Shahida o il gioco come strumento per mettere in scena il mondo
Avvicinarsi a un oggetto come Shahida. Vivere prigionieri in zona di guerra, l’ultimo lavoro del game designer americano Ron Edwards, impone al lettore/giocatore di porsi un interrogativo rispetto alla natura di questo testo. Un interrogativo rispetto cui la categoria analitica proposta da Wu Ming 1 aiuta a formulare una risposta.
Questa sensazione di somiglianza non nasce soltanto per le analogie tra lo stile di scrittura adottato da Edwards e Asce di guerra, uno dei testi di Wu Ming che ricade sotto la definizione di oggetto narrativo non identificato.
L’affinità si radica soprattutto nella struttura di Shahida e nel modo in cui il testo chiede di essere preso in carica da chi lo accosta.
Shahida è infatti un sistema di gioco di ruolo pensato per mettere il giocatore in condizione di vivere le vicende di una famiglia libanese per un periodo che si snoda attraverso le varie fasi della sanguinosa guerra civile che dal 1975 fino al 1991 ha piegato il paese levantino. Le meccaniche di gioco si basano su uno stile di gioco denominato Story Now – che l’autore aveva già sperimentato in un progetto precedente – Spione, un gioco dalle sfumature spionisitiche, ambientato nella Berlino della guerra fredda.
Lo stile Story Now è sostanzialmente una tecnica di narrazione condivisa e multi-autore che si basa sulla dimensione performativa della parola[1], a cui si accompagnano alcune regole per strutturare il ritmo del gioco, determinare il contenuto emotivo delle singole scene e creare un setting in cui collocare l’azione.
Nel concreto a uno dei giocatori, denominato testimone – Shahid in arabo [1]
– , viene chiesto di disegnare l’albero genealogico della propria famiglia in un determinato momento temporale. Questa mappa servirà per creare l’ipotetica famiglia libanese la cui vita durante la guerra civile verrà messa in scena dai giocatori.
Un elemento interessante, che si discosta dalla prassi consolidata del gioco di ruolo classico, è rappresentato dal fatto che il giocatore non interpreta un personaggio fisso ma, di turno in turno, può giocare personaggi diversi fornendo così a tutti gli altri giocatori elementi e appigli per proseguire la narrazione.
La sensazione che si sviluppa durante il gioco grazie alle meccaniche messe in campo è molto particolare. Nella sessione di prova che ho giocato insieme ad alcuni amici ci siamo resi conto come il gioco riuscisse a rendere con grande precisione la sensazione di come la guerra si presenti nelle vite delle persone attraverso dinamiche sostanzialemente casuali e di come l’impatto che questa ha sulla vita di tutti i giorni sia improvviso e si dispieghi seguendo percorsi difficilmente prevedibili.
Al termine della sessione molti di noi hanno ragionato sulla durezza del gioco e delle situazioni che potenzialmente questo poteva permettere di inscenare.
Tutto ciò non può prescindere da un coinvolgimento intenso del giocatore in un percorso di formazione. Non a caso circa il 90% del manuale è dedicato a un lungo saggio composto di capitoli e approfondimenti (chiamati profili) che toccano una serie di temi utili a sviluppare la conoscenza di base necessaria per potersi muovere all’interno dello spazio narrativo che si viene a creare durante le sessioni di gioco. I temi toccati da Edwards vanno dalla cronologia delle varie fasi della guerra civile a una articolata riflessione sul senso del fondamentalismo religioso, passando per una approfondita disamina storico-critica del periodo coloniale.
Ogni elemento del saggio è propedeutico a illuminare un aspetto potenzialmente inseribile all’interno delle sessioni di gioco, anzi è un buon esercizio rileggere il saggio dopo aver studiato le regole. Il carattere “narrativo non identificato” di questo lavoro nasce proprio dall’accostamento tra lo sforzo saggistico messo in campo dall’autore, il set di regole e il risultato dell’attività di gioco che consiste nella creazione di una narrazione in cui i confini dell’autorialità si fanno sfumati fin quasi a sparire. Costituisce un motivo d’interesse la profonda coesione e il dialogo che si creano tra la dimensione saggistica del manuale e quella finzionale che si genera nello spazio di gioco condiviso. La prima non ha senso se non in funzione delle storie potenziali che è chiamata a nutrire. La seconda non può esistere in maniera compiuta senza aver prima affrontato il materiale preparatorio o quantomeno un percorso personale di approfondimento delle tematiche del gioco.
Shahida offre, rispetto ad Asce di guerra, un risultato più compiuto in termini di coesione tra la dimensione documentaria e quella finzionale, o quantomeno sembra predisporre tutti gli elementi perché questa coesione si realizzi. Non si deve infatti dimenticare che come tutti i giochi anche questo presenta fattori aleatori non prevedibili.
La versione italiana, la cui pubblicazione precede quella americana ancora in fase di sviluppo, è stata pubblicata dalla casa editrice Narrattiva; purtroppo soffre di un editing frettoloso e di una traduzione a volte un po’ zoppicante che rendono difficoltosa la lettura di questo testo sicuramente non facilissimo.
Ciononostante questo è senza dubbio un prodotto editoriale di straordinario interesse per le questioni teoriche che chiama in causa e merita di essere approfondito, soprattutto da chi pensa che i giochi di ruolo siano ancora, solo e sempre, nani vs. orchi e farebbe bene ad avvicinarsi a questo gioco per capire che la tensione alla complessità può prendere forme diverse e inaspettate. A volte anche quelle di un gioco.
ps. se tra i lettori di lavoro culturale ci fosse qualcuno interessato a provare il gioco sono disponibile a organizzare sedute di prova in video chat.
Note
[1] Nel capitolo del manuale dedicato all’illustrazione delle meccaniche di gioco l’autore spiega il sistema con queste parole “questo gioco si basa su una cosa molto semplice: il comunicare a parole agli altri giocatori quello che “sta avvenendo” in quel momento nella storia che si sta creando insieme” R. Edwards, Shahida. Vivere prigionieri in zona di guerra, Narrattiva, 2012.
[2] Un ulteriore sfumatura di significato presente nel sostantivo arabo Shahid fa riferimento al martirio. Lo Shahid è il martire inteso come colui che passa attraverso il trauma e ne costruisce la testimonianza tramite l’osservazione diretta.