Il terzo articolo di uno speciale sul lavoro culturale oggi. Si tratta di una tavola rotonda collettiva a cui hanno risposto alcune/i dei redattori e delle redattrici del blog (la lista è in fondo).
Venti anni dal G8 di Genova e dall’undici settembre, dieci anni dalle primavere arabe, cinque dalla scomparsa di Giulio Regeni, un quinto del nuovo secolo che se ne è andato. Ci siamo chiesti se sono più le macerie, le cose che cadono, o quelle che si costruiscono. E come? E dove siamo noi in questo panorama?
“Di macerie ce ne abbiamo tante attorno. Nella scuola, nell’università, nel lavoro, nella politica. Nelle nostre vite esistenziali, passate al tritacarne dei ‘lavoretti’. C’è solo l’imbarazzo della scelta con le macerie. Dove stiamo: in mezzo ai calcinacci. Non mi fanno paura le macerie, non mi spiace sporcarmi le mani. Il problema è che a noi hanno lasciato in eredità proprio le macerie. E ci tocca anche respirarne la polvere. Il punto è cosa fare di queste macerie. Sono zavorra che ci tiene a terra? O possiamo usarle in parte per costruire un nuovo immaginario?” (ap). Costruire quindi, più che farsi lasciare a terra. “Io vorrei stare lì a provare a ricostruire su queste macerie, accettando di buon grado che molto deve ancora venir giù per provare poi a rifondare, e che ricostruire senza un impegno politico collettivo è aleatorio” (lp). E quindi pensare alle macerie non come un qualcosa di perso. “L’immagine delle macerie dovrebbe richiamare un senso di sconfitta e perdita, di distruzione ma credo sia meglio concentrarsi sul loro essere informi. In tal senso le macerie ci chiamerebbero a immaginare nuove configurazioni, nuovi modi di vivere e stare al mondo. Credo anche che tale sforzo non possa e non debba configurarsi come una ‘missione’. Credo molto di più che a spingere attività di questo tipo siano, più giustamente, varie forme di desiderio di cambiamento, una lezione che tra l’altro credo provenga in maniera più forte e vivace dalle nuove correnti del femminismo contemporaneo” (cc). E quindi ancora può servire il lavoro culturale? “Io vedo solo macerie di distruzione, di solitudine e di precariato lasciate dal realismo capitalista. Il lavoro culturale resiste nelle sue crepe, un fissante almeno per avere un tetto sopra la testa. Io sono in queste crepe, per allungare il più possibile la distanza dal crollo” (gf).
Un quinto di secolo
Provare a guardare indietro, in questo periodo peraltro che per molte e molti ha significato pause di riflessioni, fermarsi da viaggi e attività, per ragionare su questo quinto di secolo che se ne è andato. “È complicato per me ripensare questi vent’anni di nuovo secolo: li vedo alternativamente come una striscia statica e immutabile e come il terreno di una vera rivoluzione mai esplicitamente pronunciata. Di rivoluzione e contro-rivoluzione ovviamente, diciamo di sconvolgimenti profondi”. (gt) Provare insomma a riflettere da dove arrivino alcuni modi per leggere e interpretare la realtà. “Dalle macerie di Genova e dell’undici settembre sono nate spinte decisive per la nascita de il lavoro culturale. Molti e molte di noi si sono incontrati e incontrate discutendo proprio nei corridoi e nelle aule dell’Università di Siena questioni politiche e culturali legate a questi eventi. Forse il movimento dell’Onda nel 2008 ci ha rivitalizzati. Anzi, l’Onda è stata decisiva. I movimenti sono decisivi, sono linfa”. (np) “Di Genova ricordo la rabbia guardando le immagini in diretta e la comprensione, da subito, delle finalità e degli effetti di quanto stava accadendo. La riflessione sulle immagini dell’11 settembre ha in qualche modo accompagnato e caratterizzato tutti gli anni universitari. Penso all’insegnamento di Marco Dinoi, che resta centrale anche per quanti non si occupano di cinema, media o cultura visuale. Credo che la memoria delle sue lezioni si riattivi continuamente, in molti articoli e pensieri, dentro e fuori dal blog” (fz).
