Pubblichiamo la quinta puntata di Intemperie*
Screditare il global warming
Cambiamento climatico, riscaldamento globale, crisi climatica, catastrofe ecologica. Sono vari i termini con cui ci si riferisce all’attuale e conclamata situazione di emergenza climatica. Per quanto cambiare etichetta non modifichi gli effetti dei gas climalteranti, le parole hanno una storia e creano il modo in cui vediamo la realtà. Il termine cambiamento climatico, oggi il più diffuso tra quelli citati, è stato protagonista di un interessante aneddoto nei primi anni duemila.
Nel 2003 Frank Luntz, consulente del presidente statunitense George W. Bush, scrisse un memorandum dedicato all’ambiente, in cui osservava come il dibattito scientifico sul riscaldamento globale si stesse chiudendo a svantaggio dei repubblicani, ma ci fosse ancora una possibilità di “sfidare la scienza”. Oltre a sottolineare l’importanza di tenere viva tra i cittadini l’impressione che non vi fosse consenso nella comunità scientifica circa il riscaldamento globale, Luntz proponeva di “raffinare” la terminologia usata nel dibattito sull’ambiente, iniziando a parlare di cambiamento climatico (climate change) invece di riscaldamento globale (global warming).
Nella visione del consulente, cambiamento climatico appariva come meno spaventoso, più controllabile e meno coinvolgente a livello emotivo del termine riscaldamento globale. Inoltre, cambiamento climatico chiamava meno in causa le responsabilità umane: che il clima sia sempre cambiato è una delle frasi tipiche di scettici e negazionisti.
Perlomeno nel panorama statunitense questo ha avuto un grande peso. Per quanto Biden abbia recentemente confermato che gli USA rientreranno negli Accordi di Parigi, il secondo paese al mondo in quanto a emissioni di CO2 non ha mai dimostrato una chiara e duratura politica di mitigazione. Studi sulla percezione della serietà dei due termini hanno riscontrato che i repubblicani considerano il termine riscaldamento globale meno serio e preoccupante di cambiamento climatico, attestando il successo dell’opera di screditamento del termine avvenuta nel tempo. Tutt’oggi l’opera prosegue: i messaggi Twitter dell’ex presidente Trump usavano più frequentemente il termine riscaldamento globale associandolo a fake news (Schuldt et al. 2011; 2017).
L’urgenza della crisi
Nel 2019 il quotidiano The Guardian ha annunciato il proprio impegno nell’affrontare la catastrofe ambientale e nell’informarne lettori e lettrici. La terza azione riguarda la scelta dei termini: anziché cambiamento climatico il quotidiano ha scelto di utilizzare emergenza o crisi climatica, per comunicare chiaramente l’urgenza del tema. Se studi di neuroscienza, come quello di SparkNeuro, sostengono che i termini crisi climatica o disastro ambientale creino reazioni emotive più forti in chi le ascolta, altri analisti allertano che puntare su ansia e paura faccia ottenere l’effetto opposto, di allontanamento o negazione del problema. La strada suggerita sembra essere quella di accostare storie di luoghi e contesti familiari colpiti dal cambiamento climatico con storie di resilienza e ripresa dai disastri ambientali (Bolsen&Shapiro 2017).
Se avvicinare i luoghi colpiti, e non relegare i cambiamenti climatici a immagini di ghiacciai e orsi polari, è sicuramente utile a farne cogliere la vicinanza, puntare invece su storie di efficacia delle azioni rischia di non restituire la profondità e rapidità dei mutamenti che verranno. L’articolo su come comunicare il futuro climatico di Climalteranti pone l’accento sul fatto che oltre ai cambiamenti lenti e graduali in cui siamo già immersi, assisteremo a mutamenti repentini e inaspettati, legati al superamento di soglie critiche (tipping points) irreversibili. Risulta quindi opportuna una narrazione che sottolinei l’urgenza e l’impossibilità di posticipare azioni di mitigazione e adattamento. Come comunicare l’attuale situazione climatica? Che termini usare?
Ipocognizione di massa
Senza dubbio non è possibile fare una scelta senza ricordare, come detto in apertura, che le parole sono metafore che danno forma alla realtà o, come direbbe Lakoff, le parole sono frames (Lakoff 2010). Il linguista esperto di scienze cognitive indica con il termine frames (letteralmente “cornici”) le strutture inconsce e inevitabili con cui pensiamo. Ogni parola o concetto attiva nella nostra mente (fisicamente, in circuiti neuronali) schemi di interpretazione del mondo emotivamente coinvolgenti, cornici in cui le singole idee assumono una forma, una struttura di comprensione di ciò che accade. Gli schemi si collegano tra loro, in un’articolata mappa mentale.
