Il ritorno in classe è un problema di classe

Neanche a scuola il Covid-19 è il “great equalizer”

scuola Covid disuguaglianza
“Di notte sogno mostri e cose varie ma niente può superare il nostro legame”, frase e foto di Tea, 9 anni

In questi giorni irrequieti, mentre aspettiamo di capire in cosa consisterà la famigerata “fase due” della nostra forzata convivenza con il virus, una cosa è parsa chiara ai più: le scuole non riapriranno. Mentre alcuni discutono dell’opportunità di riformare una volta per tutte l’esame di maturità e le università si avviano abbastanza serenamente verso una didattica che sarà sempre più gestita su piattaforme digitali e sempre meno fatta di aule affollate, il terrore serpeggia fra i genitori con prole sotto il metro di altezza: nidi e materne potrebbero non aprire nemmeno a settembre. I motivi sono facilmente comprensibili: i minuscoli utenti di questi servizi non potrebbero indossare mascherine e avrebbero enormi difficoltà a rispettare le norme igieniche essenziali per impedire la circolazione del virus. Le conseguenze di una scelta del genere sono però molto meno pacificamente accettabili: come potranno i genitori rientrare al lavoro se i bambini non possono andare a scuola? Come si potrà garantire a un bambino la possibilità di socializzare con i suoi coetanei e di trascorrere qualche ora fuori dal ristretto cerchio del nucleo familiare se siamo certi che gli strumenti di protezione più utilizzati (la distanza, il tossire o starnutire nel gomito, l’indossare la mascherina, il non toccarsi la faccia) non possono funzionare per loro? Siamo proprio certi che il valore pedagogico della scuola materna sia completamente affidabile alle famiglie?

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“La scatola cattura-virus” disegno di Matteo, 6 anni.

Partiamo dalla prima domanda. Per le famiglie in cui uno dei due genitori è a casa il problema potrebbe essere presto risolto, ma questo non ci consola. Secondo il rapporto su famiglie e lavoro pubblicato da ISTAT nel 2018, complice la recessione, la percentuale delle famiglie italiane in cui entrambi i genitori lavorano è aumentata sensibilmente. Poiché la percentuale non è, come si può immaginare, equamente distribuita sul territorio nazionale, conviene guardare ai dati prendendo in considerazione le tre principali macroaree: parliamo del 55,4% delle famiglie se si prende in considerazione il Nord Italia, del 50,6% nel Centro Italia e il 26,4% nel Sud. A questo dato vanno aggiunte le famiglie monogenitoriali: 2 milioni e mezzo di nuclei famigliari su territorio nazionale, sempre secondo i dati ISTAT. Guardando a queste cifre, è abbastanza difficile ipotizzare che lo Stato potrà farsi carico di supportare economicamente delle alternative e che congedi parentali e bonus baby-sitter potranno essere estesi per così tanti mesi (l’ultima ipotesi lanciata sul tavolo è che le scuole per i più piccini non aprano prima di gennaio 2021). Lo scenario più plausibile, e assieme più preoccupante, vede le famiglie farsi carico da sole della gestione del rientro al lavoro con i figli a casa: chi ha la fortuna di avere a disposizione la preziosa risorsa dei nonni (residenti nello stesso comune e relativamente giovani e in salute) e coloro che potranno permettersi di ingaggiare una baby-sitter full-time potranno rientrare al lavoro se non serenamente almeno non con l’acqua alla gola, ma per tutti gli altri quali sono le soluzioni praticabili? Coloro che hanno un lavoro precario non rischiano di perderlo perché chiederanno più permessi per far fronte a queste nuove necessità?

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“Un altro giorno in casa”, la quarantena di Petra, 9 mesi, raccontata dal suo papà.

La situazione appare già piuttosto preoccupante se guardata solo dalla prospettiva del genitore lavoratore, ma purtroppo questo non è l’unico problema di cui è necessario tenere conto. Le scuole materne e i nidi, e forse le prime ancor più delle seconde, non sono solo un parcheggio dove i genitori lavoratori lasciano la prole in orario ufficio, sono anche preziose occasioni di socializzazione, momenti di scambio e di apprendimento e, soprattutto, sono dei luoghi in cui si assottiglia (o dovrebbe assottigliarsi) la diseguaglianza sociale. Non tutti i bambini hanno la fortuna di vivere in una casa ampia, con un giardino, con fratelli e sorelle con cui giocare e con stimoli costanti all’apprendimento (libri, giochi, esperimenti artistici e culinari). Mentre la quarantena ha fatto emergere la creatività di molti genitori e sul web si trovano migliaia di tutorial su come fare la pasta di sale o come costruire un teatrino di marionette in casa, non bisogna dimenticarsi di tutte quelle famiglie che non hanno accesso alle risorse per partecipare a questa nuova ondata di creatività domestica. Molti dei bambini che non torneranno in classe a settembre non avranno a casa libri da sfogliare, cartoncini e colori per colorare, giocattoli montessoriani con cui affinare le proprie capacità e verranno privati per un tempo lunghissimo di queste enormi possibilità di apprendimento. Molti di questi bambini vivono in appartamenti angusti, senza giardini né terrazze e il loro confinamento, non più di qualche settimana, ma di un intero anno scolastico (se si dimostrasse veritiera l’ipotesi di un rientro nell’inverno del 2021), potrebbe incidere fortemente sul loro benessere. La scuola, e questo mi sembra il momento giusto per ricordarlo, è il posto in cui bambini di estrazione sociale diversa possono accedere alle stesse opportunità: possono godere degli stessi strumenti e fruire delle stesse occasioni di apprendimento. La scuola è inoltre per molti l’unico luogo in cui è possibile socializzare, fare amicizia, imparare una relazione con l’altro alla pari e non mediata dal rapporto genitore-figlio, fratello/sorella maggiore-minore. Siamo sicuri che tutte queste perdite non valgano una maggiore riflessione?

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