Editoria: ritorna il progetto? Il lavoro editoriale nella società italiana

L’articolo che segue è il secondo (qui il primo) di due interventi sul lavoro editoriale a cura di Giacomo Giossi che ha rivolto qualche domanda agli addetti ai lavori, a ridosso della XXIX edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino

Prosegue l’indagine attorno ai nuovi percorsi progettuali dell’editoria indipendente italiana. Questa volta abbiamo volto lo sguardo verso l’azione pubblica, per certi versi politica, possibile dell’editoria italiana di oggi, e verso i limiti spesso atavici di un settore che ad una difficoltà creativa unisce spesso una irrimediabile incapacità organizzativa. Di seguito le risposte di Andrea Gentile (Il Saggiatore), Giovanna Zoboli (Topipittori), Corrado Melluso (Baldini & Castoldi), Beniamino de’ Liguori Carino (Edizioni di Comunità), Chiara Valerio (nottetempo) e Giovanna Silva (Humboldt Books).

Dove può ancora incidere l’editoria nel cambiamento della società?

Andrea Gentile: È naturalmente un discorso lunghissimo. Ma lo strumento più importante che vedo per stabilire un rapporto con il lettore e dunque, in vario modo, con la società non è che l’allontanamento dalla superficie. In una parola: la profondità.

Giovanna Zoboli: Credo che, nel nostro specifico settore, il ruolo del lavoro editoriale nel cambiamento sociale sia cospicuo e rilevabile con buona approssimazione. In tutto il mondo, le indagini sociologiche che riguardano indici di alfabetizzazione, scolarità, literacy e numeracy, per usare due termini oggi diffusi per indicare la capacità di decodificare un testo e di affrontare operazioni matematiche, sono concordi nell’affermare che l’accesso alla lettura e la qualità dei percorsi di istruzione e di educazione siano fra i fattori di crescita individuale e di sviluppo sociale più potenti, e dove questi sono facilitati e promossi i risultati, sul piano di un miglioramento nelle condizioni di vita e di lavoro, siano visibili e consistenti. D’altra parte l’esperienza diretta che un editore per ragazzi pratica in scuole, librerie e biblioteche rafforza la consapevolezza dell’importanza capitale che nella vita dei bambini e delle loro famiglie può avere l’incontro con i libri.

Corrado Mellluso: L’editoria è un comparto industriale, e in quanto tale può incidere nel cambiamento della società soltanto in vista e nella misura stessa del proprio vantaggio economico. Le persone che vi lavorano, invece, possono usarla come strumento di resistenza e di divulgazione, e quindi operando per il cambiamento.

Beniamino de’ Liguori Carino: Non sono sicuro che possa ancora incidere, non sono neanche certo che lo abbia fatto in altre epoche. Sicuramente l’editoria, come altri mestieri e altre discipline divulgative, è, almeno in parte, il prodotto della società più che il contrario. D’altronde queste tentano di interpretarla, a volte arrivano addirittura a prefigurare o immaginare società alternative a quelle esistenti. È probabile che, come dicevo nella prima domanda, un modo che l’editoria ha oggi per incidere nella società ha che fare con il metodo e con la specializzazione più che con la proposta di cui è portatrice, anche se quest’ultima sicuramente ha una rilevanza non secondaria. Banalizzando, abbiamo bisogno di cose che, serie o meno, siano fatte bene, seguano un principio di coerenza espositiva, che non siano sfilacciate e detestino l’episodicità. Il lavoro editoriale è un luogo straordinariamente adatto in questo senso.

Chiara Valerio: Pubblicando libri che evidenzino temi, saggi che restituiscano valore a parole abusate o travisate. Romanzi che interpretino e riscrivano un reale – o un immaginario – sempre più povero di storie perché sempre più povero di subordinate. Penso sia necessario pubblicare strumenti, libri che siano, o abbiamo la funzione, di cassette per gli attrezzi. Quanti significati ha la parola libertà, per esempio, e quanti di questi significati includono il concetto di responsabilità?

Giovanna Silva: Come sempre, nel tentativo di portare avanti delle idee, da questo punto di vista non credo sia cambiato molto negli ultimi cinquant’anni, direi semplicemente in forma diversa e con modalità diverse.

Quali sono a tuo avviso i limiti dell’editoria italiana?

Andrea Gentile: L’editoria italiana è un mondo piccolissimo e molti ne sono i limiti. Per sintesi ne citerò pochi e quelli che ritengo più sistemici. La prima è una certa persistente fiducia nel presente. Credere nel presente non è così lontano da non poter guardare oltre il proprio naso. Questa caratteristica porta – solo per fare un esempio qualsiasi – a ingaggiare un autore che è sulla “cresta dell’onda” per qualche ora. La cresta è sempre più piccola, poi, e l’onda è impercettibile. Il mare è serenissimo e non sono sicuro che sia un male. Eppure: spesso non conta il testo ma il fatto che si parli del suo autore in qualche post di Facebook o in un paio di articoli di giornale (giornali che peraltro mi sembrano imitare spesso proprio i social network). Quando il libro poi è pronto, naturalmente non se ne parla più e l’autore viene abbandonato a se stesso, qualunque sia il tasso della sua qualità. Un altro limite è la difficoltà, l’incapacità di fare rete. Alcune case editrici avrebbero l’identità, la possibilità e addirittura la necessità di dialogare, progettare insieme, individuare delle linee comuni. Vige invece, in linea generale, una logica di appartenenza che è quanto più lontano da questo terribile e affascinante intricato mondo.

