Le radici del mare – Intervista a Leonardo Guzzo

Le radici del mare è una raccolta di racconti di Leonardo Guzzo uscita per Pequod. Un titolo che, al proseguire della lettura, svela un paradosso intrinseco: quello generato dalla tensione fra il concetto di “radice” e il continuo “oltre” cui l’universo fisico e simbolico del mare rimanda.

Il mare è fatto da molte cose, che stanno dentro e fuori di noi… Guardarlo possono guardarlo tutti, il punto è quello che riescono a vedere. Gli altri guardano le onde, le maree, gli stormi di uccelli e vedono segni, linee nell’acqua, migrazioni. È questo che vedono. Ma io vedo gioia e disperazione, fiducia, lealtà, coraggio. Come dentro un uomo, Gigì, come in una vita.

Di questa raccolta di racconti di ambientazione diversa, accomunati dal filo conduttore (il mare, naturalmente), l’autore dice:

Nei miei racconti ho voluto celebrare il mare come luogo dell’abisso e dell’orizzonte, come simbolo della precarietà e della meraviglia, del rischio e della conquista, dell’epica e della poesia della vita. Sono racconti di vite messe alla prova, vite che camminano sul filo, che si tengono in equilibrio senza cadere o cadono e si rialzano o cadendo si scoprono. Sono racconti diversi e simili, che provano a catturare almeno alcune delle cose che, dentro e fuori di noi, fanno “il mare”.

Le radici del mare è la celebrazione del mare come simbolo dell’umano immaginare e dello spingersi sempre più avanti con il pensiero, oltre quel confine che con la sua stessa presenza pone la tensione del “valicabile”. Ma in questo modo il libro sancisce la sacrosanta legittimità dell’autoinganno, dell’illusione, anche: l’immaginazione porta in acque ignote, e beffarde. Per fortuna.

Attraverso una lingua che è a volte calma e ondeggiante, altre volte increspata e in tempesta, altre ancora montante di polisindeti, il libro di Guzzo ci parla di un mare che come liquido amniotico è materno ma in quanto abisso è mortifero. E può esserlo perché in entrambi i casi non si tratta di caratteristiche a sé proprie, quanto di (semplici?) pulsioni umane che esso riesce ad accogliere, e a riflettere.

«Al mio elemento. Il mare incerto e duplice, fin dal nome. Maschio e femmina, lustro e desertico, marmoreo e mortale. E in fondo, tolto il vizio di distinguere e il lusso di capire, pace» recita l’intestazione di uno dei racconti (In fede, Ahab). Il mare di Guzzo non è uno specchio d’acqua, ma un infinito bacino di metafore.

M.T.G.: Lo scrittore Andrea Tarabbia ha definito il tuo libro “felicemente inattuale”. Come spiegheresti questa inattualità e che rapporto ha, se ce lo ha, con la genesi della tua scrittura?

L.G.: L’inattualità di cui parla Andrea Tarabbia è in parte riferita alla dimensione narrativa, che è nel libro come sospesa, priva di connotati spazio-temporali precisi. Ciò ha a che fare con la mia ricerca del mare come archetipo, simbolo generale e universale. D’altra parte l’inattualità è riferita alla mia scrittura che si caratterizza, credo, per una certa cura, il gusto per l’immagine e la suggestione, l’attenzione alle cadenze, allo stile tanto quanto all’oggetto. Tutto questo deriva da una mia autonoma “predisposizione dello spirito” quanto da certe influenze letterarie e produce una densità e, spero, uno spessore che richiede al lettore una maggiore dedizione dilatando i tempi di assimilazione, in contrasto con la tendenza più diffusa della letteratura contemporanea.

M.T.G.: Come nasce questo libro? L’impressione è che sia stata una genesi lunga e sedimentata, e che l’assemblaggio dei racconti sia avvenuto in un secondo momento. Non perché risulti  disomogeneo, sia ben chiaro, ma proprio perché si tratta di un progetto di ampio respiro che sembra difficile possa essere nato in breve tempo. È così?

