Elio Petri, situazione 1979

Pubblichiamo un estratto del libro di Alfredo Rossi Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata pubblicato da Mimesis. Si tratta di tre lettere indirizzate dal regista allo stesso Rossi tra il 1978 e il 1979, poste come soglia di accesso allo spazio dell’analisi dopo un’ampia introduzione che traccia un bilancio degli oltre trent’anni trascorsi dalla prima edizione del volume.

Sei un intellettuale?

[Da lettera datata fine Ottobre 1978]

Io sarei un “intellettuale”. Temo proprio di no, anche se da ragazzo avrei amato fosse stato così. L’intellettuale è uno studioso, qualcuno dressé per esserlo, qualcuno che paradossalmente è stato tarato proprio nell’intelletto, per esserlo, e che opera essenzialmente con la ragione, che è poi una ragione iper-dressé, iper-alimentata e, in definitiva, iper-amata. Il mio dressing, nella adolescenza, non riuscì bene. Mi cacciarono due volte dalla scuola e, infine, fui io a rifiutarmi di prendere il titolo di studio. Tutto pareva, anche allora, più necessario dell’andare a scuola.

Dunque. Non dimentichiamo che erano anni di guerra e di dopoguerra. Le strade puzzavano ancora di morte e di fascismo. Sotto le macerie c’erano cadaveri e le istituzioni esalavano fascismo. C’erano le scoperte dell’adolescenza, che per noi erano doppie, poiché alla scoperta di tutto quanto quello che ci aveva preceduto, si univa la scoperta delle cose che il fascismo aveva proibito e nascosto. Se feci, quindi, una scuola fu per le strade, nelle cellule del partito comunista, nei cantieri del genio civile, al cinema, al varietà, nelle biblioteche comunali, leggendo i giornali e le riviste di partito, amando politecnico, facendo scuola di partito, nelle lotte dei disoccupati, in camera di sicurezza, anche a Regina Coeli, negli scontri con la polizia, nelle sparatorie, nei linciaggi, nei postriboli, negli studi dei pittori della mia età, in tipografia, da Rosati a Piazza del Popolo, nei cineclub, nei comizi, tra coloro che quel tempo venivano ancora chiamati rivoluzionari di professione. I miei testi li trovavo nelle sezioni del partito comunista e sui carrettini dei libri usati. I miei eroi: Totò, Bogart e Julien Sorel. Confusione e disordine, nei quali la mia ragione lavorava soprattutto su due versanti: a tener duro sull’idea che il problema di fondo della società umana fosse quello dell’uguaglianza fra tutti i viventi ed a studiare e combattere le tracce che erano in me dell’educazione cattolica e fascista. In un certo senso le cose non sono cambiate, come se io fossi morto in quegli anni. E, siccome, in quegli anni, la mia identità era in divenire, anche oggi lo è. Un intellettuale è qualcuno che si fa in serra, le cose gliele raccontano, la sua soggettività non è mai in gioco, e sarà sempre se stesso, senza dubbi, anche ove ponesse in dubbio tutto intero il suo stare in serra, vive per la sua funzione e la tiene bene al riparo dalla vita.

In quel tempo, a pensarci bene, forse il mio modello furono gli artisti, per la loro natura, che è schiettamente criminosa, per la loro visceralità, per la loro puerilità, che è come dire la stessa cosa, ed anche per il loro doversi inventare il mestiere da sé, come artigiani, ogni mattina davanti a qualcosa di bianco da trasformare in qualcosa che prima non c’era, sedia, tavolino o quadro, segni della loro presenza. Anche il rapporto degli artisti con il denaro è diverso da quello istituzionale: essi non producono per guadagnare, ma guadagnano perché producono e questo si può dire anche di artisti corrotti o ricchissimi. L’arte è superflua. I guadagni degli artisti confrontati a quelli scaturiti dalla produzione istituzionalizzata, sono simili alle rapine, bottino di azioni corsare. Il loro tempo non è monetizzabile. Essi dilatano ogni istante della loro esistenza, come i sognatori. Con ciò non voglio dire di essere un artista. Io direi che sono un adolescente, ancora senz’arte, né parte.

