In occasione dell’incontro “Dar voce alla follia“, ospitato dal seminario dedicato a “Siena e il suo doppio“, pubblichiamo un estratto dal testo “… e tu slegalo subito” (Edizioni Alphabeta Verlag / Collana 180, 2015) di Giovanna del Giudice.
L’incontro si svolgerà oggi 29 aprile, alla Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena alle ore 17.00.
Saranno presenti Giovanna del Giudice, che presenterà il volume assieme a Silvia Jop, coordinatrice redazionale di lavoroculturale.org e responsabile del Focus REPARTO AGITATI, e Aldo Mazza, direttore della casa editrice Alphabeta Verlag.
Il Servizio* opera secondo il “sistema porte chiuse”. La possibilità di uscire dal reparto degenza per tutti i pazienti e le pazienti, sia in Trattamento sanitario obbligatorio che volontario, è regolata rigidamente dagli operatori, in particolare dagli infermieri. Anche i pazienti “volontari”, impediti nel libero movimento, oltre che verso l’esterno anche nel reparto stesso, vengono sottoposti a un’illegittima limitazione della libertà di movimento. Nel Servizio, come mi risulta unico esempio italiano, nelle ore diurne presta servizio una guardia giurata armata.
Dopo la prima visita al reparto, avevo subito comunicato al direttore del Servizio i gravi rischi che potevano derivare dalla presenza di un’arma da fuoco che, come aveva dichiarato quel giorno stesso la guardia, veniva lasciata in un armadietto del reparto. Il direttore accolse la mia richiesta e dispose pochi giorni dopo che la guardia giurata non avesse più l’arma. Una “carta dei servizi”[1], da dare al momento del ricovero alle persone e ai loro familiari, fornisce informazioni sull’organizzazione del reparto, sulle regole da seguire e sulle limitazioni previste. In particolare indica che le sigarette sono “custodite dal personale”, che il “fumatore abituale” può fumare in un “apposito locale” e in orari stabiliti, dopo colazione, pranzo e cena, che il ricoverato “per ragioni di sicurezza” non può tenere con sé lamette da barba, oggetti di vetro, oggetti taglienti e acuminati, lattine, cinture, bretelle, il caricabatteria del cellulare, che le visite dei familiari sono possibili per due ore al giorno, secondo l’orario ospedaliero.
Alcuni infermieri, indicati dal “caposala”[2] nei differenti turni, “custodiscono” in un armadio sigarette e accendini dei ricoverati, come cinture e bretelle, caricabatteria, rasoi da barba sia a lama che elettrici, asciugacapelli. La custodia delle sigarette da parte degli infermieri e la regolazione della loro distribuzione è fonte continua di tensione tra gli infermieri e i ricoverati fumatori, ma anche tra medici e infermieri, non considerando questi ultimi tale compito come rientrante nelle loro specifiche mansioni.[3]
Nella guardiola uomini, come già detto, è installato un sistema di video-sorveglianza a circuito chiuso, attraverso il quale gli infermieri controllano i ricoverati in alcune camere della zona degenza uomini. I medici specializzandi in psichiatria[4] vengono utilizzati e addestrati per il controllo, in particolare del paziente legato, proprio attraverso il sistema di video sorveglianza.
I familiari in visita sono sottoposti a un “controllo” che prevede che un infermiere/portiere sia autorizzato a far domande sul possesso di oggetti “pericolosi” e perfino a “ispezionare” ed eventualmente a “sequestrare” oggetti o alimenti, per esempio bottiglie di vetro, tè, caffè.
È in questo periodo e all’interno di questa organizzazione che il Dipartimento di salute mentale di Cagliari ospita la visita dell’Associazione per la qualità e l’accreditamento. La relazione conclusiva della stessa, nella parte relativa al Servizio ospedaliero, non può che rilevare che l’organizzazione è significativamente di tipo custodialistico. Spazi, tempi e gerarchie ruotano intorno alla “pericolosità”, “la porta d’ingresso chiusa, la numerosità delle contenzioni e l’elettroshock dimostrano purtroppo come la segregazione delle persone ricoverate sia consuetudine e abituale la negazione del diritto.[5]
L’ordine degli spazi nel reparto, l’ampiezza e la dislocazione su due piani, la netta separazione tra la zona dell’accettazione e degli ambulatori dalla “zona degenza”, portano a una “dissolvenza” degli operatori, a una significativa distanza tra chi opera “vicino” alle persone ricoverate, principalmente gli infermieri e in parte il medico di guardia, e chi opera fuori dalla degenza, i medici e alcuni operatori impegnati nell’accettazione e nel day hospital. Questo riproduce una distanza tra gli operatori e soprattutto determina un non adeguato utilizzo delle risorse umane. In particolare, nelle situazioni di “crisi”, che frequenti nascono nel reparto, quando la presenza degli operatori, dei medici e degli infermieri in uno stesso spazio determinerebbe una migliore possibilità di affrontamento delle situazioni anche le più critiche, evitando rischi sia per il personale che per i pazienti.
