Pubblichiamo un estratto di “Femminismi e Islam in Marocco. Attiviste laiche, teologhe, predicatrici” (Edizioni Scientifiche Italiane, Collana Arabo-Islamica, 2017), di Sara Borrillo.
In Occidente si affronta il tema della relazione tra diritti delle donne e Islam attribuendo generalmente a quest’ultimo la responsabilità delle discriminazioni di genere nei paesi in cui è credo maggioritario e fonte di normatività sociale e giuridica. Quest’idea molto diffusa è collegata a due assunti erronei: innanzitutto essa è fondata su una concezione monolitica e astorica dell’Islam, che è sì ispirato ad un unico testo sacro, il Corano, ma che assume molteplici connotazioni spirituali, dottrinali, giuridiche e normative a seconda dei contesti in cui si è radicato.
In secondo luogo, analogamente, le donne in contesto islamico vengono considerate un insieme omogeneo di eterne vittime del patriarcato d’ispirazione islamica, secondo una visione orientalistica e salvifica nei loro confronti. In alternativa ad un simile approccio, questo lavoro mette in luce la complessità e l’eterogeneità dei discorsi e delle pratiche di lotta delle donne attive per i propri diritti e per la riforma delle società della regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa).
In particolare, il Marocco rappresenta un contesto in cui i movimenti femminili e femministi hanno avuto un significativo impatto nella storia politica e sociale del paese e nell’adozione delle più recenti politiche di genere. Come vedremo, questa complessità permette di decostruire sia l’idea di un Islam immutevole e di per sé discriminatorio, sia l’idea dell’incapacità delle donne in contesto islamico nel reagire a dinamiche patriarcali.
A riguardo, è possibile osservare una continuità storica nella relazione tra le molteplici forme di attivismo in favore dei diritti delle donne e le diverse elaborazioni dell’Islam nella regione MENA. Qui, infatti, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, la questione dell’emancipazione femminile è stata al centro del dibattito interno alla società civile, divisa tra l’adesione ai valori del progresso politico e socio-economico della modernità europea e il rifiuto del discorso occidentale, percepito come coloniale. L’argomento delle relazioni di genere, e in particolare del ruolo femminile in società, è divenuto un terreno di scontro ideologico di due visioni del mondo orientate, da un lato, al riformismo modernista e, dall’altro, all’autenticità culturale e alla “retradizionalizzazione” islamica.
Mentre gli intellettuali della Rinascita (nahḍa) sostenevano la necessità di riconoscere alle donne alcuni diritti, in primo luogo l’istruzione, i più conservatori insistevano sul controllo dei corpi e delle libertà femminili per preservare l’integrità della comunità islamica (umma) dall’invasiva contaminazione con l’Occidente. In questo scenario, Margot Badran colloca l’apparizione del termine “femminista” nell’Egitto degli anni ’20, quando circolava sia in francese che in arabo come nisā’iyya, sebbene questo aggettivo non possa essere inteso come una traduzione esatta di “femminista” perché si riferisce a ciò che più in generale riguarda le donne (al-nisā’).
Successivamente, nel periodo di maggiore attenzione ai diritti delle donne a seguito dalla conferenza ONU di Pechino del 1995, la parola niswiyya si riferiva al femminismo in modo inequivocabile. Quanto al Marocco, Fatima Sadiqi fa riferimento a taḥrīr, inteso come liberazione delle donne dalla tradizione, e a taḥarrur, come processo consapevole di miglioramento della condizione femminile attraverso la rivendicazione di precisi diritti.
Le prime lotte femminili nella scena pubblica in area MENA si sono manifestate con la partecipazione delle donne ai circoli anti-coloniali e si sono strutturate attraverso la loro presenza nella stampa e nella produzione letteraria, in associazioni filantropiche, caritatevoli e assistenziali, per poi divenire più radicali nella militanza in sezioni femminili di sindacati e partiti, soprattutto socialisti e comunisti, fino all’istituzione di più recenti associazioni e ONG femministe. Uno degli ostacoli all’efficacia del movimento per i diritti delle donne, soprattutto tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, risiede nella problematicità dell’adesione delle militanti al femminismo, generalmente considerato simbolo di occidentalizzazione e laicità, dunque ideologia anti-islamica e in conflitto con la parte maschile della società.
Con il crescente consenso rivolto a partiti e movimenti islamisti, in particolare dopo la Rivoluzione iraniana (1979), il cammino del femminismo di stampo laico si è fatto ancor più impervio. Il 1979 infatti rappresenta una cesura storica per il destino dei discorsi e delle politiche collegate all’Islam e al genere, laddove i diritti delle donne parvero stretti nel confronto tra un movimento e un contro-movimento, tra due visioni del mondo contrapposte: l’una espressione del rispetto dei valori ugualitari universali e l’altra di un relativismo culturale favorevole alla limitazione delle libertà femminili.