Più le connessioni tra gli schemi sono attivate, più quegli schemi vengono rafforzati e fissati e anche negare un frame lo rinforza, come nella richiesta paradossale «non pensare a un elefante rosa», che fa immediatamente venire in mente proprio quello che ci chiede di non pensare. Lakoff racconta come, ad esempio, il trauma vissuto dalla popolazione statunitense l’11 settembre 2001 abbia consentito all’amministrazione Bush di parlare di “guerra al terrore” e di cavalcare questa metafora a lungo. Parlare di “terrore” attivava una risposta di paura che a sua volta attivava una visione del mondo conservatrice, in cui una classe politica pronta a usare la forza significava protezione e sicurezza. Si provi a pensare alle attivazioni create da espressioni quali “esportazione della democrazia”, “libero mercato”, “immigrazione irregolare”.
Lakoff ci ricorda che quando vogliamo comunicare un fenomeno complesso (come quello dei cambiamenti climatici), dobbiamo capire come attivare nella mente di chi ci ascolta i frames giusti perché possa essere compreso. Spesso si pensa che semplicemente informando le persone dei fatti queste arriveranno alla giusta conclusione. Ma se per chi ascolta quei fatti non hanno senso, se non ci sono nella loro mente dei frames che diano senso a quelle parole, quei fatti verranno semplicemente ignorati o risignificati. I frames hanno la meglio sui fatti.
Proprio sul tema dell’ambiente Lakoff denuncia una tragica ipocognizione di massa, una grave mancanza di schemi utili a comprendere la realtà. Solo recentemente, per esempio, si è passati a intendere il concetto di vulnerabilità ai cambiamenti climatici non più come un termine connesso a povertà e marginalizzazione, ma come una caratteristica di un gruppo sociale in uno specifico contesto geografico (García-Acosta 2019).
Per Lakoff lo stesso concetto di “ambiente” rivela questa ipocognizione: l’ambiente viene visto come separato, esterno a noi, tuttalpiù qualcosa che ci circonda, mentre noi siamo inseparabili dall’ambiente e dalla natura, con cui ci siamo co-evoluti e da cui dipendiamo. Tempo prima l’antropologo e scienziato sociale Gregory Bateson scriveva che una visione della propria sopravvivenza in antitesi all’ambiente (visto come qualcosa da sfruttare a proprio vantaggio), unita a una tecnica progredita, genera probabilità di sopravvivenza pari a quella «di una palla di neve all’inferno» (Bateson 1976, p.503).
La letteratura, preziosa fonte di immagini e metafore che offrono strumenti con cui interpretare il mondo, non ha contribuito ad arricchire e articolare frames adatti a comprendere e a prepararsi ai cambiamenti climatici. Amitav Ghosh ipotizza come in un futuro prossimo, sostanzialmente alterato dai cambiamenti climatici, le persone si rivolgeranno all’arte e alla letteratura cercandovi tracce e segni premonitori di quello che sarebbe accaduto e, non trovandone, potranno solo concludere che arte e letteratura siano state praticate per nascondere la realtà cui si andava incontro, e «l’epoca attuale così fiera della propria consapevolezza, verrà definita l’epoca della Grande Cecità» (Ghosh 2017, p.18).
Per agire in modo efficace nella mitigazione e nell’adattamento ai cambiamenti attuali e imminenti, c’è bisogno di creare e rinforzare nuovi frames, che permettano di capire la complessità dell’emergenza climatica in corso. Può l’antropologia aiutarci a conoscere altri frames per pensare l’ambiente, la relazione che ne ha l’essere umano e la crisi climatica?
Relativizzare la natura
L’antropologia può, e ha iniziato a, raccontare pratiche e saperi ecologici cosiddetti tradizionali o nativi in relazione all’ambiente e ai cambiamenti climatici. Il primo articolo di Intemperie è stato dedicato a questo: Saperi che (r)esistono. L’antropologa Bryant-Tokalau ha studiato, nel suo campo alle Fiji, come le popolazioni del Pacifico si siano da secoli dovute relazionare con perturbazioni cicliche (come quella di El Niño), o con eventi climatici estremi (come alluvioni o cicloni). Risulta fondamentale incorporare conoscenze indigene nelle politiche e nelle azioni decise per fronteggiare i problemi ambientali sempre più frequenti e impattanti, in quanto già rodate e maggiormente adatte alle caratteristiche del territorio (Bryant-Tokalau 2018).
L’antropologia ci ha inoltre insegnato che «il modo con il quale l’Occidente moderno rappresenta la natura è la cosa del mondo meno condivisa» (Descola 2014, p.58). Lo stesso termine natura, contrapposto a quello di cultura, non si ritrova facilmente al di fuori dell’Occidente moderno. L’antropologia ci permette di conoscere altri modi di intendere e vivere le relazioni tra l’essere umano e il vivente, che creano altri sistemi morali e valoriali. Il riconoscere, ad esempio come nell’ontologia animista, capacità di azione, volontà, pensiero al non-umano influenza e dà forma al modo in cui ci si relaziona alle molteplici soggettività con cui si convive. Con un non-umano che include il mondo animale e vegetale, ma anche elementi naturali e mondo degli spiriti, il mondo non appare più come a propria disposizione in quanto unici soggetti dotati di agency, ma come campo di convivenza (e scambio, lotta, contrattazione, dono, manipolazione, seduzione).
