Editoria: ritorna il progetto? Coinvolgere i lettori, creare nuovo pubblico

L’articolo che segue è il primo di due interventi sul lavoro editoriale a cura di Giacomo Giossi che ha rivolto qualche domanda agli addetti ai lavori, a ridosso della XXIX edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino.

Dopo i recenti acquisti dei grandi gruppi si guarda anche e soprattutto ai medi e ai piccoli editori, le strategie e le buone idee per consolidare i propri lettori e forse inaugurare un nuovo corso del settore e della cultura.

L’editoria in questi anni sta vivendo enormi cambiamenti: da un lato, si assiste alla nascita di nuovi gruppi che tendono a governare il mercato intervenendo, oltre che a livello produttivo, anche distributivo; dall’altro, si osserva sempre di più la difficoltà degli editori indipendenti di emergere sul mercato e di dare visibilità alle loro proposte. Tuttavia esistono sentieri diversi e possibili.

Abbiamo incontrato alcuni tra gli editori che, negli ultimi anni, stanno sperimentando percorsi inediti e innovativi e che tornano a ragionare sul senso del fare editoria e, soprattutto, su un rapporto attivo con i lettori. Da un editore capace di reinterpretare il senso più profondo della tradizione editoriale di progetto come Il Saggiatore, che vede alla direzione editoriale dal 2014 Andrea Gentile, a un editore che come Topipittori – fondata nel 2004 da Paolo Canton e Giovanna Zoboli – ha innovato la produzione e la comunicazione nell’editoria per bambini e ragazzi. E poi nottetempo, oggi a un importante passaggio di consegne tra Ginevra Bompiani e Andrea Gessner (abbiamo intervistato Chiara Valerio, direttrice della collana narrativa.it di nottetempo), e le Edizioni di Comunità, guidate da Beniamino de’ Liguori Carino nel solco della tradizione, ma soprattutto del messaggio olivettiano di indipendenza e quindi nella valorizzazione di un catalogo dal valore culturale inestimabile. Infine, la rediviva Baldini Castoldi, guidata da Michele Dalai e con alla direzione editoriale Corrado Melluso, con un progetto editoriale nuovo e ambizioso; e una casa editrice di nicchia e raffinatissima come Humboldt Books, guidata e fondata dalla fotografa Giovanna Silva: un’editoria capace di abbracciare i più svariati elementi dello spettro culturale contemporaneo con una proposta mai banale in cui il libro di viaggio s’incrocia con il libro fotografico e con il libro d’artista.

Qual è il senso oggi per del lavoro editoriale?

Andrea Gentile (il Saggiatore): Il lavoro editoriale, e più in generale il lavoro, raccoglie attorno a sé molteplici funzioni. Nel Timone d’Atene, William Shakespeare fa dire ad Apemanto che «gli uomini chiudono la propria porta contro il sole che tramonta». Il lavoro editoriale, per quel che mi riguarda, è esattamente l’opposto: aprire la propria porta al sole che tramonta, ma anche al sole che sorge, scardinare la porta medesima e frantumarla, fare di quelle schegge nient’altro che diamanti da conservare. Si tratta, in poche parole, di guardare al futuro, di essere contemporanei degli uomini futuri e del futuro di noi stessi, di quello che saremo e di quello che non saremo. Il lavoro editoriale è poi, per ciò che concerne il mio sentire, un ulteriore strumento di poetica, oltre alla scrittura. Sempre con l’obiettivo della sostenibilità, ogni libro pubblicato va letto come un verso, una sillaba, un ottonario, persino una riga di prosa delle più sciatte, di un unico grande poema che è il catalogo. Altro elemento di senso fondamentale per me è la costruzione di un gruppo di lavoro e di pensiero. Intendo la casa editrice come un luogo di incontro: che siano figure interne o esterne (traduttori, autori, curatori): da ogni visuale può nascere una sinergia, una costruzione di senso profonda, un progetto, una visione di lunga durata. Tutto ciò che ci rimane, da sempre, è l’umanità e non è poco.

