Proponiamo un estratto da “Qualcosa si scrive, qualcosa si grida. Note su burocrazia, parola e bestiame umano”, saggio introduttivo di Davide Caliaro alla ripubblicazione del testo di Pierre Legendre, “Godere del potere” (1976), edito da casa di marrani.
L’incontro con il testo Godere del potere di Pierre Legendre, qui nuovamente proposto all’attenzione del pubblico italiano, rivela la drammatica e monumentale maestà della messa in scena dello Stato e della sua burocrazia nella tradizione occidentale. In un momento storico nel quale il fantasma della fine dello Stato sembra trovare negli sconvolgimenti prodotti dalla situazione economica un’ulteriore conferma, appare salutare e tanto più necessario ascoltare una voce in grado di sottrarre il fenomeno istituzionale alla semplicistica metafora della macchina, e lo Stato alla sua riduzione a strumento tecnico, per metterne in luce una dimensione inaudita: la costituzione immaginaria. Ecco, allora, che le pagine legendriane ci informano del fatto che lo Stato, in prima battuta, è un idolo, nel senso religioso del termine, ovvero un oggetto d’amore in grado di catturare il desiderio dei suoi sudditi attraverso una grandiosa macchinazione che trova nel testo giuridico e nel mito cristiano le sue armi tradizionali. Di qui l’impressione inevitabile che fa dello Stato e della sua burocrazia un colosso, secondo il significato accordato dagli antichi Romani al termine istituzione, usato per designare la monumentalità onnivora della Legge. Colossalità tanto più inaggirabile quanto più, con Legendre, si scende nei sotterranei della tradizione teologico-politica occidentale e del romanzo sessuale del potere in essa racchiuso, sino a scoprire quanto l’affermazione secondo cui siamo posseduti dalle istituzioni corrisponda, immaginariamente e tuttavia effettivamente, alla verità. Perché, innanzitutto, di una cosa si tratta di essere consapevoli approcciando questo testo: quando Legendre parla di economia immaginaria del potere non sta affatto opponendo immaginario e realtà, ma, piuttosto, lavora ad indicare come la realtà non sia altro, in quanto tale, che un’elaborazione immaginaria. Il riferimento al mito cristiano e alla favola sessuale che esso porta con sé, non meno che alle elaborazioni giuridiche moderne sorte genealogicamente dalla casuistica penitenziale della Scolastica latina, si lascia comprendere nella sua essenzialità unicamente a partire dall’idea che la dimensione immaginaria lavori alla costante produzione di effetti di realtà e, dunque, alla produzione stessa della realtà come suo proprio effetto.
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Per dar conto della costituzione immaginaria dell’Istituzione e, al contempo, dell’intima padronanza di questa nei confronti dei sudditi/cittadini, Legendre ricorre al qui pro quo tra sintomo (sinthome) e sant’uomo (saint’homme): «Ipoteticamente – scrive l’autore – lo Stato produce una società perfetta, in cui ciascuno è il sant’uomo, sintomo e segno della Legge». All’interno della finzione di una simile società, nella quale tutti sono supposti essere uguali, ovvero tutti si scoprono convocati a godere dei propri diritti in questa società dell’univoco, viene meno, immaginariamente, la stessa differenza gerarchica tra sudditi e capi. Ricettore supposto passivo della parola del potere, il suddito/soggetto, chiamato nelle istituzioni ad amare questa stessa parola e il suo Autore, si trova così istituito in quanto sintomo della Legge. Come i funzionari e i capi vivono la sacra alienazione di essere la viva voce della Legge, così i sudditi, messisi in riga rispetto al