Anche quest’anno l’istituto di ricerca The Economist Intelligence Unit ha messo a punto e pubblicato – grazie alla multinazionale dell’editoria scolastica (e non solo) Pearson Education, già nota alle cronache per altri motivi – la classifica mondiale dei migliori sistemi d’istruzione.
La Learning curve, nuova frontiera del ranking scolastico, è strutturata sulla base di un complesso report di indicatori quali i risultati degli studenti nei principali test internazionali (PISA, TIMSS e Pirls), il livello della spesa pubblica sull’istruzione, i risultati raggiunti dai diversi sistemi d’istruzione nel successo scolastico, gli indicatori economico-sociali che innervano il contesto peri-scolastico (dal PIL ai numeri che riguardano la popolazione carceraria). La “curva dell’apprendimento” individua anche quest’anno il ruolo di guide nei sistemi d’istruzione asiatici (Corea del Sud, Giappone, Singapore e Hong Kong), mentre quello di fanalino di coda è assegnato a paesi dell’America Latina come Colombia, Argentina, Brasile. L’Europa oscilla nell’ormai tradizionale plot delle due velocità, con Finlandia, UK, Paesi Bassi, Danimarca e Germania a spartirsi le prime venti posizioni e Italia, Francia, Spagna e Portogallo ad arrancare invece tra il ventitreesimo e il trentesimo posto. Parziali eccezioni alla consueta trama sono l’Irlanda (al nono posto) e la paradigmatica Svezia (scivolata tra Francia e Italia al ventiquattresimo posto).
La classifica terrebbe conto quindi della complessità in cui s’inserisce, e con cui interagisce, un sistema d’istruzione. Il quadro tracciato è quello di una black box all’interno della quale è difficile cogliere relazioni causali locali e dirette fra spesa pubblica nell’istruzione e successo scolastico, ma al fondo della quale sarebbe evidente come, nel medio-lungo periodo, il potenziamento nella trasmissione e l’implementazione delle competenze avanzate produca un miglioramento della performance economica nazionale, anche in termini di PIL.
Questo nesso risulterebbe particolarmente evidente per la prima della classe, la Corea del Sud, per la quale la curva rileva un alto livello d’interazione fra il grado avanzato delle competenze esibite dai lavoratori e le statistiche su occupazione e livelli di retribuzione. Tale correlazione vale soprattutto per quanto riguarda due competenze chiave per il capitalismo postfordista: la numeracy (le competenze matematiche di base e avanzate, come la capacità di leggere e interpretare grafici su statistiche o la dimestichezza con il calcolo delle probabilità) e il problem-solving. È interessante notare come il dato coreano sulla correlazione competenze/occupazione scenda sotto la media per gli under 30, ovvero per quella fetta di popolazione ancora coinvolta nei processi educativi canonici (scuola secondaria e università). Questo suggerisce che il circolo virtuoso fra istruzione e occupazione rilevato dalla curva per la Corea del Sud sarebbe corroborato da politiche d’istruzione oltre la scuola (e l’università) volte a “rinfrescare” l’esercizio, nei lavoratori, delle competenze di base ma soprattutto delle competenze avanzate (quelle che si acquisiscono solo con il III grado d’istruzione). In altre parole la Corea del Sud mostrerebbe come l’efficacia del lifelong learning – vero sfondo ideologico del report, insieme al feticismo delle skills – è accresciuta in una società dinamica e che già vanta un alto livello d’istruzione.
Ma lasciamo da parte, per un momento, i sistemi d’istruzione delle tigri asiatiche con i loro formidabili punteggi nei test internazionali e la loro invidiabile capacità di pesare sulla produzione della ricchezza nazionale. Il report della Pearson ribadisce più volte che un sistema d’istruzione efficiente si fonda su due criteri di progettazione delle politiche scolastiche: la capacità di mettere in relazione le competenze trasversali di base (leggere, scrivere, far di conto, padroneggiare un’altra lingua e usare le nuove tecnologie) con quelle che vengono definite “competenze del XXI secolo” e, in secondo luogo, un investimento ideologico e di sforzi concreti sulla formazione continua, sull’istruzione durante tutto il ciclo di vita.
