Chick Corea. Musica per condividere

La buona maniera di suonare insieme.

Chick Corea

Armando Anthony Corea detto “Chick”, nato a Chelsea, Massachussets, il 12 giugno del 1941, è morto a Tampa Bay, Florida, il 9 febbraio 2021. La notizia del suo decesso è stata diffusa con elegante sobrietà due giorni dopo.

La conoscenza profonda della tecnica pianistica, la capacità di frequentare musiche e musicisti caratterizzati da stili e poetiche diverse, e allo stesso tempo l’abilità nell’attraversare i generi con risultati artistici spesso migliori di tanti altri che vi si sono misurati, ci ha fatto correre il rischio di pensare che Chick Corea fosse un musicista manierista.
Secondo l’uso comune, “manieristi” sono quegli artisti che chiudono un’epoca e piuttosto che creare delle formule nuove, arrischiate, incomplete ma dichiaratamente aperte a sviluppi futuri, si concentrano sul portare a compimento l’esperienza artistica da cui provengono. Diventano cioè specialisti della maniera: tecnica raffinatissima, altissimo sapere artistico, estrema compostezza formale. Guardandoli da lontano, dal futuro dove si generano le etichette postume, solitamente tutto ciò li rende meno entusiasmanti dei loro predecessori e finisce per mostrarli meno coraggiosi dei loro successori.

Eppure, i cosiddetti manieristi sono il motore della transizione da un’epoca all’altra, da un’età all’altra delle arti. Corea è stato contemporaneamente uno degli ultimi grandi del jazz del Novecento e uno dei primi a mostrarne le possibili evoluzioni.

Innanzitutto perché ha dato un apporto significativo allo sviluppo delle poetiche dei grandi artisti con cui ha collaborato, anche senza che ciò risultasse così appariscente. Non mi riferisco solo ai progetti artistici dei singoli, come Miles Davis, ma anche alle visioni di alcune imprese editoriali musicali: pensate a quello che è stato il suo contributo, apparentemente collaterale, alla creazione del sound di etichette come ECM o GRP. Oppure ascoltate come silenziosamente, a piccoli passi, con l’intimo capolavoro di Now he sings now he sobs ha spostato ancora un po’ gli equilibri della formazione in trio. O come si è introdotto con un pugno di “canzoni per bambini” nel repertorio dei musicisti classici.

La sua stessa produzione fusion, che mostrava il lato “sognante” con i dischi dei Return to Forever e le espressioni più pirotecniche con i live dell’Elektric Band, è stata in realtà particolarmente fertile e incisiva per un genere che oggi guardiamo con quel poco di disprezzo ideologico riservato in generale alla produzione artistica degli anni Ottanta, che al contrario sono stati uno straordinario bacino di libertà creativa e sperimentazione. Infatti, anche se quasi tutto ciò che faceva l’Elektric Band può apparire oggi ingiustificatamente acrobatico, quel virtuosismo, piuttosto che uno sfoggio muscolare fine a se stesso, rappresentava in realtà un’esperienza di gioco estrema e divertente con le forme musicali considerate più effimere, di consumo, destinate fin da subito ad essere “musiche senza futuro”.

Chick Corea aveva un modo di pensare il jazz da compositore al pianoforte, tenendo le finestre sempre aperte su tutto l’universo musicale nella sua complessità. Una postura che forse lo può accomunare a George Gershwin o – con le relative differenze – accostare a un altro artista come Kenny Wheeler. Sotto il disegno limpido e lineare delle sue composizioni, infatti, Corea fa scorrere continuamente in filigrana riferimenti ad altri linguaggi musicali e indizi di altre sonorità. Su tutti questi richiami più o meno eterogenei la sua compostezza formale si imponeva come autenticamente come stile. Ecco che le apparenti “maniere” di Corea non sono mai state semplici esercizi.
Questa attitudine sarebbe oggi vitale per le nuove generazioni di musicisti, che fanno fatica con la memoria ma allo stesso tempo sono costretti a nuotare in un universo sonoro perennemente in tempesta, dove l’importante è riuscire innanzitutto ad emergere, e poi restare a galla.

Corea è stato un artista al di fuori delle mitologie del jazz, quelle degli angeli caduti e delle urgenze disperate. Per questo mostra pienamente di poter essere un esempio, per l’idea di un jazz che è prima di tutto musica, senza qualificazioni esplicite ma con uno straordinario spessore implicito in termini estetici, poetici, politici e sociali.
Negli ultimi tempi Corea aveva dimostrato di saper usare i media digitali in modo intelligente anche in relazione alle costrizioni della pandemia. Piuttosto che metter su piccoli show narcisistici, aveva trasformato la finestra di Facebook in una specie di abbaino da cui era possibile affacciarsi nella sua stanza, per condividere il quotidiano di un musicista a cui sembrava solo capitato di essere un grande, ma che non sarebbe successo senza l’attento lavoro di ogni giorno. Una modalità, la sua, di offrirsi al pubblico dei social mirando a condividere l’esperienza personale, anziché mostrare ai soliti voyeur in reclusione uno spettacolo da consumare.

E anche nel congedo, l’artista americano che in vita volle fortemente recuperare le sue radici italiane, ha previsto una maniera per esprimere il senso della condivisione, che è alla base del futuro della musica. Nel post che i familiari hanno pubblicato dopo il decesso, fra le formalità del caso, la voce di Corea è riuscita ad emergere senza la solennità di un testamento, ma come il tenero consiglio di un amico:

Voglio ringraziare tutti quelli che durante il mio percorso si sono spesi per tenere sempre acceso il fuoco della musica. La mia speranza è che coloro che sentono di avere un’inclinazione per suonare, scrivere, recitare, o per qualsiasi altro, facciano lo stesso. Se non per voi stessi, allora fatelo per noialtri. Non solo perché il mondo ha bisogno di più artisti. È anche perché, semplicemente, c’è un sacco da divertirsi.

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