Con questa uscita iniziamo un percorso nella galleria degli Antichi Maestri, frammenti di voci che osarono pensare e scrivere anche di riforma dell’istruzione, tralasciando impudentemente gli anglismi, la valutazione, le competenze-chiave, la progettazione.
Pubblichiamo un estratto da La riforma scolastica: un movimento culturale, un breve scritto composto da Walter Benjamin nel 1912 (tr. it. in W. Benjamin, Scritti 1906-1922, Einaudi, Torino 2008, pp. 80-83). Nel primo trentennio del XX secolo i sistemi di istruzione degli stati-nazione europei avviarono quella nazionalizzazione dell’infanzia e dell’adolescenza che avrebbe portato alla definizione di percorsi di istruzione obbligatori e statali. In questo frammento Benjamin coglie la banale ambiguità che accomuna ogni percorso di riforma dell’istruzione.
Solo quando, leggendolo, ci riesce di trasformare un tutto, una cosa finita, compiuta, in un frammento, solo allora ne traiamo grande diletto, a volte addirittura un diletto grandissimo.
(T. Bernhard, Antichi Maestri, tr. it. di A. Ruchat, Adelphi, Milano 1992)
Il primo atto di propaganda di tutti quelli che agiscono al servizio della riforma scolastica deve essere salvarla dall’odio, quasi fosse una questione per gli addetti ai lavori o un assalto del dilettantismo contro la professionalità dei pedagoghi. «La riforma scolastica è un movimento culturale»: è questo il primo principio da conquistare. Solo esso giustifica l’universale richiesta di una riforma scolastica e il fatto che questa richiesta venga sempre indirizzata al popolo. E, d’altra parte, solo in questo motto trovano espressione tutta la serietà e la speranza di coloro che si dedicano a questo compito. Prima ancora una cosa! Ci obietteranno: «Molto comprensibile quello che volete! Non c’è nessun pensiero nuovo, nessuna idea nella nostra epoca democratica e rumorosa che non cerchi di penetrare in modo immediato e prepotente nella massa. Ogni idea vuole appunto essere un ‘movimento culturale’ giacché questa espressione non è solo un titolo onorifico ma è anche potere». E a questa obiezione si deve poter ribattere dimostrando come la riforma scolastica vada al di là delle tesi scientifiche di specialisti, come sia piuttosto un modo di pensare, un programma etico del nostro tempo; certamente non nel senso che chiunque possa esserne il rappresentante, ma con l’esigenza che tutti debbano prendere posizione nei suoi confronti! […].
«Cosa significa e a quale scopo vogliamo una riforma della scuola?» Potremmo parafrasare così il ben noto tema schilleriano. Rudolf Pannwitz ha definito una volta molto acutamente l’educazione come «propagazione di valori spirituali». Accettiamo questa definizione e domandiamo solamente: cosa significa «valori spirituali»?
Per prima cosa significa che cresciamo oltre il nostro presente. Non solo che pensiamo sub specie aeternitatis (mentre facciamo opera educativa viviamo e agiamo sub specie aeternitatis). Vogliamo una continuità logica in ogni sviluppo: che la storia non si disperda nelle volontà individuali delle singole epoche o addirittura delle persone: che lo sviluppo progressivo dell’umanità, al quale crediamo, non proceda più secondo un’ottusa incoscienza biologica ma segua le finalità dello spirito. Questo vogliamo, e cioè cura del naturale sviluppo progressivo dell’umanità: cultura. L’espressione che riassume questa nostra volontà è: educazione.
Propagare valori significa però ancora un’altra cosa. Non solo propagazione dell’elemento spirituale, e in tal senso la cultura si fa problema, ma lo spirituale stesso da trasmettere, e questa è la seconda esigenza. Nasce così la domanda circa i valori che intendiamo lasciare in eredità ai posteri come testamento più elevato. La riforma della scuola non è solo riforma di modi di propagazione dei valori: è nello stesso tempo revisione dei valori stessi. E questo il suo secondo fondamentale significato per la vita culturale.