Sei comunista?

[Da lettera datata fine Ottobre 1978]

Posso io dire di essere comunista? Sinceramente, ed a questo punto non vedo come cavarmela altrimenti, io non posso dirlo, e non soltanto perché nessuna delle chapelles comuniste mi ritiene comunista, né le vecchie, né le nuove, ma perché, secondo la mia vecchia esperienza di militante, essere comunista vuol dire accettare una disciplina di partito, sacrificare in qualche modo la propria soggettività alla ragione di partito e vivere minuto per minuto per il partito, ed io non lo accetto. Aggiungo: io vivo, ora, più o meno, come un medio borghese, la mia giornata è completamente distaccata dalla socialità, il tumulto, se c’è, è solo interiore, un po’ di mugugno di qualcuno a cui non va bene niente, la mia “roba” me la tengo pensando alla vecchiaia che si approssima, insomma, la mia vita cosa c’entra col comunismo? La mia vita è quella di un borghese più o meno inquieto, più o meno scisso, che da giovane ha militato in un partito rivoluzionario, che ha vissuto la caduta delle speranze rivoluzionarie, che ha visto degradare, con quella caduta, l’intera società in cui viveva, e che non riesce più ad identificarsi con nessuna di quelle forze che si richiamano al comunismo, che sono tante, che sono di indole fratricida e che continuano ad azzuffarsi tra loro su vecchi problemi teorici come se volessero chiudere gli occhi sui nuovi, incapaci, comunque, di generare nuove teorie e perfino di riconoscere la parte morta delle vecchie. Se rifiuto di sacrificare o mortificare la mia soggettività, se rifiuto una qualunque disciplina, se vivo come un borghese che comunista sono? Mi si dirà che molti comunisti vivono come me, se non peggio, e che non li sfiora il dubbio che un comunista debba vivere diversamente. Ma che ci posso fare io se la gente non vuole guardarsi in faccia e vedere esattamente com’è? Io credo che un marxista, o semplicemente un progressista, che viva in un paese capitalista, o anche in un paese socialista, sia destinato a vivere in pezzi che difficilmente si “tengono” fra loro. Sono integri i conservatori, perché nella ferrea determinazione di conservare tutto intero il mondo com’è non hanno contraddizioni, non soffrono di scissioni, non temono incoerenze, che, oltre tutto, sono giustificate dalla doppia, tripla morale, o quadrupla, che è proprio tra le cose che vogliono conservare. In un conservatore non troverai mai nemmeno il barlume più fievole di un’istanza progressiva. Mentre, va detto, in un progressista vi sono pezzi rissosi e ingombranti di ideologie reazionarie, non sempre chiaramente individuabili in quanto tali, che rendono il suo foro interiore simile ad una miserabile aula di pretura o ad una includente e verbosa assemblea che raggruppi dalle Brigate Rosse fino ai saragattiani, ed oltre, fino ai cattolici, ed oltre, occorre dirlo, qualche volta fino ai fascisti. Non dico che questo stato di schizofrenia non sia da preferirsi, per chi vuole stare nel proprio tempo e viverlo e soffrirlo, a quello integro, monoculturale e monospirituale del conservatore. Tuttavia bisogna incominciare a riconoscerlo, a studiare ed ammettere le contraddizioni, ed anche a denunciarle, iniziando dalle proprie. Essere progressisti e non far nulla vuol dire, forse, covare il desiderio inconscio che non cambi nulla. Vivere da borghesi e dichiararsi rivoluzionari vuol dire esprimere coi propri comportamenti non tanto uno stato di semplice malafede, ma qualcosa di più, l’adesione ai valori della società borghese e il desiderio latente di rendere vana ogni ricerca di nuovi comportamenti. L’elenco delle contraddizioni e dei “pezzi” potrebbe continuare all’infinito. Mi premeva soltanto dire che io non posso essere definito comunista. Né intellettuale, né comunista. Sono due cose che avrei voluto e potuto essere, questo sì, anche se ritengo che le due parole stridano fra loro, che un intellettuale non possa essere altro che un fiancheggiatore degli operai.