Giovanna Zoboli (Topipittori): Direi che non è cambiato da quello di sempre: offrire strumenti di conoscenza e di pensiero. Il che significa fare in modo che i libri siano il risultato di una ricerca accurata su autori, linguaggi, temi, forme. La qualità dei risultati sta nella qualità di questa ricerca: non si scappa, non c’è altro modo, ancora oggi, per essere buoni editori, che si punti a un prodotto popolare o no. In più direi che oggi fa parte del lavoro editoriale divulgare la conoscenza dei processi editoriali al pubblico dei lettori. La valutazione del valore del libro dipende anche dalla capacità di chi lo produce di esplicitare il senso e il metodo della costruzione del progetto editoriale, che è parte fondamentale del lavoro culturale dell’editore. Un lavoro che non va confuso con quello della comunicazione pubblicitaria e che oggi trova nel web e i social network canali elettivi.

Corrado Melluso (Baldini&Castoldi): Credo che sia in parte assimilabile alla militanza politica, ma lavorando sull’inconscio (culturale e linguistico, e quindi sostanzialmente pre-politico) delle persone. Lo vivo, in fondo (in maniera davvero ottimistica), nei termini di egemonia e futura umanità. Sono molto d’accordo con David Peace quando dice che le Cinquanta sfumature sono un romanzo allegorico perfetto e deteriorissimo di propaganda capitalistica: il sesso debole e la classe debole vengono violati e umiliati da un rappresentante del sesso forte e della classe dominante, e la cosa è, nei fatti, rappresentata come se fosse desiderabile, e attraverso il meccanismo d’implicita complicità con la protagonista…, o Hunger Games, che mette in scena la competizione turbocapitalista in maniera così diretta da figurare degli adolescenti che si massacrano tra loro. Questi romanzi hanno venduto milioni di copie e modificato davvero l’immaginario collettivo, mentre narrazioni più cogenti, più esplicitamente necessarie, non sono andate oltre il migliaio. E allora è una questione di lingua, di modalità narrative, di composizione di trama. Il lavoro che conduco si svolge, quindi, su due binari paralleli: da un lato si resiste, dialogando coi pochissimi lettori veri che sono rimasti proponendo loro opere dal sicuro valore sia letterario che analitico, dall’altro si contrattacca, pubblicando e diffondendo opere di narrativa popolare, spesso di genere, e che muovendosi dentro una grammatica certa e predefinita, rigettano qualsiasi prospettiva reazionaria, ma anzi assolvano a un ruolo tutto sommato didattico, restituendo tempi storici, interazioni sociali e questioni sulle quali, altrimenti, quello specifico lettorato non avrebbe mai riflettuto.

Beniamino de’ Liguori Carino (Edizioni di Comunità): Ci sono due aspetti che mi sembrano diano senso più degli altri al lavoro editoriale per come l’intendo io. Il primo mi pare essere di natura sociale: riguarda l’impatto nella realtà di una propria visione del mondo che dall’intimità viene proiettata verso l’esterno; una visione che si decide di mettere alla prova del mercato e del pubblico perché questi la giudichino e restituiscano la misura della bontà o meno di quella visione. Ci dicano, insomma, se ciò che abbiamo voluto condividere con loro e il modo in cui lo abbiamo fatto è comprensibile e, soprattutto, se è interessante; il secondo aspetto ha invece a che fare con una dimensione che, come nel primo caso, nasce da un urgenza intima ma che anziché essere proiettata verso l’esterno è, in primo luogo, ombelicale: vale a dire il gusto del dettaglio, ovvero il lavoro di redazione, la trasformazione di un progetto in un prodotto autonomo, equilibrato e di senso anzitutto per se stessi oltre che, poi, per gli altri.

Il lavoro editoriale, per quel che mi riguarda, è perciò una miscela di artigianato e ambizione di serialità. Il senso oggi del lavoro editoriale credo sia la necessità di sapere che esiste la misura nella cose e che può essere appassionante, divertente e molto gratificante lavorare per rispettarle. Avere il senso della misura è importante in epoche di scompostezza.