L’antropologa Borgnino racconta inoltre come in hawaiano non esista un termine specifico per “natura”, ma esista l’articolato concetto di kūleana: la responsabilità che gli esseri umani hanno verso «il proprio corpo (alimentazione), il prossimo (le generazioni future), il contesto sociale e le relazioni sociali con l’ecosistema», comprendendovi tutti gli elementi che costituiscono il loro territorio (Borgnino 2019, p.128). Questi esempi mostrano un modo di percepire le proprie azioni come all’interno di un equilibrio in cui altre soggettività agiscono, in una “ecologia dei sé” (Kohn 2013) in cui le retroazioni (feedback) informano, i limiti vengono più facilmente visti e considerati.
Pensare sistemico
Se questi modi mostrano altre possibilità di stare al mondo rispetto al vedere l’ambiente come qualcosa di esterno, a nostra completa disposizione e in un’illusione di assenza di limiti e ripercussioni, non si può però pensare di trapiantare visioni e concetti nati in contesti specifici in un Occidente in cui non trovano appigli di senso profondo, in cui mancano, appunto, cornici che li significhino. Farlo comporta il rischio di avere l’impressione di rivoluzionare il linguaggio senza, di fatto, cambiare nulla e di perpetrare l’appropriazione appiattente dell’Altro, del non-uguale, senza invece dialogarci proprio in quanto altro e differenza.
È quindi un lavoro inutile? Tutt’altro, anche solo per l’importanza del famoso “giro lungo” dell’antropologia che, dopo essersi immersa in saperi e visioni altrui, torna a guardare il sapere di partenza, per relativizzarlo, vederne le opacità e riconoscerne le connessioni. Questi confronti esigono un’antropologia che vada oltre l’umano, che aiuti a rinegoziare i confini e ad ampliare cosa si intende con “noi” (Kohn). Se non è possibile importare o trapiantare la visione animista (o perlomeno non senza una profonda rivoluzione epistemologica e ontologica) o il concetto di responsabilità hawaiano (senza pensare di rivedere dalle fondamenta il Diritto, centrato sui concetti di individuo e proprietà), è possibile chiedersi cosa nel pensiero dell’Occidente, nei suoi modelli e paradigmi, possa risuonare, avere attinenze e connessioni con queste visioni altre.
Negli anni Venti del Novecento prese forma, parallelamente in diverse discipline, un paradigma che ha al proprio interno parole chiave connesse agli esempi di visioni altre nominate: interconnessione, feedback, limiti, equilibrio. Si tratta del pensiero sistemico, che si oppone a una visione meccanicistica del mondo. Con sistema si può intendere l’insieme di elementi (siano essi molecole, esseri umani o gas climalteranti) interconnessi in modo tale da produrre un proprio modello di comportamento. L’ottica sistemica, guardando al tutto e all’interazione tra le parti, vede l’essere umano come parte del suo ambiente, come uno degli attori coinvolti. Nel caso dei cambiamenti climatici un’ottica sistemica guarda alle dinamiche e (dis)equilibri che si creano con le inter-azioni e le retroazioni tra esseri viventi, elementi naturali, agenti atmosferici.
Di fronte all’ipocognizione sui temi ambientali nominata da Lakoff, le lenti e categorie del pensiero sistemico possono aiutare a leggere la complessità della crisi climatica. Attingendo quindi ad un pensiero nato in seno all’Occidente moderno, si può sperare che l’utilizzo di questo paradigma faciliti la creazione e la diffusione di metafore e frames che rendano possibile pensare l’impensabile, comprendere l’inevitabilità e l’irreversibilità dei mutamenti climatici globali.
Bibliografia
Bateson G., 1976, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano.
Bolsen T., Shapiro M., 2017, The US News Media, Polarization on Climate Change, and Pathways to Effective Communication, Environmental Communication.
Borgnino E., 2019, Ka wahine ‘ai honua, la donna che divora la terra, AA. VV., Disasters in popular cultures, Il Sileno Edizioni.
Bryant-Tokalau J., 2018, Indigenous Pacific Approaches to Climate Change, Palgrave Mcmillan.
Descola P., 2014, Oltre natura e cultura, SEID, Firenze.
García-Acosta V., 2019, Unnatural Disasters and the Anthropocene in AA. VV., Disasters in popular cultures, Il Sileno Edizioni.
Ghosh A., 2017, La grande cecità, Neri Pozza, Vicenza.
Lakoff, G., 2010, Why It Matters How We Frame the Environment, Environmental Communication, 4:1, 70–81.
Luntz F., 2003, The environment: A cleaner, safer, healthier America. The Luntz Research Companies (pp. 131-146). Unpublished Memo.
Kohn E., 2013, How forests think: toward an anthropology beyond human, The Regents of the University of California.
Schuldt J., Konrath S., Schwarz N., 2011, ‘‘Global warming’’ or ‘‘climate change’’? Whether the planet is warming depends on question wording, Publ Opin Q 75:115-124.
Schuldt J., Enns P., Cavaliere V., 2017, Does the label really matter? Evidence that the US public continues to doubt “global warming” more than “climate change”, Springer.
*Serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino.