reparto”. Oggi possiamo dire che questa sia stata una delle prime denunce sulla nocività in fabbrica, anche se allora lo consideravano uno stravagante.
Un’altra cosa importante è che fin dai primi casi di crisi industriale fin dall’inizio ci sono cittadini che protestano contro l’inquinamento e lavoratori che difendono il posto di lavoro. C’è ancora una forte opposizione tra difesa della salute e difesa del lavoro. E questo ha messo il sindacato in situazioni difficili. L’acciaieria di Taranto è un esempio di scontro tra chi vuole difendere la salute e chi il lavoro, e anche delle promesse di risanamento perennemente disattese. E questo scontro è una cosa assolutamente drammatica.
Grazie per questa intervista.
