La verità è un’utopia, ma non per questo non deve essere cercata.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. (Pier Paolo Pasolini, Il romanzo delle stragi)
Gennaio, si sa, è tempo di saldi, e tutto costa meno. Anche i concetti. Figuriamoci la parola dell’anno, quella della collezione autunno-inverno precedente, pronta a essere sostituita con l’arrivo della bella stagione. E dunque, alla fine di gennaio, di “post-truth” sono pieni gli scaffali e se ne trovano esemplari a prezzi stracciati, forse di importazione parallela. Dunque quale migliore occasione per accaparrarsene uno degli ultimi pezzi prima che venga messa fuori commercio?
A ben vedere, che post-truth sia effettivamente la parola del 2016 pare di per sé una mezza verità: sono infatti diverse le istituzioni che eleggono annualmente il termine che – secondo loro – ha segnato indelebilmente l’anno appena trascorso e difficilmente un singolo lemma ottiene consenso unanime. Ad esempio, i membri della prestigiosa American Dialect Society hanno indicato, seppur con minor risonanza, Dumpster fire, espressione che significa “una situazione eccessivamente disastrosa o caotica”: forse fin troppo generica nel contesto attuale. La Oxford Dictionaries (che ha appunto indicato post-truth) è dunque solo una delle voci autorevoli in materia, sostenuta però anche dalla Gesellschaft für Deutsche Sprache, che ha eletto a sua volta postfaktisch (post-fattuale), traduzione pressoché letterale del termine inglese, che infatti è aggettivo (e non sostantivo, come nell’occorrenza italiana post-verità). E in quanto aggettivo post-truth ha bisogno dell’accompagnamento di un sostantivo, ad esempio post-truth politics e post-truth era (come il titolo del libro del sociologo Ralph Keyes del 2004). Non sembra dunque esistere una post-verità in sé, quanto semmai epoche e pratiche post-veritiere, o post-fattuali.
Esattamente dieci anni prima, inoltre, agli onori di queste classifiche (questa volta sponda statunitense) era balzata una parola analoga: truthiness, ovvero una verità intuitiva che discende dalle opinioni (di solito di provenienza gastro-intestinale, “from the gut”) e non dai fatti. Insomma una verità postfattuale, o post-truth truth. Ipotizzando una traduzione, forse “veracità” non sfigurerebbe: una verità che si presenta senza mediazioni o filtri nell’atto della sua enunciazione, valida tanto per la dichiarazione di un testimone quanto per la schiettezza popolare, o per il sugo della nonna. Quindi, fidiamoci: la verità è che post-truth è davvero la parola che meglio descrive l’anno appena terminato.
Questa evoluzione della verità ha affascinato numerosi commentatori che hanno avuto buon gioco a riscontrare tale tendenza in snodi politici di primaria importanza (Brexit, elezioni statunitensi,…) e determinati canali di comunicazione (i famigerati social network, attraverso i quali probabilmente siete arrivati a questo articolo). Molti hanno detto di sostenerlo da tempo, evocando magari pubblicazioni librarie e quotidiane che esibiscono il proprio ancoraggio ostinato alla realtà inemendabile dei fatti contro la volatilità delle opinioni. Quanto a me, quello che mi affascina e al contempo atterrisce è la forza, sempre viva e mai doma, della verità, un’esigenza che accompagna l’essere umano attraverso le epoche e le culture, e che nemmeno il tanto vituperato relativismo novecentesco ha saputo ridimensionare. Anzi, all’opposto: lo zoccolo duro del reale batte sul terreno con rinnovato clamore.
Che la politica “praticata” sia post-veritiera non dovrebbe stupirci particolarmente: qualora non bastasse la constatazione empirica di un sentimento comune condiviso globalmente, del tema se ne sono occupati alcuni fra i più letti – o perlomeno citati – filosofi del secolo scorso. Prendiamo Alexandre Koyré e l’esordio del suo pamphlet del 1943 Riflessioni sulla menzogna: «Mai si è mentito come ai giorni nostri. Né mentito in una maniera così spudorata, sistematica e costante». O Hannah Arendt, che aveva già ipotizzato in Verità e politica (1967) e nel suo pendant La menzogna in politica (1971) appunto il carattere anti-politico della verità (prendendo alla lettera il motto fiat veritas, pereat mundus). O ancora Michel Foucault, che, affrontando il problema dal versante opposto, descrive (sulla scia di Pasolini?) un particolare “coraggio della verità” come postura etica nella vita politica. Si tratta della famosa parresia, o “parlar franco”: una nozione complessa – della quale Foucault sottolineò a più riprese l’indeterminatezza costitutiva – che pone l’obbligo di dire il vero tra la costituzione di un rapporto con se stessi, di un governo di sé (attraverso le tecniche del sé), e le procedure di governamentalità, di un governo degli altri (attraverso le tecniche di dominio, anche nei loro risvolti seducenti espressi dal biopotere contemporaneo).