E allora come si pone questo sito, questo blog, all’interno di questo panorama? “Non siamo un blog di partito, certamente, ma neanche un soggetto di movimento compatto e identificabile o un luogo di produzione di sapere riconducibile a una certa area politica. Pur condividendo princìpi di fondo, su cui – a mia memoria – non c’è mai stato bisogno di discutere e negoziare, non è un comune sguardo politico a tenerci insieme ma la voglia di analizzare in maniera critica la realtà che ci circonda. Il che, se impedisce di elaborare una visione unica, dall’altro consente di produrre letture e sguardi molto più variegati. Del resto, non siamo e non vogliamo essere neanche una rivista ‘accademica’: questa scelta di consente di evitare il rischio di dover uniformare artificialmente stili, sguardi e contenuti”. (eg)
Dove siamo, dove andiamo
“È impossibile dire dove siamo adesso, in poche parole. Certo è che, anche nel corso dell’ultimo anno, i blog e le riviste culturali online hanno avuto una funzione importante se non essenziale, nel tentativo di mettere a fuoco e dare un senso a un presente incomprensibile, spiazzante, doloroso. Anche fuori dall’Italia, la necessità di riflettere pubblicamente sul fenomeno Covid-19 ha portato molte riviste accademiche a fondare o rilanciare uno spazio blog nel quale l’argomentazione possa essere un po’ meno standardizzata, favorendo un dibattito allargato e non peer-reviewed. Tutto ciò è necessario per mantenere un collante e una tensione dialettica tra il mondo della ricerca, l’insegnamento e la società. Per questo, dopo dieci anni, è ancora importante occupare e abitare questo spazio. Ma non ci dobbiamo accontentare, dovremmo essere più creativi, più aperti, più coraggiosi. I miei studenti, che hanno l’età che avevo io nel 2001, mi dicono che i blog culturali italiani sono brutti e non riescono a leggerli. Mi viene da rispondergli che hanno la testa formattata da Instagram e il corpo da Tik tok. Ma poi penso che forse un po’ hanno ragione anche loro e che c’è tanto da lavorare…” (fz)
“Il bilancio, dal mio punto di vista, è positivo. Personalmente, rimango sempre senza parole di fronte a quello che costruiamo: le forze contrarie ci sovrastano, eppure le persone continuano ad organizzarsi, ad agitarsi. Non è solo l’ottimismo della volontà che parla qui, ma è anche lo sforzo cosciente che voglio fare per ricordarmi e celebrare il fatto che un altro mondo lo abbiamo immaginato, lo abbiamo creduto possibile e, in scala micro, in certi casi, lo abbiamo anche costruito. È importante ricordarsi di questo perché la polarizzazione sociale e, più precisamente, la frammentazione sociale che viviamo oggi ce ne fanno perdere memoria. Oppure, come nel caso delle primavere arabe, si vuole far prevalere la narrazione di un fallimento, mentre io credo che dobbiamo concentrarci sull’immaginare come possibile quello che ancora crediamo inattuabile, ricordandoci di quello che siamo stati capaci di fare. Ritornando alla metafora del ponte e del traghetto, credo che lavoro culturale abbia una funzione importante proprio in relazione a questa necessità di ricordare e di “dare gambe” – e strumenti intellettuali – all’immaginazione politica” (pr).
E allora, dove siamo? “noi stiamo sempre sull’orlo dell’indifferenza, ma ogni volta proviamo ad allontanarci da quel precipizio.” (am)
Hanno contribuito a questa serie:
Lorenzo Alunni (la)
Massimiliano Coviello (mc)
Cecilia Cruccolini (cc)
Giuseppe Forino (gf)
Enrico Gargiulo (eg)
Angela Maiello (am)
Nicola Perugini (np)
Alberto Prunetti (ap)
Luca Peretti (lp)
Paola Rivetti (pr)
Giacomo Tagliani (gt)
Francesco Zucconi (fz)
Fine prima parte. Il primo e il secondo articolo della serie si trovano qui e qui. La riflessione sul lavoro culturale oggi riprenderà nelle prossime settimane.