D’altronde, e questo lo dico non soltanto a mia discolpa, non appartengo nemmeno a quel vastissimo gruppo di intellettuali e piccolo-borghesi che dal ’44, in Italia, per non dire in Europa, si sono arrogati il diritto di rappresentare gli interessi della classe operaia, non sapendo nulla della realtà popolare e operaia, invadendo tutti i partiti della sinistra ed anche i gruppi extraparlamentari, rinnovando ancora una volta il fenomeno del mimetismo piccolo-borghese.

Ma cosa sono, allora? Vengo da una famiglia di lavoratori, povera, se non poverissima. Ho scelto istintivamente di parteggiare per i lavoratori. Le circostanze mi hanno portato a fare il cinema. Quali circostanze? Le centinaia e migliaia di film che ho visti e amati. Il fatto che i poveri fanno la boxe, o la musica leggera, o il cinema. Il fatto che per fare il cinema non ci voleva un titolo di studio. Il fatto che il cinema fosse, a quei tempi, arte popolare. Mi sono fatto una certa strada, aiutato da una certa fortuna. Ho cercato sempre di non rinnegare me stesso, ma non so se ci sono riuscito. Anzi, credo di no. Ora vivo in uno stato sociale più alto di quello da cui provengo. Forse il mio scopo era semplicemente questo. In questo caso lo avrei raggiunto. Tutto qui? Forse sì. Forse c’era poco altro da fare. Ma forse no.

Perché un libro su Elio Petri, oggi?

[Da lettera datata 2 Luglio 1977]

Vedi, io non sento nessuno necessità di fare un libro su di me e lo dico sinceramente. Tutti i motivi che mi spingerebbero a invitarti a proseguire nella tua insana idea sarebbero di ordine strumentale, pro domo mea, corrotti, viziati da narcisismo alimentati da piccole e grandi frustrazioni. Confesso che quando parlano di qualche mio film mi viene voglia di difenderlo, ma solo per istinto di conservazione (o di conversazione?). Essendo i miei film arte della mia memoria li ho dimenticati, volendo dimenticarli. Mi balza ogni tanto allo spirito qualche sensazione piacevole provata girando una scena, qua e là per l’Italia, un’atmosfera che mi era piaciuta, un pomeriggio in Sicilia, il viso di un attore che amavo. Ogni tanto mi attraversa il gusto di aver provocato qualche discussione. Ma i film mi sembrano di un altro. La questione da te posta è molto angosciosa anche perché mi rimanda a domande, tanto stringenti quanto inutili, sempre presenti in me. Perché fare le cose? Perché faccio un film? Perché faccio il cinema? Una volta fare il cinema mi piaceva e tutte queste domande c’erano, ma latenti, preconscie. Un ragazzo, in Occidente, fa le cose perché le trova le davanti a lui, da farsi, e farle è un poco fare se stessi. Il divertimento, in quell’età, consiste proprio nell’andare a caccia di se stessi, facendo una cosa o l’altra. Ma quando si scopre che la caccia a, o di se stessi è inane, cessa di divertimento.

Quando si scopre che le cose sono lì per obbligarti ad essere qualcuno di preciso – e di fittizio – è finito il gioco. Ho cercato di ovviare a quest’inconveniente tornando a zero alla fine di ogni film, come certe macchine calcolatrici che cancellano alla fine di ogni calcolo tutte le operazioni, ricominciando ogni volta daccapo, ripuntando sempre tutto quello che avevo accumulato. Mi sono reso conto però che si trattava di un espediente privo di efficacia, una specie di roulette un po’ sciocca. Ora mi pare di fare un film spinto dal mio ruolo, per necessità di denaro, per pagare le tasse, dunque per riflesso condizionato. Sono come mi hanno fatto le cose? Apparentemente sì. Se ci penso bene, ogni cosa si fa per sfuggire all’idea della morte, per passare il tempo, perché la mente sia occupata da altro che non dall’idea, o voglia o paura, di morire. Quindi anche i film, i libri, i miei e i tuoi. Ma questo non risponde alla domanda: perché un libro proprio su di me?

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