La veridizione (il dir-vero) si profila così come un oggetto a doppia faccia, dai risvolti alternativamente soggettivanti o assoggettanti. Un’ambiguità paradossale che Foucault riscontra nel cuore stesso del funzionamento del regime democratico ateniese: se da un lato la democrazia non può che fondarsi necessariamente sul discorso vero, discorso che possiede determinati attributi e può essere proferito solo da individui dotati di determinate caratteristiche etiche, dall’altro la democrazia minaccia la possibilità stessa di tale discorso, nel momento in cui concede libertà di parola a tutti i cittadini per diritto acquisito, col rischio di una perversione demagogica del discorso stesso.
In un’epoca come la nostra – in cui si ama tanto sollevare i problemi della democrazia in termini di distribuzione del potere, di autonomia di ognuno nell’esercizio del potere, in termini di trasparenza e di opacità, di rapporto tra società civile e stato – credo sia forse bene richiamare questa vecchia questione, che è stata contemporanea al funzionamento stesso della democrazia ateniese e alle sue crisi: cioè della questione del discorso vero e della cesura necessaria, indispensabile e fragile che il discorso vero non può non introdurre in una democrazia. Una democrazia che rende possibile il discorso vero e che al tempo stesso lo minaccia senza posa (Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France 1982-1983, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 179).
Come conciliare insomma la possibilità che tutti i cittadini possano prendere la parola in un pubblico consesso (isegoria) e il fatto che nella pratica politica vi siano effettivamente dei discorsi veri, dotati di specifici requisiti? Inserito all’interno di un ordine polemico-agonistico, necessario per far risultare vincitore il proprio discorso, il dir-vero conosce subito pericolose deformazioni: la retorica sul piano tecnico e l’adulazione su quello morale. Attività che distingue gli uomini liberi entro la dimensione politica dell’esistenza, questo dir-vero libero e disinteressato entra dunque in crisi nel momento in cui la libertà diventa appannaggio di individui che, pervertendola, recano danno alla stessa comunità:
Dal momento che la parresia è concessa anche ai cittadini peggiori, la crescente influenza di oratori cattivi, immorali o ignoranti, può condurre la cittadinanza alla tirannide, o a mettere in qualche altro modo in pericolo la città. Perciò la parresia può essere pericolosa per la stessa democrazia. […] l’individuazione di una necessaria antinomia tra parresia – libertà di parola – e democrazia, inaugurò un lungo e appassionato dibattito relativo specificamente alla natura dei rapporti pericolosi che sembravano intercorrere tra democrazia, logos, libertà e verità (Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, Donzelli, 2004, p. 51).
Sin dalle origini della democrazia, la verità si profila come pharmakon, rimedio e veleno, sulla cui utilità e danno per la politica varrebbe la pena di interrogarsi. Un primo passo utile potrebbe essere quello di concentrarci su tale ambivalenza senza provare a normalizzarla verso una risoluzione univoca. Come scrive il semiologo franco-lituano Algirdas Greimas, il dir-vero è vincolato a un contratto il cui responsabile ultimo è il Destinante, ovvero qualcuno (Renzi, Berlusconi, Grillo, Salvini…) o qualcosa (il comunismo, il fascismo, l’onestismo, il nuovismo…) che dà forma all’orizzonte valoriale del Destinatario del discorso, il quale a sua volta deve in ultima istanza decidere della veridicità del discorso stesso. Un circolo vizioso: costruire e far attecchire uno spazio del senso riconoscibile e condiviso sul quale fondare – a posteriori – l’ordine dei discorsi.