potere, ne sarebbero l’incarnazione rivelata. Cade, qui, una delle critiche rivolte a Legendre: l’aver compreso il potere come una semplice caduta verticale, dall’alto al basso della gerarchia. In realtà è l’intera società a essere gerarchica e burocratica, nella misura in cui tutti sono invitati a entrare nella società perfetta, nel paradiso in terra, luogo mitologico immerso nell’amore. Il paradigma identificato esplicitamente da Legendre per definire una simile società è quello del sorvegliarsi e punirsi, intendendo con ciò riferirsi al lavoro di controllo e assoggettamento che le relazioni di potere messe in atto dalle istituzioni portano sin nel foro interno del soggetto, secondo la celebre espressione del diritto penitenziale. E questo lavoro sarebbe, innanzitutto, un lavoro d’innocenza, ovvero un lavoro attraverso il quale il soggetto si trova ammaliato dalla promessa che la colpa, figura del desiderio cocente e del conflitto che gli appartengono, possa essere tolta. Il suddito in quanto sinthome della Legge scopre allora in questa ciò che può trasformarlo in saint’homme, nel sant’uomo salvato infine dalla bontà del potere, ovvero dalla parola perfetta di Colui che, solo, sa in cosa consista la salvezza per il genere umano. La Legge, di cui il suddito è il sintomo, è ciò che, in ultima battuta, conferisce l’innocenza, e, nello Stato, società perfetta di cui ciascuno è il sant’uomo-sintomo, lo stesso suddito è chiamato a inocularsi da sé tale Legge.
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Nella figura del sant’uomo, sintomo della Legge, sembra, inoltre, lasciarsi pensare, con Legendre ma contro Legendre, qualcos’altro, qualcosa di profondamente inquietante per la civiltà occidentale, ovvero la possibilità che l’Uomo stesso, in quanto tale, non sia altro che una figura della Legge, ovvero un’epifania del potere e del dominio. Saint’homme sembra potersi leggere, infatti, anche come un significante unico nella lalingua del potere, facente segno al fatto che l’Uomo in sé sarebbe santo, ovvero sempre già in linea con la Legge, sempre già istituito in quanto tale dalle relazioni di potere. La Legge lavorerebbe, allora, innanzitutto alla produzione dell’Uomo, alla sua nascita, rivelando nella figura dell’umano una decisiva messa-in-forma di ciò che, nell’esistenza, rimane informe e clandestino. Trova qui la propria pregnanza l’idea dei giuristi romani più volte ripetuta da Legendre secondo cui nasciamo sempre una seconda volta, siamo cioè figli di un testo, il testo giuridico, nel quale ci scopriamo iscritti, burattini parlanti secondo una grammatica che ci tiene attaccati alla vita e che ci istituisce nella figura dell’umano. Al di fuori di questa seconda nascita, supplemento della prima, saremmo confinati nella dimensione selvaggia e informe dell’esistenza, ovvero in quel dominio dell’impersonale che resta inevitabilmente irrecuperabile nell’immagine dell’Uomo.
Qui si manifesta la verità dell’affermazione secondo cui le istituzioni ci possiedono: vera al punto che possiamo ben dire di averle nel sangue, vera al punto che, a ben vedere, sembra ormai essere molto difficile, per noi, distinguere chi siamo in rapporto al potere, sentire ciò che di non istituito insiste al fondo delle nostre vite e che si trova oggetto di un continuo lavoro d’istituzione che si può pensare anche come lavoro di produzione del sinthome/saint’homme. E tuttavia una simile vita-non-istituita si agita al fondo delle nostre esistenze, vi insiste senza posa. Qui, dove le vite si trovano scritte nel testo che le istituisce, dove il sant’uomo sembra prendere la parola, qualcosa grida.