Nello stesso anno in cui l’Assemblea Generale dell’ONU approvava il testo della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW, 1979; in vigore dal 1981), il processo di islamizzazione innescato dalla Rivoluzione iraniana faceva del corpo femminile il terreno simbolico di una rigida moralizzazione di leggi e comportamenti sociali. Tuttavia, mentre la morsa del revival islamico si faceva più stretta, emergeva un movimento di studiose contrarie sia all’ideale universale di emancipazione femminile “all’occidentale”, sia all’applicazione di regole di condotta “all’islamica”.
Sulle colonne della rivista iraniana Zanan (Donne) alcune intellettuali e militanti proposero il rinnovamento della lettura delle fonti sacre attraverso l’uso del ragionamento critico (iğtihād), nell’ambito di un movimento riformatore teso a creare un ponte tra femminismo secolare e religiosi. È in questi primi tentativi di riforma dall’interno della società che origina il cosiddetto “femminismo islamico”, un discorso solo apparentemente ossimorico che sembra avere oggi un margine di negoziazione con il patriarcato più ampio in virtù del suo radicamento nel framework religioso.
Il dibattito ha via via coinvolto figure di religiosi progressisti e femministe attive anche all’estero finché, nel febbraio 1994, il femminismo islamico è stato presentato sulla scena accademica globale in una conferenza alla SOAS di Londra, dove Afsaneh Najmabadi semplificò le premesse di quello che è stato poi definito gender ğihād.
Anche il Marocco è stato ed è terreno della competizione tra due macro-discorsi, corrispondenti con le posizioni di coloro che la storica Zakya Daoud definisce “progressisti”, sostenitori di una riforma sociale e politica fondata sui valori ugualitari della cittadinanza moderna, e “passatisti”, difensori di un’organizzazione sociale supportata da una visione più rigorista dell’Islam e delle relazioni tra cittadini. Questo confronto si è traslato nella produzione di due progetti di società ispirati o al riferimento valoriale delle convenzioni internazionali per i diritti umani universali o all’Islam. Il primo è animato da sostenitori dell’uguaglianza (musāwā) di genere nell’ambito di un’organizzazione sociale improntata al rispetto dei diritti individuali sanciti nelle convenzioni internazionali e di uno Stato laico, in cui l’Islam afferisca alla sola sfera privata dei cittadini, e non alla normatività giuridica e sociale. Promotori di questa posizione sono per lo più militanti, intellettuali, accademici/che e femministi/e, convinti/e che una democrazia moderna debba fondarsi sulla capacità dello Stato di diritto di garantire l’uguaglianza di diritti e responsabilità tra tutti i cittadini, soggetti femminili compresi, e che il mancato rispetto di tale garanzia d’uguaglianza, formale e sostanziale, testimoni l’incompiutezza dell’ambita transizione democratica del paese.
I sostenitori del principio della complementarità (takāmul) concepiscono, invece, una netta divisione di genere del lavoro sociale, definito in base alle caratteristiche biologiche degli individui, per cui agli uomini viene generalmente associato il valore della virilità, del rischio, del monopolio della violenza, della responsabilità familiare e collettiva e il campo d’azione del politico, del pubblico, del remunerato, e alle donne è accostata remissività, modestia nei costumi, pazienza e agibilità nel campo apolitico, privato e non remunerato. Il confronto tra i principi di uguaglianza e complementarità di genere caratterizza anche oggi la relazione tra discorsi femministi e discorsi ispirati all’Islam, in cui s’inserisce, come terza via tra i due insiemi discorsivi, la prospettiva del femminismo islamico, sostenuto da accademici e militanti favorevoli all’uguaglianza di genere secondo una piena compatibilità tra il discorso dei diritti umani e l’Islam, inteso come sistema morale e spirituale portatore di solidarietà e giustizia.
In tale scenario questo testo prende in esame l’interazione dei discorsi collegati all’Islam, ai femminismi e ai diritti delle donne e al modo in cui questa relazione viene interpretata, vissuta e negoziata dagli attori sociali e dal potere centrale in Marocco, anche a seguito delle sollevazioni popolari del 2011. La massiccia presenza femminile nelle manifestazioni di piazza ha, infatti, riportato la questione dei diritti delle donne al centro dei processi di contestazione e ridefinizione delle norme giuridiche e sociali. In particolare, il confronto competitivo tra il principio di uguaglianza e quello della complementarità di genere è stato evocato a più riprese nel dibattito sulla modifica costituzionale, così come è avvenuto in Egitto e Tunisia.