Se iniziassimo allora a considerare la verità come un effetto di senso, ovvero come un valore negoziabile che circola all’interno di un ordine discorsivo e che deve essere riconosciuta in quanto tale dagli interlocutori, potremmo apprezzarne appieno la dimensione relazionale e magari inventare (o riscoprire) degli strumenti culturali per discernere il vero dal falso. Che non vuol dire proporre un nuovo istituto della censura 2.0, né pensare che la verità si raggiunga con metodi quantitativi (“applausometri” o giurie popolari sempre 2.0, ma anche accumulo e comparazione di informazioni ad libitum), ma ricondurre la verità a una sua costitutiva opacità. Tutto ciò può sembrare un controsenso nell’epoca della società della trasparenza e della iper-competenza di massa; eppure, come ammonisce Greimas
Viviamo in un’epoca di manipolazione in cui lo scarto fra verità e certezza, fra sapere e credere, è particolarmente visibile. (…) La società dell’incredulità si lascia sommergere da ondate di credulità, si lascia catturare dai discorsi politici, didattici, pubblicitari e il sapere acquisito sulle trappole del sapere è un antidoto del tutto inefficace (Algirdas J. Greimas, Del senso 2. Narratività, modalità, passioni, Milano, Bompiani, 1985, p. 110).
Questa esaltazione della capacità redentrice della verità si accompagna simmetricamente a uno svilimento delle potenze del falso. Bufale, balle, bugie: già la povertà lessicale (dove sono finite le menzogne, le frottole, le falsità, le fandonie, le fanfaluche?) è indice di questa avversione. Eppure non è lontana un’epoca dove l’etica della verità era in qualche modo impensabile senza un’estetica del falso, o perlomeno dei punti vuoti. E lo era proprio perché la seconda era strettamente funzionale alla prima: se il discernere il vero da falso è un compito di vitale importanza, come possiamo farlo senza conoscere a fondo entrambi i termini del problema? Non solo, ma proprio in virtù del carattere ambivalente della verità stessa, quale migliore antidoto del falso a quella razionalizzazione della veracità – la truthiness – che concepisce la verità solo se espressa in forma immediata, forza istintuale che scaturisce dalle profondità più recondite del sé (come mostra la serie Westworld)?
Welles, Robbe-Grillet, Perec, Resnais, ma anche Antonioni, Borges e in un certo senso Haneke e Nolan lo hanno mostrato attraverso i loro personaggi o i racconti stessi: deviazioni, ricorsività, ambiguità ed ellissi che hanno costituito un repertorio basato sulla logica del frammento e della plurivocità, più ancora che della menzogna deliberata. Un compito altamente politico, che testimonia il carattere instabile, parziale (perché di parte) e mai chiuso della verità in quanto orizzonte di senso a cui tendere per orientarsi nel mondo. Una scelta rilanciata recentemente da Pablo Larrain in Neruda, biopic sul poeta che ricostruisce parte della vita di questa icona cilena quasi fosse un racconto borgesiano, sdoppiando continuamente gli snodi salienti dell’esperienza politica e pubblica per procedere contemporaneamente lungo due binari che non si toccano mai. Due linee narrative per una sola vita, ma le cui parti sono tuttavia incompossibili, come il paradosso della battaglia navale di Leibniz.
La verità può far male, lo sai. Presi tra l’obbligo di dire tutta la verità su noi stessi sui nostri profili social o di sorbirci quella altrui nell’infinito reality show che si dispiega davanti ai nostri occhi, e la ricerca inesausta di una verità vergine, non inquinata dal potere (pur non considerando gli algoritmi dei motori di ricerca, come ricorda in un bell’articolo Flavio Pintarelli), abbiamo forse trascurato che la nostra relazione col mondo non è costituita da una successione lineare di fatti bruti, ma si costruisce sempre attraverso quegli interstizi tra i fatti che sono poi le nostre opinioni. La verità è un’utopia, ma non per questo non deve essere cercata, anzi. Solo che per diventare davvero un luogo comune di confronto e di scambio deve essere pensata sotto forma culturalmente e socialmente codificata, mutevole, cangiante e in divenire, sempre pronta a sfuggire, correndo il rischio di trasformarsi in un non-luogo o in un campo di battaglia solcato da forze primordiali, per le quali autenticità e spontaneità sono di per sé garanzia di verità. Come i barbari, che negli anni Ottanta hanno segnato l’immaginario italiano: loro sì che erano veraci.