Quando la fiction si è sostituita alla realtà.
“Conzala comu voi, sempre cucuzza è”. Questo detto popolare siciliano, che letteralmente indica che i modi di cucinare la zucchina non la trasformano in un ortaggio diverso, viene utilizzato per rimarcare come al di là delle possibili definizioni di un oggetto, una persona, un fenomeno, esiste una realtà sottesa all’atto linguistico che non può essere stravolta, e la cui essenza è più ostinata di qualsiasi definizione.
La saggezza popolare oggi, però, deve cedere il passo a una determinazione della rappresentazione mediata dai social che riesce non solo a schiacciare ma a sostituirsi alla realtà stessa, e in grado da solo di scatenare cacce alle streghe, liste di proscrizione, damnatio memoriae. Facciamo una premessa: linguaggio e realtà non sono mai stati due entità scisse e le parole che la sfera pubblica adotta per descrivere un fenomeno contribuiscono esse stesse a plasmarlo. Stigmi, autorappresentazioni distorte, bias cognitivi, sono essi stessi segnali di una influenza del linguaggio sul reale, connaturata stessa alle comunità umane da millenni. E però, quello che qui si sostiene è che l’assottigliarsi delle relazione non mediate negli ultimi decenni ha assottigliato questa relazione, fino a stravolgerne i rapporti di forza.
A dare un’impressionante accelerazione a questo cambiamento hanno contribuito una serie di fattori. A monte la nascita e la diffusione di internet, che ha moltiplicato e smaterializzato le relazioni possibili per ogni individuo. Se fino all’inizio degli anni Duemila la rete è stata fondamentalmente uno strumento di conoscenza, con la diffusione dei social la funzione primaria del web è diventata, appunto, la socializzazione. A moltiplicazione e smaterializzazione delle relazioni si è aggiunta, come acceleratore, a partire dal 2020, la pandemia da Covid-19, che con i lockdown ha ulteriormente indebolito il controbilanciamento dei rapporti umani in presenza. Soli davanti uno schermo, l’altro per noi è veicolato da codice binario convertito in linguaggio informatico, poi in foto o parole. Laddove in compresenza, il confronto e la dialettica sono parole rette da espressioni, prossemica, persino da umori del corpo (affermare qualcosa comunicando freddezza o sudando copiosamente può cambiarne completamente il testo), in poche parole in presenza di un contesto spazio-temporale comune, la dialettica sui social è una battaglia di affermazioni che fluttuano nel vuoto pneumatico. Eppure, anzi proprio per questo, hanno non solo l’effetto di condizionare il reale, ma di sostituirsi ad esso.
Dicevamo più sopra, partendo da una massima popolare, come il peso del rapporto tra significante e significato si sia sbilanciato a favore del primo. Il passaggio non è stato improvviso. Ancora prima della società dei social, abbiamo vissuto quella dello spettacolo, in cui l’infotainment (per capirci, l’informazione che si muove seguendo la tipica drammatizzazione della fiction, i programmi di Santoro su tutti) ha avuto una parte importante. Ricordo che in un testo che stavo studiando per un esame universitario mi imbattei per la prima volta nel termine “fattoide”. Riassumendo in poche parole, è un fattoide qualsiasi fenomeno che pur essendo puramente frutto di finzione ha la capacità di modificare il reale. L’esempio riportato dal libro era il gabibbo: un pupazzo che denunciando nefandezze varie con telecamere a seguito, otteneva davvero dimissioni, rimborsi, scuse da istituzioni. Oltre vent’anni dopo la creazione del gabibbo, un’iconica puntata della serie distopica Black mirror, racconta di un pupazzo populista che riesce a vincere le elezioni. A molti sembra un’idea geniale, ma a ben vedere è solo il gabibbo che usa i social per farsi votare. Cos’è cambiato dai fattoidi degli anni ‘90 ad oggi? Che il linguaggio fictionale non si limita più a condizionare la realtà, ma si sostituisce ad essa.
L’esempio più lampante è stata la capacità di Donald Trump di vincere le elezioni persuadendo decine di milioni di statunitensi che affermazioni palesemente false corrispondessero a verità, su temi come immigrazione, sinistra, e Cina. Una modalità di propaganda ripresa con successo anche dalla “Bestia”, la macchina social, di Matteo Salvini, anche lui su temi sovrapponibili. Dire che i migranti vengono pagati 35 euro al giorno equivale al vero per chi vuole che la realtà sia quella, e non c’è smentita ufficiale, argomentata, e basata sui dati che tenga. Il linguaggio, spogliato di qualsiasi contesto, non ha più bisogno del supporto fisico, della realtà, per creare conseguenze.
Purtroppo, la dinamica è ormai diventata endemica, e anche se per molti è rassicurante pensarlo, non riguarda solo le facili vittime del populismo. E qui bisogna rispondere a un’altra possibile obiezione. Anche i regimi di inizio Novecento, per esempio, utilizzavano i media disponibili al tempo per creare una percezione collettiva del reale che non corrispondeva al reale, ad esempio raccontando avanzamenti inesistenti in guerra. La grande differenza con la fase attuale è la gigantesca asimmetria informativa tra il mittente del racconto e il ricevente. Il popolo italiano soprattutto quello poco istruito, aveva strumenti prossimi allo zero per verificare la sostanziale veridicità di alcune versione imposte dal regime. Oggi, grazie alla rete, la possibilità di trovare fonti alternative, di aggiungere complessità a un ragionamento ipersemplificato, di avere a disposizione persino immagini vive che smentiscano l’altro, è disponibile per tutti. Eppure, la virtualizzazione e l’atomizzazione dei rapporti scaraventano tutti nella trappola delle verità rassicuranti per la propria bolla (alla balcanizzazione delle verità si aggiungono ora le manipolazioni di immagini sempre più raffinate, i deepfake, a confondere ancora di più le acque, ma questo è un tema ulteriore). Il dibattito non tiene conto di fatti e contesti di riferimento. Tutto si gioca sulla dialettica, sulle capacità retoriche e sull’esercito della correttezza etica o della superiorità morale di cui si crede di disporre.