Quanto al primo criterio, le “competenze del XXI secolo”, accanto alla digital literacy e a concetti come quello di “cittadinanza globale” e di intelligenza emotiva troviamo voci come la “comunicazione”, la capacità di “fare impresa” (brutta perifrasi con cui rendere l’inglese entrepeneurship) e la leadership. Elementi tipici della forma-impresa che, ad un certo livello di complessità dell’analisi socio-economica, sappiamo essere in aperta contraddizione con aspetti del buon funzionamento di una democrazia quali appunto la “cittadinanza globale” ed aspetti che invece riguardano la socialità come l’“intelligenza emotiva”. Certo, il report ricorda che nessuna di queste competenze del futuro, vero e proprio ritornello della pedagogia sottesa al programma di taglia-e-punisci all’opera in paesi come l’Italia, possono entrare in gioco senza che sia consolidata la trasmissione delle competenze di base. Cosicché, ad esempio, l’introduzione in massa delle nuove tecnologie negli ambienti scolastici, senza un elevato livello di padroneggiamento delle competenze di base, è del tutto inutile o addirittura controproducente. Ma se questo vale per i paesi in via di sviluppo, bacchettati a più riprese dalla learning curve, diventa invece superfluo per i sistemi d’istruzione delle tigri asiatiche e dei paesi nord europei per i quali lo sviluppo di altre “competenze del XXI secolo”, le abilità relazionali legate all’esercizio di una “cittadinanza globale” e alla moderazione delle passioni implicata nell’educazione dell’intelligenza emotiva sono funzionali, in un modo molto chiaro già a Foucault, all’implementazione di skills più onestamente asservite a mantenere o raggiungere alti livelli di competitività come la leadership (su se stessi, verso gli altri) e il “fare impresa”.
Questo buon proposito sedimentato nella lettura del report diventa ancora più evidente nell’enfasi per la formazione continua lungo tutta la vita, ovvero l’auspicio che le competenze trasversali e quelle più complesse caricate sul sistema-studente durante il periodo d’istruzione obbligatorio, possano essere ri-vitalizzate e stimolate durante le esperienze lavorative (rigorosamente al plurale) del cittadino globale. Anche in questo caso vale il principio per cui la formazione continua è possibile solo se lo zoccolo duro delle competenze trasversali di base – dal sapersi muovere lungo testi complessi alla capacità di applicare la lettura di una statistica alla vita quotidiana – sia stato coltivato in maniera efficace e duratura durante il periodo dell’istruzione obbligatoria. Si noti che tale discorso rimane funzionale per il report della Learning curve all’incremento del PIL e del reddito individuale e solo tangenzialmente tocca la possibilità di esercitare in maniera attiva i diritti di cittadinanza in una dimensione globale. Commentando il report Anna Maria Ajello (su “la Repubblica” del 9 maggio 2014), presidente nazionale dell’Invalsi, ha osservato come per fare una buon sistema d’istruzione – soprattutto in Italia – sia necessario «creare un senso di comunità attorno alla scuola», perché l’istruzione «deve essere un’impresa collettiva», indugiando o forse incappando in un lapsus nell’uso dell’ambivalente “impresa”, carica sia dell’accezione di «azione importante e difficile» che di quella di organismo economico-produttivo orientato al profitto.
Sebbene superi l’approccio solo dollari-e-test al futuro dell’istruzione utilizzato da certe analisi, la Learning curve di Pearson continua a tracciare per la scuola un percorso “sviluppista”, orientato principalmente a stabilire una relazione di causalità efficiente con l’incremento della ricchezza globale, e che ha i propri valori cardine non tanto nello sviluppo di senso critico e autonomia, nella guerra alla povertà (non solo materiale) che abita anche le società più opulente, ma in parole d’ordine come “competitività, efficacia ed efficienza”.
Forse continueremo a discutere se un approccio rigidamente statistico-quantitativo alla rappresentazione della scuola abbia come conseguenza una flessione degli stili di insegnamento e apprendimento in un senso che trascuri creatività e intelligenza divergente, o forse ci stupiremo di come in acque così procellose le élites socio-economiche dei paesi più industrializzati celebrino in massa in scuole con un solido background umanistico, d’impianto gesuitico. Quel che è certo che tutte queste discussioni si svolgono all’ombra di una pianta infestante, quella della scuola-impresa e della sua riduzione a pura quantità. Una scuola muscolare, con più ore di attività per gli insegnanti, più formazione, più ore di lezione in classe. E, nella sua versione italiana, con sempre meno risorse economiche e diritti.