Il lavoro culturale è mediapartner di “Questa non è la via Emilia”, la manifestazione organizzata dagli abitanti di via Roma all’interno del circuito Off del festival “Fotografia Europea” di Reggio Emilia. Durante le giornate inaugurali, che si sono svolte dal 6 all’8 e dal 13 al 15 maggio, abbiamo seguito e seguiamo le mostre e le performances in diretta su Facebook e Twitter con l’hashtag #FE16ViaRoma. Prima e dopo gli eventi, inoltre, stiamo pubblicando sul blog alcuni post di approfondimento. Ecco il terzo, in cui presentiamo alcuni dei progetti in mostra.
«Mio nipote Giovanni ha iniziato a parlare. Me l’ha raccontato ieri sera mio padre per telefono, durante una chiamata che lungi dall’accorciare le distanze mi ha fatto sentire ancor più lontana: lui ride mentre mi chiama dalla nostra altana a Venezia, sono sicura che se mi sforzassi, dall’altra parte della cornetta riuscirei a sentire il volo delle rondini. Dal mio terrazzo in Elsenstrasse si vede una Gru Gialla ed un cantiere. Gru in tedesco si dice “Kran”».
Gli italiani in Germania sono quasi 700.000, e Maria Silvano è una di loro. Da Venezia si è trasferita a Berlino, e ha scelto lei stessa di farlo, come molti migranti, ma ciò non rende meno forte il legame con le cose e le persone che ha lasciato, e non neutralizza il sentimento dell’assenza. Il tempo, poi, aumenta la nostalgia e la dilata, arricchendola di sfumature che non hanno neppure più un vero ancoraggio in ciò che è rimasto a casa. Le immagini di Ramificazioni sono create attraverso la sovrapposizione tra fotografia analogica e digitale e ciascuna di loro è accompagnata da un testo che racconta la storia del protagonista. Visitando la mostra, inoltre, è possibile ascoltare una traccia audio che è il risultato di tutte le loro voci sovrapposte: tedesco, italiano, tedesco con un forte accento italiano, a suggerire il rimbombo e lo spaesamento nel quale chi emigra si trova ad arrivare e, spesso, a rimanere a lungo. Oggi come ieri, in tutti i luoghi del mondo.
Il progetto di Giacomo Albertini si chiama LIS, come la lingua italiana dei segni. Lui non la usa e parla normalmente, ma per gli altri sordi è il principale codice di comunicazione, sebbene non riconosciuto dalla legge. La LIS ha le sue regole sintattiche e la sua struttura, e per essere compresa ha bisogno di movimenti ed espressioni facciali precise: «Così come nella comunicazione verbale si alza il tono della voce, si parla senza farsi troppo notare dagli altri, si creano degli slang, diamo una cadenza o usiamo il dialetto a seconda del nostro luogo di provenienza, anche nella LIS tutto questo accade, attraverso le mani».
Grazie a delle cuffie anti rumore lo spettatore può osservare le foto facendo esperienza del silenzio. Attraverso di esso può cogliere le complessità espressive delle persone ritratte, che riescono a dare un’impronta soggettiva a ciò che dicono anche senza alzare la voce o cambiare intonazione.
Lorenzo Vignali è uno dei pochi artisti di via Roma a riprendere il tema del festival On – La via Emilia. Strade, viaggi e confini – in un progetto chiamato Traccia SS9, come il moderno nome della strada consolare. Le sue immagini, scattate tra Modena, Reggio Emilia e Parma, ritraggono una via Emilia notturna, quella di chi la percorre in macchina o in camion, di chi ci lavora. Le immagini sono collocate all’interno di un corridoio buio e lo spettatore può vederle solo illuminandole con una torcia. Diventa così egli stesso un viaggiatore notturno che osserva ciò che accade dall’altra parte della strada, la vista interrotta sono dalle luci delle macchine che la attraversano.
Ritrovati nel paesaggio di Giulia Spreafico e Rui Wu è un’istallazione realizzata all’interno di un negozio di antiquariato. Le due fotografie (Momentanemente al buio di Giulia Spreafico e Montagne di Rui Wu) dialogano con lo spazio iperconnotato che le circonda e utilizzano gli oggetti disposti nel negozio. Così escono dalla loro bidimensionalità e diventano esse stesse oggetti: anzi, unite insieme, diventano un oggetto “terzo”. Momentaneamente al buio è un’immagine dell’Antartide ripresa da satellite, «un lavoro che nasce dall’esigenza di abitare uno spazio impossibile, invisibile come l’Antartide; è un’azione fine a se stessa, ma necessaria. Le fotografie nascono da un gesto poetico che mostra l’incapacità costante di sentirsi al proprio posto». Montagne, invece, è «un lavoro che nasce alla luce, in spazi aperti e sublimi in cui l’artista decide di isolare delle parti di paesaggio fotografandole per renderle più accessibili». I frammenti di immagine sono stati infatti fotografati e, in studio, stampati, fotocopiati e ingranditi fino a diventare una texture capace di creare nuovi scenari, raffigurando così una montagna ideale.
Nella camera n.6 dell’Hotel City Simona Luchian ha costruito un vulcano nell’arco di tre giorni, lo ha esposto in mostra, lo ha fotografato e infine lo ha distrutto. Vulcano. Supporto per immagine fa infatti parte della serie di “supporti per immagine” dell’artista, che lavora sulla relazione tra fotografia, scultura e performance. Il processo che va dalla creazione all’utilizzo come supporto e infine alla distruzione è un gioco metaforico e simbolico: la materia si “eleva” all’immagine, come se, non avendo più bisogno di esistere fisicamente, si dissolvesse nella bidimensionalità. L’immagine, in questo caso, è la fotografia del Titan Arum, il fiore più grande del mondo, che fuoriesce dal vulcano come ne fosse il magma. «Ogni immagine destinata a essere supportata tenta di diventare metafora di qualcos’altro – si distende dalla sua condizione contratta per impossessarsi di un’altra vita» spiega Simona Luchian.