Il Marocco è considerato tra i paesi più avanzati della regione in termini di riconoscimento dei diritti delle donne: le politiche di genere degli ultimi decenni hanno senz’altro favorito il protagonismo femminile sociale, politico, economico, anche a causa dell’ingerenza delle istituzioni finanziarie e della cooperazione internazionale nella definizione di alcune riforme. Ciò non toglie che una persistente discriminazione di genere continui ad essere molto radicata nel paese, a causa della reciproca legittimazione tra potere politico, discorso religioso e patriarcato.
L’arco temporale di riferimento di questo libro va dall’indipendenza (1956) ad oggi e si concentra sulla fase della cosiddetta “transizione democratica”, avviata da Re Ḥassan II ad inizio anni ’90 ed entrata nel vivo con la successione al trono di Muḥammad VI (1999). Tra il 1993 e il 2013, nello specifico, sono state adottate le principali riforme di genere nell’ambito di un processo d’incorporazione del riferimento ai diritti umani universali nelle politiche pubbliche e fino al riconoscimento del principio di uguaglianza tra uomini e donne nella nuova Costituzione, adottata a seguito delle proteste del Movimento del 20 Febbraio (M20F) del 2011. L’adozione di tali politiche si deve, da un lato, all’attivismo della società civile in cui hanno trovato spazio anche gli ideali ugualitari femministi e, dall’altro, alla strategia di equilibrio portata avanti dal regime nel gestire tali rivendicazioni. E ciò nel segno di un costante compromesso tra forze progressiste e conservatrici operato secondo la retorica della transizione alla modernità e in rigida continuità con i pilastri dello Stato enunciati nella divisa nazionale “Dio, patria, Re” (Allāh, al-waṭan, al-malik).
Qui ci si sofferma particolarmente sulla riforma del Ministero degli Affari Islamici del 2004 che ha promosso l’accesso delle donne alle professioni religiose, sia come predicatrici dell’Islam (muršidāt, sing. muršida, lett. guida, orientatrice) nello spazio pubblico e ufficiale della moschea, sia come esperte in scienze religiose (‘ālimāt, sing. ‘ālima, lett. sapiente). Si è scelto di esaminare questa riforma perché promuove l’insegnamento e l’elaborazione dei precetti islamici al femminile in luoghi tradizionalmente monopolizzati da voci maschili, ponendo il paese in una posizione di discontinuità non solo rispetto agli altri paesi della regione, ma soprattutto rispetto alla consolidata prassi di esclusione delle donne dalle istituzioni e dal discorso islamici.
Ad alcuni media internazionali e italiani questa misura è parsa rivoluzionaria perché considerata promotrice del ruolo di donne imam, cosa che – come vedremo – non è. Tuttavia, qui non si ritiene che la semplice partecipazione delle donne alle strutture del potere religioso marocchino possa essere di per sé un indicatore sufficiente a dimostrarne una maggiore democraticità. Piuttosto, vengono qui indagati gli obiettivi politici della promozione di ruoli femminili nella sfera pubblica islamica.
A tal fine ci si chiede innanzitutto come mai emerga in Marocco uno spazio per l’autorità femminile religiosa in moschea e nell’Islam di stato e a vantaggio di quali attori venga utilizzata quest’autorità. Per questo, vengono approfonditi i discorsi funzionali e le opinioni delle protagoniste della riforma riguardo al rapporto tra tutela dei diritti delle donne e Islam e di questi si valuta l’influenza sul più ampio impianto islamico ufficiale relativo ai ruoli di genere. In altre parole, ci si chiede se e in che modo la partecipazione delle donne alla burocrazia islamica marocchina sia rilevante per l’affermazione del principio di uguaglianza di genere in società o per la diffusione di discorsi alternativi rispetto a quello egemone incentrato sulla complementarità.
Quali sono le leve di trasformazione sociale e i limiti della riforma? In che modo la partecipazione femminile alla predicazione (iršād) e all’elaborazione del sapere religioso (‘ilm al-dīnī) influenza la concezione di diritti e responsabilità di genere del discorso islamico ufficiale in Marocco? Per rispondere a queste domande, i discorsi delle protagoniste della riforma degli Affari Islamici sono esaminati alla luce del dibattito pubblico su genere e Islam e sono comparati a quelli di esponenti del femminismo laico, islamico e dell’attivismo femminile islamista. E ciò al fine di restituire l’eterogeneità di discorsi e forme di mobilitazione che caratterizzano l’attuale fermento sociale marocchino, in cui le rivendicazioni dei diritti civili e socio-economici sono sempre più centrali.