L.G.: Ho scritto i dodici racconti nel corso di una decina d’anni e ovviamente la raccolta rappresenta l’evoluzione dei miei stati d’animo, delle mie esperienze, dei sentimenti che ho provato e delle vicende che ho attraversato. I punti di riferimento che ho cercato di tenere costantemente presenti sono due: la varietà dei temi e possibilmente delle strutture narrative e poi la presenza costante di una dimensione allegorica, di un “sottotesto”. Nel libro ci sono un racconto concepito come monologo (In fede, Ahab), un racconto d’avventura (La risalita), un racconto fantastico (I pescatori di Cork), un racconto di formazione (Le radici del mare), un racconto con elementi naturalistici (Finis terrae) e un altro con elementi di hard-boiled all’americana (Il vento se ne infischia). Ognuno di questi ha un “suo” significato simbolico, oltre il puro livello narrativo, ognuno cerca di svolgere un ragionamento, non per via logica ma piuttosto tramite segni, immagini, emozioni, suggestioni che stimolano l’intuizione. Ciò ha a che fare con la mia concezione della letteratura, che non solo meraviglia ma deve far pensare.

M.T.G.: La dimensione principale nella quale si trovano i protagonisti è quella del racconto del mare, piuttosto che del suo vissuto, della narrazione più che dell’esperienza. Questo non fa che accrescere la dimensione immaginativa: quella del narratore, che aggiunge qualcosa al racconto, e quella di chi ascolta, che a sua volta lo interpreta. – «Non era la prima volta che gli ospiti ascoltavano la sua storia» scrivi a proposito del protagonista del racconto Un altro mare – «ma la sua storia era sempre diversa e si nutriva della luce della luna, dell’ombra densa nel fitto degli ulivi, del vortice azzurro che avvolge ogni notte d’estate. E soprattutto si nutriva dei loro pensieri e dei loro sogni. Così potevano stare sicuri che anche quella volta avrebbero ascoltato una storia nuova». – Questo, insieme alle citazioni e ai riferimenti presenti – Borges, Melville, per citarne solo due – fa del tuo libro un libro sul mare ma anche sulla letteratura del mare. Il che, forse, è la stessa cosa?

L.G.: Il mio è un libro “marino” più che “marinaresco”. Parla del mare non in senso tecnico ma piuttosto del mare come metafora. Mare come racconto della vita, come scrigno di saggezza, come rappresentazione dell’idea di coesistenza, commistione, unione dell’essere col divenire, ricongiunzione del molteplice dentro un’unità che lo supera. Ma anche mare come libertà e patria cosmopolita, mare come ideale di grandezza, mare quieto e tempestoso, azzurro e torbido, attraente e pericoloso, emblema della duplicità essenziale del mondo.

Ho cercato di chiedermi quante cose, dentro e fuori dal mare, fanno “il mare”, dove stanno le radici, l’origine misteriosa, l’essenza profonda di ciò che il mare rappresenta. Ho cercato di farlo da varie prospettive – una per ogni racconto – ho cercato di narrare storie di vite che si confrontano col mare in un rapporto di sfida o collaborazione, di identificazione o contrasto. Alla fine, dopo tante vicende e conclusioni “particolari”, ho l’impressione che il discorso resti aperto; ed è questa, in fondo, la forza della metafora marina e della letteratura marina.

Il mare è per eccellenza movimento, rimescolio, non può essere dato o catturato una volta per tutte. Esistono, nello spazio e nel tempo, mari innumerevoli, ognuno col suo scopritore e il suo cantore. In più il mare non è solo se stesso; non è solo un elemento naturale, ma un fatto umano, un’idea filosofica che si precisa in relazione alla sensibilità umana. Il mare non si limita a se stesso: è il prodigio delle gocce che si fondono nell’acqua e dell’acqua che supera l’insieme delle gocce, perché contiene il cielo, le stelle, la “materia dei sogni”. Il mare è ciò che noi immergiamo in esso, ciò che in esso tuffiamo, ciò che siamo in grado di trarne, di tirare a galla. Questo processo è necessariamente inesauribile, personale e aperto a tutti.