Chiara Valerio (nottetempo): Il mio lavoro principale è leggere i libri, ed è quello che ho sempre fatto e che farò sempre. Ogni tanto mi capita di pensare, senza angoscia, al fatto di smettere di scrivere, o all’occasione. Non mi capita mai di pensare che smetterò di leggere. Quindi per me i libri non sono esattamente un lavoro – anche se vivo di questo, in varie forme – sono un modo di stare al mondo. E penso il lavoro editoriale consista nel mostrare, attraverso i libri che pubblichiamo a nottetempo, quando questo stare al mondo che coinvolge e presuppone la lettura dei libri sia più conveniente per essere persone più democratiche, più civili, che sanno anche stare da sole (quindi emotivamente meno impegnative), e quindi in fondo, più felici. I libri, anche quelli brutti, hanno fatto di me una che crede negli uomini e nelle rivoluzioni che gli uomini fanno. Nelle donne e negli uomini.

Giovanna Silva (Humboldt Books): Il senso, per una casa editrice come la mia, che ha un taglio molto specifico, è quello di unire diversi saperi, di far collaborare persone ad un unico progetto. L’ambizione è di presentare progetti che altrimenti probabilmente nessuno porterebbe avanti, un tipo di pubblicazione che si è fatto fino ad un certo punto, e poi si è smesso per vari motivi, fondamentalmente economici.

Cosè cambiato nel rapporto con i lettori negli ultimi anni?

Andrea Gentile: È un’ovvietà ma è un fatto che il libro concorre con molteplici mezzi. Non più televisione e radio, o non solo, ma Facebook, Netflix, Instagram e altre decine di luoghi di produzione di contenuti. Il rapporto con i lettori, per quel che mi riguarda, dunque, deve essere improntato sulla fiducia. Il lettore ama la varietà ma non il sistematico calo della qualità. Deve potersi fidare. Deve essere certo che qualunque libro egli acquisti – che sia lo Zibaldone come un libro di cucina – ebbene quel libro sia fatto bene: massima attenzione alla carta, alla grafica, ai testi, alla rilegatura. Dietro la pagina deve pulsare il lavoro della casa editrice, oltre che quello, autentico, dell’autore. Quando questo viene a mancare il libro non è più un libro: è un insieme di fogli rilegati. Questo porta alla mancanza di fiducia e all’allontanamento dei lettori dalle librerie o da alcune librerie (per esempio la catena di librerie il Libraccio, che vende soprattutto libri di seconda mano, mi pare che goda di ottima salute: e sono certo che non si tratta, o non soltanto, di una questione economica, ma soprattutto di una garanzia: i libri fatti nel passato, in linea generale, garantiscono maggiore attenzione al prodotto).

Giovanna Zoboli: Nel nostro settore, che è quello dei libri per ragazzi e in particolare degli albi illustrati, è cambiato molto. Quando abbiamo iniziato 12 anni fa, il lavoro sull’illustrazione e sul rapporto fra parola e immagine, da cui nasce un libro illustrato, era agli inizi, in Italia. Si può dire ci sia stata una vera e propria rivoluzione in questo ambito, che ha riguardato il modo sia di fare i libri sia di pensarli e valutarli anche da parte del pubblico. Nel nostro caso, va specificato che i lettori, i bambini, arrivano al libro quasi sempre attraverso l’intermediazione degli adulti (e che, se un bambino è quasi sempre ben disposto verso libri concepiti in modo nuovo, gli adulti mostrano maggiori resistenze, dovute a un’idea di libro più convenzionale, legata a un tipo di editoria o molto tradizionale o molto commerciale.) Perciò, quando parlo di un cambiamento nel pubblico parlo sostanzialmente di come il pubblico adulto attraverso un processo di formazione che ha riguardato genitori, librai, bibliotecari, insegnanti, sia stato parte integrante di questa rivoluzione. Se in un decennio l’Italia ha recuperato il ritardo che la caratterizzava rispetto al mercato europeo e internazionale, questo è stato possibile anche grazie alla nascita di un pubblico nuovo e in crescita, vivace, motivato e attento.