Gli esempi possibili sono tanti, a partire dall’ostracismo dell’industria cinematografica Usa nei confronti di Woody Allen, per il quale la campagna condotta dall’ex moglie Mia Farrow basta a cancellare la realtà fatta di diversi procedimenti, testimonianze, e relazioni di ambito legale e sanitario che lo scagionano da qualsiasi accusa di pedofilia.
Ma soffermiamoci su un esempio che tira in ballo circostanze meno drammatiche e che pure ha fatto molto discutere sui social. La rivendicazione di Beatrice Venezi al Festival di Sanremo, dove ha dichiarato di voler essere chiamata direttore d’orchestra, piuttosto che direttrice d’orchestra. Non si vuole entrare qui nel merito né della libertà di ognuno di autodefinirsi, né in quello della scelta di Venezi. Per quello che conta, è probabile che la musicista non si renda conto di un sessismo interiorizzato e che quello scegliere il maschile rappresenti più o meno inconsciamente un desiderio di venire riconosciuta dalla comunità degli uomini. Ma, appunto, non è di questo che si vuole discutere qui. Il punto è che nella rabbia dei tanti e, soprattutto delle tante, che la criticavano sembrava completamente scomparso il contesto. Il fatto che a definirsi “direttore” fosse una donna che deve aver fatto una fatica immane per arrivare in quella posizione: l’esempio vivente di come si può spezzare il “tetto di cristallo” che la gestione patriarcale del potere frappone tra le donne e le posizioni apicali di comando, non contava nulla.
Così come nella corsa a gridare la solidarietà a Giorgia Meloni, definita “vacca” da un professore universitario, nessuno o quasi ha sottolineato il contesto: l’insulto colpiva la leader politica di un partito che sulla discriminazione e sulla composizione patriarcale della società (dio, patria e famiglia, ma solo quella cattolica), ha costruito il suo consenso elettorale. Il che non rende meno grave il sessismo subito, ma sottolinea lo sbilanciamento di gran parte del mondo femminista nel valutare i due episodi di Venezi e Meloni capitati a distanza di pochi giorni. Ancora una volta, non conta chi e come, conta solo il cosa viene detto o scritto, spogliato da tutto: di qui “vacca”, di là “direttore”.
Ancora un esempio: quando papa Bergoglio dice che bisogna accogliere lo straniero, le sue parole vengono immediatamente collocate dai critici tra le fila dei radical chic e degli utili idioti di Soros che vuole la sostituzione etnica per favorire il capitale. Scompare il contesto rappresentato dal Vangelo (la parabola del samaritano, per dire la prima cosa che viene in mente), e scompare la stessa storia, costituita da chiese diventate rifugio per gli ebrei durante l’Olocausto. Di nuovo negli Usa: Alexi McMcCammond, ha dovuto rinunciare alla carica di direttrice del magazine Teen Vogue per due tweet a sfondo razzista e omofobico scritti dieci anni fa, quando aveva 17 anni. Anche qui, non conta nulla il tempo passato e il fatto che all’epoca Alexi fosse un’adolescente. Il tribunale del giusto e sbagliato agisce nell’immediato senza contestualizzazione storica né attenuanti che persino un magistrato severo accoglierebbe senza troppe resistenze. E d’altra parte, in un curioso capovolgimento di rapporti, quando la parola è il fine e non il mezzo, può crearsi uno strano cortocircuito in cui conta solo il chi. È il caso dei traduttori europei della giovane poetessa afroamericana Amanda Gorman, in grossa difficoltà perché su social e media voci anche autorevoli sostengono che sia impossibile tradurre adeguatamente i suoi versi senza essere una donna nera. Alla base c’è comunque un appiattimento del discorso, una schematizzazione delle posizioni e dei ruoli che crea gabbie cognitive enormemente più limitanti che in passato. Non si vuole riproporre una posizione che faccia da eco alla scuola di Francoforte, seppure anche i social media, in maniera complementare ai vecchi mass media, per loro stessa natura e per necessità di profitto di chi ne tiene le redini, spingano inevitabilmente verso una strutturazione della sfera pubblica mediata che riproduce gli squilibri del capitalismo avanzato.
Il sovraccarico di stimoli che crea deficit d’attenzione, la suscettibilità e la polarizzazione propria dei social network fanno il lavoro sporco, rendendo quasi impossibile un confronto costruttivo da posizioni diverse. Il linguaggio si è mangiato la realtà, e se la continua a mangiare tutti i giorni, convincendo anche le menti più aperte a credere non tanto che le parole siano importanti, ma che le parole siano l’unica cosa importante.
Sganciare il linguaggio da questa sacralità, riacciuffarlo per ancorarlo con funi resistenti alla realtà, al contesto, al soggetto che lo agita, ridargli una terza dimensione, dovrebbe essere uno degli obbiettivi da perseguire per chi crede che migliorare la convivenza tra essere umani sia possibile. Restituire complessità al discorso pubblico, anche sui social, significa riabituare lo sguardo alla complessità dei meccanismi che soggiacciono dietro le ferite aperte del mondo, e trovare finalmente risposte davvero efficaci per curarle.
[Immagine di copertina: fonte Unsplash]