Per una nuova retorica del conflitto

Pubblichiamo un estratto di “Per una nuova retorica del conflitto”, il saggio introduttivo di Marco Tabacchini al testo di Ernesto Laclau, “Le fondamenta retoriche della società”, edito da Mimesis.

Il testo indaga le produzioni discorsive che innervano la società, articolando il campo entro cui ciascuna vita è messa in gioco.

Tradizionalmente concepita come mera arte dell’ornamento, o come tecnica degli scarti e delle deviazioni rispetto a un linguaggio primo, nella sua letteralità originaria, la retorica era stata considerata come una dimensione peculiare dell’uso e, di conseguenza, estranea alle regole linguistiche. Con Laclau, al contrario, la retorica finisce per ricevere il suo più alto riconoscimento proprio a partire dall’impossibilità di una letteralità qualsiasi. Ripercorrendo gli studi di Jakobson sulla polarizzazione che interessa metafora e metonimia, così come quelli di Saussure in merito alla qualità analogica ed essenzialmente tropologica del linguaggio, Laclau sottrae la retorica dall’ambito separato a cui era stata precedentemente relegata per assegnarle una funzione di strutturazione linguistica. Essa, infatti, non è più presentata come un insieme di tecniche, bensì quale vera e propria logica di produzione della significazione: la retorica è ciò che dispiega le condizioni di significazione entro il campo della discorsività, nonché lo sviluppo degli stili e dei modi di conduzione dei discorsi che in questo premono per estendere la propria egemonia.

Si è visto come, dalla prospettiva dell’ontologia generale qui proposta, l’ambito del discorso non concerne tanto l’insieme degli atti di parola, quanto piuttosto, secondo un senso ben più ampio, l’istituzione di una relazione di significazione che, come tale, accompagna qualsiasi pratica sociale. Una volta attribuito un carattere discorsivo alla costruzione delle relazioni sociali, gli effetti prodotti dalle operazioni discorsive di significazione si troveranno a coincidere con altrettante forze reali che contribuiscono a modellare il sociale: ogni discorso, in tal senso, coinciderà con un regime di possibilità di legame condiviso.

Laclau potrà così indicare come compito principale di una politica radicale quello di «costruire dei linguaggi in grado di fornire elementi di universalità che rendano possibile l’instaurarsi di legami equivalenziali»1 e, dunque, l’emergenza di un “noi” ancora inaudito. Ciò è possibile solo attraverso un processo di universalizzazione delle domande che hanno permesso a una precisa soggettività di emergere politicamente (vale a dire, in termini gramsciani, che hanno permesso il passaggio da una soggettività “corporativa” a una soggettività “egemonica”). Una tale universalizzazione, con la conseguente costituzione di catene equivalenziali tra differenti domande e posizioni soggettive, non può prescindere, tuttavia, dal comportare uno svuotamento dei caratteri particolari della soggettività che si trova a incarnare quella pienezza assente a cui, di volta in volta, è stato dato il nome di “noi”, “Società”, “comunità” o “popolo”. Questo perché, precisa Laclau, «la costruzione di una soggettività popolare è possibile solo sulla base di una produzione discorsiva di significanti tendenzialmente vuoti»,2 ma che proprio per questo possono lavorare alla nominazione di quanto si presenta incommensurabile.

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Laclau definisce tale processo in termini di «metaforizzazione del contenuto letterale di una particolare domanda sociale»,3 là dove questa è spinta oltre la sua particolarità per significare una pienezza assente. La sua efficacia diventa così egemonica nel momento in cui si propone come metafora di tale pienezza e, dunque, come rimedio alle lacerazioni che impediscono al sociale di superare la propria divisione (ossia di farsi compiutamente società). Tale efficacia deriva, infatti, dalla capacità metaforica che un contenuto concreto presenta nel rappresentare una simile unità, tanto che gli elementi specifici attraverso i quali quest’ultima sarà pensata non saranno altro che i materiali grezzi e contingenti con cui è stato possibile edificare il mito di una chiusura completa («una letteralità pienamente realizzata»)4. È per questo motivo che i significanti a partire da cui i discorsi antagonistici si edificano sono tendenzialmente vuoti e perfino ambigui, ma per ciò stesso in grado di articolare i più diversi contenuti concreti: «il nocciolo dell’immaginario sociale è ciò che abbiamo chiamato significanti vuoti. È il carattere vuoto di questi punti di ancoraggio che universalizza realmente un discorso, rendendolo la superficie di iscrizione di una pluralità di domande, al di là del loro particolarismo».5

Entro un simile regime metaforico generalizzato, ogni tentativo di riempire quel vuoto non potrà che esporre la stessa funzione di riempimento e, di conseguenza, anche lo scarto che impedisce al contenuto fattosi carico di tale funzione di coincidere pienamente con un universale. Ma è proprio tale scarto a esporre il carattere squisitamente retorico di ogni pretesa fondazione della totalità assente: ogni sua rappresentazione – ogni riempimento del vuoto con un contenuto particolare – non potrà che comportare una trasformazione metaforica dell’oggetto investito in direzione di qualcosa che sembra cancellare le tracce della sua limitatezza.

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Proprio un simile movimento tropologico, grazie al quale una differenza particolare si fa portatrice del compito di rappresentare una totalità impossibile e a essa incommensurabile, garantisce il carattere a un tempo di novità e di rottura che contraddistingue ogni rapporto egemonico: è infatti l’inaudita contingenza con cui la funzione di riempimento è effettuata, in quanto non necessariamente associata ad alcun contenuto particolare, a consentire l’antagonismo con cui si oppongono tutti i discorsi che mirano a incarnare la pienezza assente nei propri contenuti.