Corrado Melluso: Qui vorrei partire con due citazioni:

«L’Italia non ha crisi libraria: voglio dire che la produzione non è diminuita né peggiorata in confronto ad altri periodi della nostra storia intellettuale. La crisi è sempre esistita e continuerà.» Piero Gobetti, L’editore ideale.

«Sentite a me, che io so’ zoccola vecchia! Trent’anni di marciapiede! Sentite a me: ‘e libri nun se vendono! Ma nun è che nun se vendono mo’. ‘E libri nun se so’ venduti maie!» Antonio Franchini, Memorie di un venditore di libri.

Nella considerazione del nostro mercato librario credo sia stata sempre in atto un’allucinazione simile a quella che descrive Piketty ne Il Capitale: c’è stata, sì, una breve età dell’oro, che è concisa con un momento di grande fermento culturale e con un processo di universalizzazione della cultura (che come s’è poi dato è un altro discorso), ma è stata un’eccezione specifica e anticiclica che ci piace pensare sia stata la regola fissa.

Credo che nel rapporto coi lettori sia cambiato il rapporto tra i lettori e il tempo. Ogni essere umano oggi legge quotidianamente una quantità di testo che nessun umano, nemmeno Pico della Mirandola, in nessun tempo storico ha letto: ricaricare l’homepage di Repubblica, saltabeccare tra Vice e un foglio di lavoro Excel, poi Word e poi ancora WhatsApp e Facebook sono tutte attività connesse alla lettura, e non si è mai letto tanto, ma sono (quasi) tutte informazioni inutili, quelle acquisite, o con un grado di deperibilità altissimo: quella che si è prodotta è una sorta di psicosi pronoica dovuta all’infotainment nella quale è impossibile dare un senso gerarchico a quanto acquisito, perché è tutto semplicemente troppo. Essendo, poi, il tempo generalmente trascorso su siti come Facebook monetizzabile da parte di queste aziende, gli editori soffrono di una concorrenza spietatissima e inaffrontabile, almeno per via diretta. Oggi un libro come rivale non ha un altro libro, ma Facebook o Fruit ninja… Credo che molto possa ancora avvenire, ma a patto che gli editori inizino a considerare, per esempio, Assassins Creed come un’importante narrazione storica romanzesca con le stesse finalità, che so?, di Dumas o di un certo Twain. 

Beniamino de’ Liguori Carino: Credo che i lettori oggi siano più sospettosi e forse anche un po’ più pigri, che abbiano la tendenza a dover sentire immediatamente l’immedesimazione, un’identità profonda con la proposta editoriale che gli viene presentata. Come se ci fosse meno abitudine o gusto a essere persuasi da ciò che non si conosce. Ma francamente la nostra è un’iniziativa editoriale molto giovane, abbiamo poca esperienza e pochi riferimenti per poter rispondere in modo consapevole a una domanda del genere senza precipitare nell’ovvietà.

Chiara Valerio: Credo che i lettori e gli editori, anche attraverso il capillare lavoro delle librerie indipendenti e di alcune librerie di catena, e dei tanto vituperati festival letterari, si stiano stringendo. Credo ci sia una rinnovata voglia di parlare insieme dei libri che uno ha amato o che ha disprezzato. I gruppi di lettura fioriscono e proliferano, così i blog letterari, così i festival, perché i lettori hanno voglia di vedere chi scrive. Nei momenti di scoramento penso questo dipenda anche da una mancanza di profondità della maggior parte dei libri che si pubblicano che dunque necessitano del corpo dello scrittore per avere uno spessore, ma più spesso penso che piano piano si vada ricostituendo una società di lettori (desertificata da 30 anni di berlusconismo televisivo).

Giovanna Silva: Non so, io sono arrivata ai lettori poco tempo fa, quando il cambiamento era già in atto se non agli ultimi sgoccioli. Fondamentalmente credo che i lettori siano diminuiti statisticamente ma aumentati in qualità. Non è un caso che siano nate tante piccole case editrici specializzate. Quei pochi che ancora si interessano al cartaceo hanno sviluppato una sorta di feticismo intellettuale e fisico, e il libro non solo deve stupire per contenuto ma anche nella forma, proprio come oggetto. In generale c’è molta attenzione ai progetti nuovi e meticci.

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