La presenza degli psichiatri nella sezione “degenza”, tranne che nella visita con il primario, è scarsa e spesso limitata alle chiamate degli infermieri per emergenze cliniche, per comportamenti devianti dei pazienti, per atti di rottura collegati per la maggior parte a richieste inevase di parlare con il medico o di essere dimessi. Rigida appare la divisione dei compiti fra i differenti ruoli professionali. Gli stili di lavoro sono improntati al modello ospedaliero. Gli infermieri professionali sono impegnati in un’intensa routine per esami clinici, radiografici, anche complessi come la tomografia assiale computerizzata e la risonanza magnetica. Devo sforzarmi molto per trovare una qualche concreta giustificazione a questo tipo di attività diagnostica così specifica, peraltro giustificata con decisione dal direttore del Servizio come necessaria per fare la diagnosi differenziale. A metà mattina, il rito della visita del “primario” a letto del paziente, con a seguito il caposala, gli psichiatri e gli specializzandi, tutti in camice bianco.
In ogni turno, mattina, pomeriggio e notte è attivo un medico di guardia, e a volte, nei turni diurni feriali, c’è un altro psichiatra come appoggio. È istituita la figura di un medico coordinatore, presente solo nei turni diurni feriali, che garantisce la continuità assistenziale. Tutta questa organizzazione, all’apparenza efficiente, mi appare soltanto come uno spreco di risorse, soprattutto di medici, che in quel luogo sono esuberanti, a discapito della povertà di alcuni servizi territoriali.
Ogni mattina, alle nove circa, i medici in turno, insieme al direttore, si incontrano in una riunione, lunga fino a più di due ore, in cui si discute dei “casi clinici” e si decide a quale medico assegnare i nuovi ricoverati. La riunione è formalmente aperta agli infermieri, ma nei fatti, in quell’orario, gli infermieri, impegnati nei compiti assistenziali e sanitari, non riescono a partecipare.
L’assegnazione dei ricoverati a specifici medici, nella rigidità delle regole, determina, in assenza del medico referente, dopo il turno notturno e per il riposo settimanale, che alcune informazioni sui pazienti siano carenti o alcune decisioni sospese, naturalmente non quelle relative a un’urgenza. Accade perfino a volte che, in assenza del medico referente che decide e formalizza la dimissione, la persona venga trattenuta in reparto oltre il necessario, tranne che nelle situazioni di “affollamento”, quando tale decisione viene assunta dal primario o dal medico coordinatore. Durante il ricovero di una persona non vengono quasi mai attivati rapporti con gli operatori dei Centri di salute mentale per la presa in carico, anche se la stessa persona è già seguita da quel Centro e neanche la dimissione viene di solito concordata. Qualche volta, alle dimissioni viene unita una nota scritta di affido del paziente al Centro competente.
Il più delle volte questa insolita attenzione trova ragioni in una sorta di scarico di responsabilità e di attribuzione di compiti di controllo sociale agli operatori territoriali. I medici del territorio che accompagnano un paziente nel Servizio per un ricovero volontario lamentano di non avere una “corsia preferenziale” e di essere costretti a lunghi tempi d’attesa, aspettando la disponibilità del medico di guardia. Questo a rimarcare la separazione e la difficile comunicazione tra gli operatori del territorio e quelli del Servizio ospedaliero.
Malgrado un notevole impegno di personale e di dispositivi organizzativi dettagliati, il ricorso alla contenzione fisica rimane costante e routinario, anzi sembrerebbe negli ultimi anni perfino segnare tendenze di crescita. Nella lettura della relazione dell’Associazione per l’accreditamento tra pari del 2005, il numero delle contenzioni mi appare francamente preoccupante e intollerabile. La sequenza degli ultimi quattro anni mostrava la pesantezza della situazione: 233 contenzioni nel 2002, 325 nel 2003, 257 nel 2004, 177 nel primo semestre del 2005. Questa realtà detta di fatto la lista degli obiettivi: uno più complicato dell’altro che bisogna affrontare.
Note
[*] Capitolo 2 “I tempi e i luoghi della contenzione”, da pag 61 a pag 66, GIOVANNA DEL GIUDICE, … e tu slegalo subito, Collana 180/Edizioni Alphabeta Verlag, 2015, Bolzano. Su gentile concessione della casa editrice. Le immagini in bianco e nero selezionate per l’estratto sono di Gianni Berengo Gardin e provengono dal testo “Morire di Classe“.
[1] Questo foglio “informativo” è in vigore dal 2002
[2] Viene così chiamato il coordinatore infermieristico, che ricopriva già quella funzione nell’ospedale psichiatrico S. Maria Maddalena.
[3] La questione della “custodia” degli accendini e delle sigarette dei ricoverati e in genere le “mansioni” degli infermieri professionali e l’organizzazione del Servizio portano gli stessi nel 2007 a un ricorso al Collegio IPAVSI-ordine degli infermieri.
[4] I medici specializzandi in psichiatria svolgono il tirocinio solo nel Centro della Clinica psichiatrica e presso il SPDC.
[5] Dalla relazione della Associazione italiana per la qualità e l’accreditamento, novembre 2005.