Sarà allora, forse, sullo sfondo dell’immagine del sant’uomo che bisognerà leggere l’insistenza con la quale Legendre associa i sudditi dello Stato e della sua burocrazia all’animalità. Che si tratti della metafora del bestiame, del gregge o della mandria, l’animale si trova continuamente posto accanto al sant’uomo, come sua controfigura. Quest’opposizione sembra innanzitutto raddoppiare quella tra parola e silenzio. Se il sant’uomo, emblema della vita istituita e resa innocente attraverso la Legge, parla, nella mistica indistinzione della società perfetta nella quale la differenza tra capo e sant’uomo si fa estremamente flebile, la parola del potere, ovvero la parola che questo gli ha dato, l’animale dal quale, in fondo, mal si distingue, è designato come muto. La mandria dei sudditi, il bestiame umano, ciò che di propriamente animale ne attraversa cioè la figura, è essenzialmente muto nella misura in cui non ha una parola propria, ovvero nella misura in cui l’unica parola dotata di efficacia sociale è quella del potere e, dunque, quella ripetuta dal sant’uomo. I sudditi, sempre più vicini in questo ai loro capi, restituiscono alla Legge la parola che questa ha dato loro, istituendoli e, così, salvandoli, e dichiarando al contempo che qualcosa di proprio da dire, nell’ordine del potere, non ce l’hanno. L’interdetto della Legge, che agisce sulla capacità stessa del desiderio di desiderare altro rispetto a quanto il potere vuol far desiderare, passa anche, necessariamente, per l’afasia dei suoi sudditi, ovvero colpisce la stessa capacità di questi di articolare una parola efficace. Al sant’uomo che canta la legge e ai capi che ne saranno sempre stati i più perfetti modelli, si oppone il bestiame muto, privato della parola per mezzo di una sorta di censura preventiva volta a esaurire la parola stessa, ad allinearne i sensi, a metterla in riga.
In gioco, qui, non è, evidentemente, l’affermazione controfattuale per cui i sudditi del potere non parlano, quanto piuttosto l’idea, claustrofobica sino all’estremo, secondo cui i sudditi dello Stato non sarebbero capaci di una parola svincolata dall’occupazione dell’immaginario messa in atto dalle istituzioni. Se l’uomo è un’epifania della Legge, un suo prodotto, e, al contempo, si presenta come l’animale dotato di parola, ecco che quest’ultima si trova, in quanto tale, investita dall’ombra di un legame inaudito con il potere.
E, tuttavia, il silenzio muto del bestiame umano non deve essere pensato semplicemente come l’opposto della parola, quanto, forse come una sua variazione tutta interna, come una sua minorazione. Se, infatti, il bestiame umano non parla, esso tuttavia grida. All’inizio e alla fine del testo, inaugurazione e sigillo di un’opera che sembra tutta votata all’osservazione della gloria del potere, si trova, infatti, ripetuto un sintomatico gioco di parole che verte sull’equivocità fonica dell’espressione francese ça s’écrit. Nell’equivoco dei sensi giocato tra scrittura e voce, quest’espressione ci informa del fatto che là dove qualcosa si scrive (ça s’écrit) nell’ordine del potere, dello Stato, della Patria, in quello stesso luogo qualcosa si grida (ça se crie). Dietro il mistero dello Stato e della burocrazia, alla cui analisi Legendre ha fornito un contributo essenziale, si rivela allora un altro segreto, minore, marginale, e tuttavia decisivo, quello del fondo irriducibile dell’esistenza e del rapporto che questo intrattiene con la parola. Il grido, attribuito a ciò che di bestiale attraversa la figura istituita dell’umano, è la forma stessa di questo rapporto, inteso innanzitutto come inciampo, disordine, se non come vera e propria lacerazione che insiste nella parola del potere parlata dal sant’uomo. Il grido della creatura sarà allora qualcosa come il segno di una vertiginosa minorazione della parola, l’apertura alla sua costitutiva equivocità e impotenza, intesa come incapacità di esaurirsi, di chiudersi in un senso cui pretendere di ridurre il reale.
Parafrasando Georges Bataille, si potrebbe forse dire che solo questo grido rivela, della parola, il momento sovrano in cui essa non ha più corso, laddove questo stesso non aver più corso non rinvia ad altro se non al momento in cui il senso finito può tornare a essere senso aperto, possibile, non significato ma infinitamente significante, una significazione aperta verso ciò che nessuna potenza potrebbe completare né, di conseguenza, asservire.