La scommessa che il presente libro pone in gioco è che un simile statuto retorico non si limiti a proporre un’esperienza puramente linguistica,6 ma che si configuri come dimensione fondamentale, nonché fondativa, per qualsiasi operazione di soggettivazione collettiva, là dove questa consiste in una pratica ideologica di articolazione e significazione degli elementi del sociale. «In tal senso», afferma Laclau, «una retorica generalizzata – che necessariamente include in sé la dimensione performativa – trascende tutti i confini regionali per divenire contigua alla strutturazione della stessa vita sociale».7 Essa si avvicina così al progetto di un’ontologia sociale il cui compito primo sembra essere quello di sostenere e permeare la densità materiale delle molteplici pratiche e istituzioni attraverso le quali il sociale non cessa di essere strutturato. Si tratta, d’altra parte, di un progetto di lunga data, poiché riprende e approfondisce un’affermazione già formulata, a suo tempo, in Egemonia e strategia socialista, secondo la quale «[s]inonimia, metonimia, metafora non sono forme del pensiero che aggiungono un secondo senso a una letteralità prima, costitutiva delle relazioni sociali; sono invece parte dello stesso terreno primario sul quale il sociale si costituisce».8

A partire da una simile teoria politica della significazione, la retorica si dimostra costitutiva di tutte le pratiche che, interessate a coinvolgere soggetti differentemente posizionati entro il testo della società, implicano la produzione di specifici mezzi di rappresentazione – quali sono, appunto, i significanti fluttuanti e vuoti – in grado di operare nel discorso come altrettanti punti di ancoraggio per nuove forme di azione collettiva. È proprio la qualità retorica delle connessioni che sostengono il sociale a consentire, dunque, di presentare ogni configurazione effettivamente esistente come segnata da una contingenza inaggirabile, sempre esposta ai movimenti, agli spostamenti e alle dislocazioni entro l’architettura dei significati istituiti – quei discorsi che, nei termini di Laclau, tendono a presentarsi come altrettante «totalità significativ[e] che trascend[ono] la distinzione tra il linguistico e l’extra-linguistico»,9 per avvicinarsi sempre più all’insieme stesso delle pratiche articolatorie che costituiscono tanto i rapporti sociali quanto lo stesso significato che questi assumono agli occhi di coloro che ne sono irretiti.

Lo spazio occupato dal discorso si presenta dunque come uno spazio di appropriazione dei significanti disponibili in vista di un’articolazione significativa, secondo il ritmo di un movimento figurale che permette loro di significare un’eccedenza altrimenti irrappresentabile. Un discorso non potrebbe nemmeno giocare il ruolo articolante a lui proprio senza un simile intervento retorico il quale, nel momento stesso in cui opera alla produzione del nuovo significato, cancella le tracce di qualsiasi letteralità presupposta. O meglio: dal momento che ogni rapporto tra significante e significato si presenta in termini di articolazione e non di sovrapposizione, dunque in termini di produzione contingente di senso, esso si svolge per necessità in un regime contraddistinto dall’assoluta assenza di letteralità. Così, non appena il discorso è elevato a terreno di costituzione di ogni significazione, i movimenti retorici diventano costitutivi della discorsività in quanto tale: la specifica coesione di ogni discorso dipende, infatti, dall’incrocio di una trama metonimica, ossia dall’articolazione contingente delle differenti posizioni soggettive nelle catene di equivalenza, con una condensazione metaforica, in grado di fissare un significante a punto nodale di tenuta dell’intero discorso.

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La dimensione retorica del discorso, operando al cuore della tensione che oppone il sociale al politico, si presenta così come un generatore di matrici identificatorie sulle quali si struttureranno, in seguito, i processi di identificazione che travalicano ogni soggettività precostituita. È proprio una simile indeterminazione a infrangere la possibilità stessa di una totalizzazione del sociale, ormai ridotto a campo di spostamenti contingenti, nonché ad inaugurare, in un medesimo tempo, quella guerra di posizione la cui flessibilità strategica, per Laclau, costituisce la politica nel senso più preciso del termine.

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Note

  1. E. Laclau, “La struttura, la storia, il politico”, Judith Butler, Ernesto Laclau, Slavoj Žižek, Dialoghi sulla Sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 209.
  2. E. Laclau, “Populism: What’s in a Name?”, in F. Panizza (a cura di), Populism and the Mirror of Democracy, Verso, London-New York 2005, p. 40.
  3. Ernesto Laclau, New Reflections on the Revolution of Our Time, Verso, London-New York 1990, p. 64
  4. Ivi, p. 63.
  5. E. Laclau, “La struttura, la storia, il politico”, cit., p. 211.
  6. Ci sia permesso di chiarire come, per Laclau, non si dia alcuna definitiva partizione tra il linguistico e l’extra-linguistico. Il carattere artificiale con cui si pretende di istituire una simile partizione non nasconde il proprio legame con quell’altra forma di partizione, quella tra teoria e pratica, che rischia ad ogni istante di liquidare ogni gesto propriamente filosofico: «poiché le categorie teorico-politiche non esistono soltanto nei libri, ma sono anche parte dei discorsi che effettivamente informano le istituzioni e le relazioni sociali, queste operazioni decostruttive sono parte integrante della produzione di vita politica». Cfr. Ernesto Laclau, “Introduction”, in Id. (a cura di), The Making Of Political Identities, Verso, London-New York 1994, p. 2.
  7. E. Laclau, Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 85.
  8. E. Laclau, Chantal Mouffe, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, il Melangolo, Genova 2001, p. 180.
  9. E. Laclau, Discourse, in R. E. Goodin, P. Pettit (a cura di), A Companion to Contemporary Political Philosophy, Blackwell, Oxford 1993, p. 545.
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