Nel mio libro sono indubbiamente presenti forti riferimenti letterari. C’è il richiamo a un lungo filone di letteratura marina, a riconosciuti maestri (Hemingway, Conrad, Melville), a personaggi poderosi e celeberrimi come il capitano Achab. Si tratta però di riferimenti più inconsci che volontari: molti dei libri che mi hanno influenzato li ho letti /o “leggiucchiati” molto tempo fa e hanno agito sulla mia scrittura per via indiretta. Era piuttosto il ricordo, il sapore, la suggestione che la presenza fisica della pagina e la coscienza del suo contenuto effettivo. Ne sono risultate associazioni oblique, non scontate (come quella tra Borges e il mare) oppure ruminazioni, rimasticazioni personali di grandi miti letterari come nel racconto In fede, Ahab.

Il mio Ahab, tanto per intenderci, prende spunto da quello di Melville, ma è per molti versi trasfigurato. Non è la creatura diabolica e disumana descritta dallo scrittore americano; al contrario appare come un personaggio nuovo – umanizzato, romanticizzato – un personaggio che il giorno prima della lotta finale col mostro scrive una specie di testamento e arriva a dire una cosa che l’Ahab di Melville non direbbe mai: io non odio il mostro, lo ammiro anzi, in un certo senso ne sono attratto, ma devo lo stesso combatterlo, perché la mia ragion d’essere è nella negazione del mostro e il mostro è la mia negazione.

I miti letterari e la suggestione della grande letteratura marina sono in definitiva una bussola, un mezzo per scoprire o piuttosto percepire la straordinaria ricchezza simbolica del mare; sono d’altra parte un armamentario per modulare storie entro cui si dispiegano sempre una nota e un soffio personali.

M.T.G.: La tua scelta di rifarti a una «dimensione narrativa come sospesa, priva di connotati spazio-temporali precisi» come dici tu, porta alla mancanza di qualsiasi accenno al significato che il mare, il Mediterraneo in particolare, sta avendo in questo periodo: quello di spazio conteso e confine invalicabile della fortezza Europa, in cui tantissimi migranti perdono la vita. Come vivi questa assenza? Te lo chiedo anche perché in questo momento la narrativa italiana contemporanea sembra correre in tutt’altra direzione rispetto alla tua – a mio avviso felicissima – inattualità
, toccando tematiche sociali o civili e facendone uno dei nuclei centrali, seppur variamente declinati, della narrazione.

L.G.: Le radici del mare risponde in linea di massima a una scelta precisa quanto istintiva: tenere la narrazione su un piano essenzialmente letterario, costruire una dimensione metaforica, battere a volte la via del realismo, ma di un realismo pur sempre “simbolico”. Non è che il libro non parli del mare come argine, barriera invalicabile, o addirittura tomba, sulla via della libertà; solo lo fa nella forma che gli è più congeniale: quella della suggestione, del simbolo, che può essere più profondo e al tempo stesso più semplice di tante scomposte disquisizioni o rappresentazioni realistiche.

Ma più forte è, nella raccolta, l’idea del mare come tramite, patria cosmopolita, luogo della fratellanza e dell’alchimia tra gli elementi. In un racconto si parla dell’esperienza, insieme epica e tragica, dei nostri emigranti; in un altro si raffigura l’incontro tra il cristiano don Miguel e il turco Uluch Alì, il loro scontro che si trasforma pian piano in solidarietà e silenziosa compassione; un altro racconto ancora narra la storia favolosa di un uomo e di un capodoglio, di come s’incontrino, in un’atmosfera da inizio dei tempi, di come si scambino un dono destinato a stravolgere le loro vite: l’uomo restituisce la libertà al capodoglio, il capodoglio gli insegna la pace, la bellezza di restare, la “possente mitezza” che deriva dal senso delle radici, dalla consapevolezza di una patria.

Le radici del mare è un lavoro di fantasia ma non di evasione. Non ci allontana dalla realtà, ma in un certo senso ci tiene più legati ad essa. Ha una parola per la crisi materiale e spirituale di questa nostra epoca. Dice che il mare custodisce una parte profonda di noi stessi e contiene l’antidoto contro ogni miseria: ci trasmette la sua grandezza, ci insegna il potere della meditazione, risveglia in noi il sentimento della nostra anima.

[Per chi vuole leggere di altri libri di mare, qui un articolo di Francesco Longo apparso su Internazionale]

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