Pubblichiamo la recensione a “Tempo di imparare” (Einaudi, 2014) di Valeria Parrella.
Che cos’è normale?
Niente. Chi è normale? Nessuno.
(G.Pontiggia, Nati due volte)
Tempo di imparare descrive la relazione di una donna con suo figlio Arturo, disabile, dal periodo della nascita a quello della crescita, intorno ai sei anni. In questo libro trova spazio il “tempo dell’apprendimento materno”, che segue al “tempo dell’attesa”, racchiuso ne Lo spazio bianco, romanzo di Valeria Parrella del 2008.
In primo piano dunque, è lo stato d’animo con cui la donna affronta la disabilità del proprio figlio, sia nella propria intimità che al cospetto del mondo esterno, in particolare in rapporto alle istituzioni mediche e scolastiche. La bravura della scrittrice sta nel riuscire a veicolare le difficoltà e le sofferenze della protagonista – che è in realtà un suo alter ego – attingendo figure da un piano simbolico e dell’immaginazione, oltre che da quello reale e autobiografico. Nelle scene di vita quotidiana emergono episodi di rabbia «primitiva»: la protagonista più volte si trova di fronte all’ottusità dei medici e reagisce con gesti violenti quanto surreali: nel corso di una visita dallo psicomotricista, armata di sparachiodi, attacca colpo dopo colpo il corpo dello specialista al muro; oppure, in seguito ad una visita ospedaliera tanto attesa quanto inconcludente, la donna distrugge lo studio medico a colpi di clava.
In Tempo di imparare in parallelo con la narrazione si costruisce una riflessione sul linguaggio. In particolare, viene composto un gioco linguistico a partire dalla parola “handicap”. Sin dall’inizio del libro – seguendo quello che è un piano immaginario del racconto – la parola “handicap”, in forma di seme, viene affidata al Botanico – un personaggio vicino ad Arturo sin dalla sua nascita – che lo cura e lo conserva. In un primo momento il seme è messo nell’ovatta bagnata, poi è trapiantato in un vaso di terra umida, infine diviene albero. E quest’albero compare nel libro in forma logogrifo – un anagramma realizzato da Stefano Bartezzaghi – i cui rami contengono le lettere che compongono la parola “handicap”.
Dunque, la costruzione dell’identità di Arturo va di pari passo con la scomposizione del termine in questione. «Handicap non è una parola molto facile da far germogliare. […] Però curati ogni giorno di tenerla umida e coperta, per vedere cosa nasce», dice il Botanico alla donna, nelle prime pagine del libro. «Handicap», ribadisce in più interviste Valeria Parrella, «è una parola mutuata dall’inglese, per indicare una sorta si svantaggio iniziale che può contraddistinguere un cavallo da corsa piuttosto che una barca a vela». Il fatto che questo termine sia utilizzato comunemente al posto della parola “disabilità” è sintomo di un’incapacità della società a gestire questa problematica, sostiene la scrittrice, che sceglie di utilizzare il termine “disabile”, in linea con Nati due volte dello scrittore Giuseppe Pontiggia.
In Tempo di imparare emerge il tentativo, da parte delle famiglia di Arturo, di far entrare il termine nell’uso delle parole comuni. Ariel, il padre di Arturo, risponde così, quando gli viene chiesto se suo figlio è disabile:
«Sì, è disabile, siamo una famiglia di disabili: è come i pellerossa, ne basta uno della tribù che prendono tutti gli stessi segni, io sono disabile, la mamma di Arturo è disabile, i nonni sono disabili, e anche il Botanico, vedi quel signore là che sta fumando fuori al balcone? È un nostro caro amico, conosce Arturo da quando è nato, così è disabile anche lui. La sua fidanzata un poco meno, almeno finché non si sposano…» (p. 94)
Tempo di imparare è da considerarsi anche un romanzo civile, che riesce a far riflette sulle problematiche comuni della categoria definita dalla legge 404/1992 – la legge quadro sulla disabilità – che la protagonista dice di avere «tatuata sull’avambraccio». Una legge che costringe ad avere a che fare con la pubblica amministrazione e la burocrazia, con le sentenze del Tar, con le diffide, e che in risposta rende necessaria la complicità tra genitori, appartenenti o non a quella categoria. Nel romanzo viene descritto il processo in cui la protagonista, sfinita per le piccole lotte che deve portare avanti, rinasce grazie all’aiuto di chi le sta vicino:
Sono nuda, adesso. Non ho più capelli né unghie né denti, la curva dell’inguine liscia puerile. Allora una si taglia di netto i capelli che le arrivano alla schiena e me li sistema attorno al viso, Tonia si toglie le mutande e mi aiuta a indossarle, lo stesso fa con calze e scarpe. Ognuno di loro prende un dente dalla bocca così che io possa di nuovo parlare senza far sibilare le consonanti, e la più chic mi dà delle unghie nuove colore del mare. Gli uomini mi offrono giacche e maglioni, camicie e sciarpe per affrontare ancora la strada. (p. 117)
Seppur dunque nel libro sia centrale la dimensione individuale e del rapporto madre-figlio, la dimensione collettiva è fondamentale.
La narrazione è imperniata di immagini mitiche, che fanno lievitare il racconto ai limiti tra mondo reale e quello mitologico. La quotidianità dell’essere madre si tramuta nel portare a compimento un elenco di sfide eroiche, come «uccidere l’immortale Idra di Lerna», o «ripulire in un giorno le stalle di Augia» o ancora «impossessarsi della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni». Una telefonata della protagonista alla segreteria di circolo per la conferma dell’insegnante di sostegno, si può trasformare in un’impresa epica:
Signora Miriana, Signora Miriana mi sente? Sono la madre di un bambino che ho iscritto, Arturo, abbiamo la 404, ripulisco in un giorno le stalle di Augia, mi vede? Ho bisogno di sapere, ho fatto la notte, mi aveva setto di richiamare, è quasi il 20 oggi: è il 16, ma in mezzo ci sono sabato e domenica, rubai la cintura di Ippolita e le cavalle di Diomede, parlai con il vicario, può dirmi qualcosa oggi? (p. 58)
Con questa scrittura, in un intreccio di un piano simbolico, immaginario e reale, Valeria Parrella riesce a raccontare una dimensione di apprendimento che è al contempo individuale e collettiva.