Giovanna Zoboli: Relativamente al nostro settore, e all’albo illustrato, direi che c’è una vistosa carenza di preparazione e di competenze, riscontrabile in scelte scadenti sia di immagini sia di testi, e questo nel lavoro di grandi, medi e piccoli editori. E con questo non mi riferisco esclusivamente a scelte di mass market, fondate su edizioni a basso costo, realizzate in economia di mezzi materiali e risorse intellettuali e creative. Il successo dell’albo illustrato ha catalizzato l’attenzione di editori che non si erano mai avvicinati a questo prodotto editoriale, anche editori non per ragazzi, invogliandoli a cimentarvisi. Spesso il risultato è approssimativo o deteriore, frutto di un lavoro che, per mancanza di conoscenze specifiche nell’ambito della letteratura illustrata per ragazzi, un campo sterminato e variegato di studio, si ferma alla superficie, limitandosi a riprodurre le apparenze di un lavoro di qualità. Se da un certo punto di vista questa dinamica è naturale e comprensibile, è inevitabile invece porsi la questione nei termini della domanda precedente. Il lavoro di chi edita libri illustrati per l’infanzia non dovrebbe essere svincolato dalla consapevolezza della ricaduta sociale che ha, e del rispetto di quel lettore particolarmente ricettivo, delicato e sensibile che è il bambino. E poi, molto semplicemente, e in generale, fare libri è un mestiere, e come tutti i mestieri andrebbe fatto nel rispetto della professione.

Corrado Melluso: All’inizio del film Le invasioni barbariche il professore dice che nella storia sono importanti solo tre cose: il numero, il numero e il numero. I limiti dell’editoria italiana stanno nel numero degli abitanti e dei lettori. Lo stesso esordiente che in Italia pubblica il primo romanzo, vende 1.000 copie e produce royalties per circa 1.000/1.200 euro, se fosse stato americano avrebbe avuto garantito dal proprio esordio andato male almeno il sostentamento per un anno, utile non fare altro che scrivere il romanzo successivo, magari ottimo e di successo. In Italia le persone che vivono di scrittura sono pochissime, e quasi nessuno soltanto con le pubblicazioni librarie. Sarebbe divertente un sondaggio tra scrittori di media fama per sapere, escluse le scuole di scrittura, le redazioni e tutti quei lavori di diretta derivazione editoriale, cosa fanno per mettere insieme il pranzo e la cena. E questo discorso sul numero poi cade a cascata su tutti – editori, redattori, librai, etc… – dando la misura della nostra, implicita, collateralità.

Beniamino de’ Liguori Carino: Tagliando i generi editoriali con l’accetta, il limite peggiore è forse la presunzione che il lavoro editoriale sia un lavoro per così dire alto e non, prima di tutto il resto, un lavoro artigianale, come dicevo prima, su qualunque scala e in qualunque dimensione ciò avvenga. Forse anche per questo che la qualità generale della proposta pare essersi abbassata: la ragione non riguarda solo ragioni commerciali legate alla distribuzione, come a qualcuno piace un po’ troppo pensare; ci si è appiattiti, o meglio accomodati, sull’idea che l’editoria debba per forza avere delle complicatissime, spesso oscuramente espresse, missioni educative, non curandosi più della necessità, prima di ogni altra cosa, di portare ai lettori proposte che oltre ad essere intelligenti e innovative siano anche precise, comprensibili e, soprattutto, al loro servizio, al servizio dei lettori e non viceversa. C’è una quota di autoreferenzialità nell’editoria italiana, anche di quella cosiddetta sperimentale, veramente insopportabile perché distante dalle persone alle quali pretende invece di parlare.

Chiara Valerio: Ogni tanto, quando leggo i pareri editoriali di Giorgio Manganelli, o quelli di consulenti Einaudi, come Vittorini, mi pare che l’editoria italiana stia attraversando un periodo lugubre, in quei pareri, spesso spietati, era sottinteso un patto tra lettore e scrittore, si supponeva la necessità e la verità di un interlocuzione, di una discussione. Leggendo quei pareri mi sembra che appartenessero a un mondo in cui c’erano le parole. Oggi si rincorrono formule e questioni come “mancanza di lettori”, “costi”, “tagli”, “mancanza di immaginazione”, “tutti scrittori e nessun lettore” e questo toglie l’allegria, perché toglie la discussione sulle parole. Quindi penso che il limite principale dell’attuale editoria italiana sia la mancanza di allegria, di ironia, di sfottò.

Giovanna Silva: Una certa endogamicità per settore, e una scarsa capacità – per ora – di portare autori italiani all’estero.

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