Nel modo di riformare la scuola di oggi si palesa con sufficiente chiarezza questa ambivalenza nei confronti della cultura. Nascono nuovi metodi di far lezione e di educare. Si tratta in questo caso del modo di trasmissione e si conosce la molteplicità dei compiti che ne derivano. Pressante si può definire la richiesta di autenticità dei metodi educativi. Si avverte come un fatto poco dignitoso se l’insegnante trasmette una scienza della cui necessità non è persuaso, se educa il bambino, anzi addirittura il giovane con misure (rimproveri, reclusioni) che lui stesso non prende sul serio o se addirittura con un sorrisetto nascosto – «si fa questo per il suo bene» – pronuncia una sentenza di condanna morale. Il rapporto con il problema culturale è chiarissimo. E necessario trovare, una via d ’uscita alla contraddizione tra sviluppo naturale e autentico da una parte e il compito di trasformare l’individuo naturale in individuo culturale dall’altra, compito che non sarà mai risolto senza un atto di forza.
Pure sembra quasi che qui non ci sia ancora battaglia se guardiamo verso l’altro campo, là dove si combatte per i valori, i valori che devono essere lasciati in eredità alla nuova generazione. È un selvaggio tumulto. Non poche schiere di pochi avversari, ma la lotta di tutti contro tutti. Accanto a scudo e spada (ev. anche qualche freccia avvelenata) ognuno si adorna di una bandiera di partito. I grandi avversari che nella vita pubblica si sono affrontati in una libera e franca battaglia, i rappresentanti di grandi concezioni contrapposte, religiose, filosofiche, sociali, estetiche, cedono qui il posto a quelli che disputano sulle materie (‘greco’, ‘inglese’, ‘latino in quarta’, ‘latino in terza’, ‘abilità manuale’, ‘educazione civica’ ‘ginnastica’). Tutti singolarmente bravi e insostituibili combattenti, pure danno luogo solo a confusione finché non hanno trovato posto nelle schiere di uno dei grandi contendenti, posto collegato logicamente proprio con i grandi temi contrapposti il cui gagliardo grido di battaglia viene soffocato tra i muri della scuola.
Il legame più stretto tuttavia tra cultura e riforma scolastica lo costituisce la gioventù. La scuola è l’istituzione che conserva le conquiste all’umanità come patrimonio riproponendolo in continuazione. Ma qualsiasi cosa offra la scuola resta merito e prodotto del passato, anche se talora del più recente. Al futuro non può offrire nient’altro che attenzione e rispetto. Ma la gioventù, al cui servizio è la scuola, le offre il futuro. La scuola riceve una generazione insicura, nella realtà come nella coscienza, forse egoista e ignorante, spontanea e grezza (e sarà lei a formarsi al servizio della scuola), una generazione tuttavia che è al tempo stesso tutta piena delle immagini che porta con sé dalla terra del futuro. La cultura del futuro è quindi in ultima analisi lo scopo della scuola, e per questo deve tacere sul futuro che le viene incontro nei giovani. Deve lasciare che sia la gioventù stessa ad agire, deve contentarsi di offrire libertà e di pretenderla. E cosi vediamo come l’esigenza più pressante della pedagogia moderna non sia altro che quella di creare spazio per la cultura a venire. In una gioventù che deve imparare poco a poco a lavorare, a prendersi sul serio, autoeducarsi, confidando in questa gioventù, l’umanità confida nel proprio futuro, nell’irrazionale, che essa può solo onorare, nella gioventù che non è solo ricolma di spirito del futuro: di più, lo è di uno spirito che avverte in sé la gioia e il coraggio di essere un nuovo apportatore di cultura. Cresce sempre più la coscienza dell’assoluto valore, della gaia serietà di questa nuova gioventù. E si è espressa l’esigenza che il modo di pensare di questi giovani debba diventare un modo di pensare comune a tutti, un orientamento di vita.
Capite ora, colleghi, perchè ci rivolgiamo a Voi che siete portatori di cultura?
Gioventù, scuola nuova, cultura: è questo il circulus egregius che siamo costretti a ripercorrere in ogni direzione.